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Wsis a Ginevra
by Epimeleia Thursday, Dec. 11, 2003 at 5:34 PM mail:

Dal Manifesto di ieri

Mattelart, il comunicatore
Armand Mattelart è uno dei massimi studiosi della comunicazione a livello mondiale. Francese di nascita, ha però iniziato la sua attività di docente universitario nel Cile di Salvator Allende, dove ha partecipato attiviamente alla breve esperienza di governo di «Unidad Popular» come consigliere del presidente. Ritornato a Prigi, insegna da allora all'Università Paris VIII. Tra i suoi libri tradotti: «La mondializzazione della comunicazione» (Editori riuniti), «L'invenzione della comunicazione» (Saggiatore), «La comunicazione mondo» (Saggiatore) e «Storia della società dell'informazione» (Einaudi)

Il costo di un bene comune
Da oggi a Ginevra il Summit mondiale sulla «società dell'informazione»
L'utopia di una informazione libera alle prese con l'ideologia del libero mercato che domina il Wsis. I dubbi e le critiche delle organizzazioni non governative che denunciano il «digital divide» e le leggi sulla sicurezza informatica che limitano il diritto d'accesso alla comunicazione
ARMAND MATTELART
Il vertice di Ginevra sulla «società dell'informazione» si tiene ad appena un decennio dall'avvento di Internet come rete pubblica. Questa reattività nella risposta è all'altezza del carattere strutturante della nuova «risorsa intellettuale», del nuovo «capitale cognitivo», che sta per investire tutte le attività umane. Troppo spesso, oggi, si dimentica che ci sono voluti tre quarti di secolo perché fosse rimessa in causa l'ingiusta suddivisione dello spettro di frequenze tra le grandi potenze marittime. Solo nel 1979, e grazie alla pressione del «Movimento dei paesi non allineati», la Conferenza amministrativa mondiale della Radio (Camr) convocata dall'Unione internazionale delle telecomunicazioni (Uit) smantellò quel monopolio di onde. La storia della nozione di «società dell'informazione» è carica di ambiguità. E lo è ugualmente quella più recente di «società globale dell'informazione», coniata nel 1995 dai sette paesi più industrializzati (G7). E' da molto tempo che una lunga tradizione di pensiero critico ha svelato i presupposti ideologici del concetto di «informazione», indicando gli effetti collaterali della confusione tra quest'ultimo e quello di sapere.

L'informazione riguarda il tecnico. Il suo problema è trovare la codificazione più efficace (velocità e costo) per trasmettere un messaggio telegrafico da un emittente a un destinatario. Importa solo il canale. La produzione di senso non è in programma. L'informazione è tagliata fuori dalla cultura e dalla memoria. Essa «corre dietro l'attuale» come diceva lo storico Fernand Braudel. La forma di temporalità che essa implica risparmia sul tempo di elaborazione del sapere. Lo schema meccanico del processo di comunicazione è consustanziale alla rappresentazione lineare del progresso. In base a questo schema l'innovazione si diffonde dall'alto verso il basso, dal centro verso la periferia.

Questa prospettiva strumentale spiega perché, nella pratica, un organismo tecnico come la Uit possa essere promosso ad anfitrione di una conferenza sul divenire della «informazione» e delle sue reti, e perché l'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) possa classificare la «cultura» come «servizi» e rivendicare prerogative su di essa. Questa prospettiva permette ugualmente di cogliere le ragioni per cui la «società dell'informazione», come paradigma del futuro post-industriale, si sia trovata dagli anni `50 associata alla tesi della fine delle ideologie, della fine degli intellettuali critici a vantaggio dell'irresistibile ascesa degli intellettuali «positivi», inclini a prendere decisioni.

La stessa Unesco, dopo aver privilegiato a lungo il termine «società dell'informazione» tende a sostituirle l'idea di «società del sapere». Diventa così possibile tessere un legame organico tra la questione delle tecnologie e quella della «diversità culturale», messa all'ordine del giorno dal progetto di «Convenzione internazionale per la conservazione della diversità culturale» al termine dell'ultima Conferenza generale tenuta da questa organizzazione a Parigi nell'ottobre 2003.

Interrogarsi sulla nozione di società dell'informazione è oggi una priorità. Ma questa critica è solo un episodio nella guerra delle parole contro tutti gli slittamenti semantici della lingua, i neologismi globalizzanti, che giorno dopo giorno si naturalizzano senza che i cittadini abbiano avuto il tempo di praticare il dubbio metodico nei loro confronti e di identificare il luogo dei loro inventori e operatori.

Il messianesimo è connesso alla storia degli immaginari della comunicazione. Ogni salto nella padronanza del tempo e dello spazio ha visto riaggiornarsi la promessa di una società più solidale, trasparente, libera, egalitaria e prospera. Nel 1849 Victor Hugo profetizzava il «filo elettrico della concordia» che «circonderà il globo e stringerà il mondo». Alla vigilia della grande guerra, Jack London celebrava la pellicola magica come «messaggera dell'educazione universale che avvicina i popoli del mondo.» Mentre si avvicinava il secondo conflitto mondiale padre Teilhard de Chardin pronosticava la «universalizzazione della noosfera» punto finale dell'unificazione del genere umano.

La fine del millennio non fa eccezione. Con la deregulation delle reti finanziarie e dell'informazione, la bolla discorsiva sui paradisi reticolari si combina con la bolla speculativa. La prima in equilibrio instabile con le realtà del tecno-apartheid, la seconda con l'economia reale. Il confronto tra governi, agenzie delle Nazioni unite, settore privato e società civile nel corso delle conferenze preparatorie del vertice (prepcom) ha però messo in dubbio la credibilità dei felicissimi discorsi sulla suddetta «rivoluzione dell'informazione».

Qual è la strada verso l'organizzazione sociale delle tecnologie? Quali attori vi sono coinvolti? Nelle svariate versioni del progetto di «Dichiarazione» e del «Piano d'azione» di questa fase preparatoria, gli emendamenti e le soppressioni proposte hanno svelato una trama di risposte contrastanti. Le trattative che si si sono concluse nella terza prepcom (15-26 settembre 2003), l'ultima ufficialmente prevista, non sono arrivate a un documento che traducesse «un'intesa comune e armoniosa». Gli articoli della Dichiarazione, circa cinquanta e suddivisi in undici sezioni, sono rimasti infarciti di frasi o parole tra parentesi. Tant'è che gli organizzatori hanno dovuto convocare due sessioni supplementari a metà novembre e dal 7 al 9 dicembre 2003.

La filosofia dei beni pubblici comuni, secondo cui l'informazione, il sapere e la cultura devono sfuggire alla logica del mercato, riesce però a malapena ad aprirsi una strada tra l'invocazione dei dettami della «cultura della sicurezza» e della «sicurezza delle reti», pronti a sacrificare sull'altare delle leggi anti-terrorismo il diritto di comunicare dei cittadini, e i proclami sulle virtù autoregolatrici delle nuove forze della natura, il mercato e la tecnica. Il settore privato, riunito nel «Comitato di coordinamento degli interlocutori commerciali» sotto la presidenza della Camera di commercio internazionale, rivendica la posizione di mentore e direttore della società dell'informazione.

Lo stato dovrebbe limitarsi a organizzare un «ambiente favorevole» allo spiegamento tecnologico, a sopprimere ogni impedimento agli investimenti e a sciogliere la competitività. Non si nega che il rispetto della diversità culturale e linguistica sia alla base della società dell'informazione, ma si mette in risalto che la promozione dei contenuti locali non deve «creare irragionevoli barriere al commercio». Il mercato crea la diversità dell'offerta. Tutte argomentazioni ampiamente espresse in altre tribune, per esempio la Wto, il G8, e a cui aderiscono i governi a corto di progetti di «modernizzazione».

In un contesto di concentrazione crescente, i grandi gruppi mediatici non vogliono assolutamente veder messa in piazza la questione della censura economica, e i governi autoritari sono poco inclini a rispondere del loro regime di censura permanente. Anche gli attori della società civile trovano grandi difficoltà a far sentire la propria voce sulla democrazia e i media. La versione finale si orienta verso un articolo molto breve. Il che è paradossale, considerato il carattere strategico che dovrebbe rivestire il dibattito sulla libertà d'espressione e il diritto di comunicare.

Ma è uno dei rari articoli che si riferisce apertamente al servizio pubblico e ai media comunitari nella creazione di media «indipendenti, pluralisti e liberi» (queste parole sono ancora tra parentesi nella versione prodotta dalla terza prepcom!). Le organizzazioni della società civile hanno espresso agli organizzatori del vertice il proprio malcontento per il modo in cui il progetto di Dichiarazione prendeva in considerazione l'insieme dei loro contributi e, pur continuando a partecipare alle trattative ufficiali, al termine della terza conferenza hanno deciso di produrre, prima della realizzazione del vertice, una propria «Dichiarazione comune». Prova che in occasione di questa prima esperienza di partecipazione attiva a un vertice delle Nazioni unite, la società civile organizzata è riuscita a costituirsi in una forza unita, a dispetto del carattere eterogeneo dei suoi componenti.

Se c'è un argomento controverso, è quello delle regole riguardanti la proprietà intellettuale. Esso è anche all'origine di un nuovo gap tra Nord e Sud. Le proposte di revisione fatte da numerosi governi del terzo mondo, sostenuti da organizzazioni della società civile, si scontrano con un rifiuto categorico. Motivo: la questione riguarda altre istituzioni multilaterali come la Wto e l'Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (Wipo). Nella sua versione provvisoria (tra parentesi) del settembre 2003, l'articolo 33 si limita a segnalare: «La protezione della proprietà intellettuale è indispensabile per incoraggiare l'innovazione e la creatività nella società dell'informazione. In ogni modo, stabilire un giusto equilibrio tra la protezione della proprietà intellettuale, da una parte, e il suo uso e la divisione del sapere dall'altra, è essenziale per la società dell'informazione».

Non si vede di buon occhio il criterio che, in una società-mondo sotto l'influenza dei monopoli dell'informazione e del sapere, permetterebbe di fissare il «giusto equilibrio» (bilanciare), come base per una «info-etica», per riprendere l'espressione dell'Unesco. Non siamo comunque vicini a vedere realizzarsi l'augurio, che il programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp) aveva prefissato nel suo «Rapporto sullo sviluppo umano» pubblicato nel 1999, di vedere evolvere le regole di gestione della proprietà intellettuale in modo tale da «stabilire un sistema che non neghi l'accesso al sapere ai paesi in via di sviluppo.»

Sembra del resto che qualsiasi tentativo di rompere con l'unilateralismo e la mancanza di trasparenza delle istituzioni private e pubbliche che abbiano competenze relative ai mercati aperti alla società dell'informazione, sia destinato a incontrare grandi resistenze. E' il caso dello statuto dell'Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), istituzione privata che dagli Stati uniti gestisce gli indirizzi di internet su scala mondiale, simbolo del tropismo della rete delle reti. Raggiunta questa grandezza è del tutto normale predicare il «principio della neutralità tecnologica»; in parole povere, esortare il vertice ad astenersi dal «promuovere e sviluppare i software liberi» davanti ai sostenitori della revisione delle regole sulla proprietà intellettuale.

Il rischio che corre la Dichiarazione finale è proclamare grandi principi con cui nessuno possa dirsi in disaccordo, sulla solidarietà «tra i popoli del mondo», la cooperazione internazionale, le identità culturali, mentre nel profondo, imperversa il determinismo tecnico.

Stroncare il digital divide da qui al 2015 connettendo a Internet scuole, biblioteche, ospedali, amministrazioni pubbliche, locali e nazionali: ecco l'obiettivo. La «connettività» diventa la parola d'ordine; la e-educazione, la e-sanità, l'e-governo la sua vetrina promozionale. Il discorso sul digital divide fa così da schermo alle innumerevoli fonti della divisione sociale. A cominciare da quella che è all'origine delle ineguaglianze in materia di scolarizzazione. La solidarietà, a sua volta, si declina col digitale. Davanti al rifiuto dei governi del Nord di finanziare progetti, il governo del Senegal ha proposto la creazione di un «fondo di solidarietà digitale», finanziato da doni di utenti di informatica. Siamo ben lontani dalle raccomandazioni fatte dall'Undp nel rapporto già menzionato: tassare il flusso internazionale di telecomunicazione e i brevetti depositati all'Ompi, visto che queste operazioni fanno uso di risorse mondiali comuni.

Quali «società di sapere»? Se non si vogliono riprendere i miti tecnicisti portati dalla «società dell'informazione» un giorno bisognerà decidersi a interrogarsi sui cambiamenti strutturali in corso nelle condizioni di produzione e di circolazione dei saperi, in tutto il mondo. Ecco che cosa indica l'urgenza di scambiare l'idea di vertice dell'informazione con quella di stati generali del sapere. Augurandosi che la dinamica sia, questa volta, data da una società civile allargata, ansiosa di inserire la questione della tecnica nel divenire della democrazia.

Copyright Le Monde diplomatique/il manifestoTraduzione di Paolina Baruchello

L'informazione negata
Parte il Wsis. Ma la polizia chiude il media center alternativo
SERENA TINARI
Connecting people for a better life: mettiamo in rete le persone, per una vita migliore. La brochure è a colori: foto patinate di indiani ed africani col cellulare nella sinistra, la telecamera nella destra e naturalmente, una postazione Internet a banda larga. Sorridenti e digitali: una cartolina dal sud del pianeta che non c'è. La pubblicazione, firmata da una società leader nella telefonia cellulare, è nella cartella stampa ufficiale del Wsis, ovvero del World summit on the information society. E non si tratta di una fortuita coincidenza. Sono proprio quelle, in fondo, le parole d'ordine del primo summit delle Nazioni Unite sulla società dell'informazione che si apre oggi a Ginevra. Un vertice dai grandi numeri: delegati da 192 paesi e 64 capi di stato, 8000 vip e 2000 osservatori dal mondo delle associazioni. Con funzionari e portaborse, in tutto almeno ventimila persone. Prima durante e dopo le sessioni ufficiali, una galassia infinita di conferenze e controvertici: il Wsis promette di essere una vera maratona. Il primo giudizio impietoso lo dà uno degli organizzatori, il giornalista Guillaume Chenevière intervistato dal settimanale L'Hebdo: «Il Wsis ha già fallito un primo obiettivo: comunicare se stesso». In effetti, il vertice è passato finora quasi inosservato sui media elvetici. Si è fatta sentire la voce del mondo dell'impresa, con l'accorato appello della Camera di commercio internazionale, che chiede al Wsis «di non perdersi in retorica e lasciare ai privati la libertà di svolgere la loro funzione». Detto in soldoni: «Fateci lavorare». La posta in gioco è effettivamente alta.

Qualche numero? A Manhattan ci sono più telefoni che in tutto il continente africano. In India, meno dell'un per cento della popolazione possiede un computer. La connessione costa l'1,2 per cento dello stipendio di un lavoratore medio americano, il 278 per cento di quello di un nepalese. A tutto questo il Wsis dovrebbe dare risposte, con una «Dichiarazione di principi» ed un «Piano di azione», da rivedere a Tunisi nel 2005. Lunedì la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e l'Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) sono tornate alla carica e hanno posto tre condizioni per lo svolgimento del vertice nel 2005: che la Tunisia mostri la volontà di migliorare lo stato della libertà di stampa nel paese; la revoca della presidenza del Comitato organizzatore, affidata al generale Habib Ammar; che il governo tunisino garantisca l'accesso al summit per media e società civile. Condizioni non esose, che pure non sembrano all'orizzonte. Il presidente tunisino è atteso oggi a Ginevra per l'inaugurazione del Wsis, con Kofi Annan ed il presidente svizzero Pascal Couchepin.

Sarebbe stato raggiunto nella tarda serata di sabato, invece, l'accordo fra le delegazioni governative sui documenti da sottoporre ai capi di stato. Superate secondo Marc Furrer, che ha condotto le trattative, «le dispute su diritti umani, libertà dei media, diritti di proprietà intellettuale, gestione e sicurezza di internet». Nei prossimi giorni, scopriremo come e a che prezzo. Punto e a capo invece per la proposta, lanciata dal Senegal, di un fondo internazionale per la «solidarietà informatica»: un Comitato dovrà valutare proposte da portare a Tunisi. Soddisfatti Stati Uniti, Unione Europea e imprese, che avevano espresso riserve sull'iniziativa.

Fuori dal vertice, la prima giornata del fronte autorganizzato è stata faticosa. Una dozzina di persone, giunte da vari paesi europei per mettere in piedi il «PolimediaLab», un media-center per scambiare saperi ad alta tecnologia, sono state identificate e sgomberate dalla polizia di Ginevra, che si è presentata in tenuta antisommossa. Il capannone che doveva ospitare i workshop non era, a quanto pare, a norma di legge. Imperfezione organizzativa che le forze dell'ordine ginevrine non hanno esitato a cavalcare. Fino a tarda sera sono andate avanti le trattative con le autorità politiche della città per l'assegnazione di una sede alternativa: «possibile che durante il vertice per le tecnologie dell'informazione e della comunicazione non si trovi uno spazio per ospitare chi la comunicazione la fa dal basso e con ogni media necessario?».

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