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- economie - - umbria -
sindacato diessino
by cooder Thursday January 22, 2004 at 09:28 PM mail:  

Non ci dobbiamo nascondere che il sistema produttivo regionale – e in particolare quello industriale – sta attraversando una fase non positiva. Non abbastanza, o forse per nulla in controtendenza rispetto alla stagnazione economica nazionale.

Convegno CGIL
“Dall’Umbria un progetto alternativo di sviluppo e qualità sociale”

Orvieto, 18 febbraio 2003



Comunicazione di
Bruno Bracalente





Siamo alla vigilia di uno sciopero nazionale che la Cgil ha proclamato per denunciare i rischi evidenti di declino industriale del paese e l’assenza, ancor più evidente, di ogni politica industriale – ma forse si potrebbe dire di ogni politica economica – da parte del Governo nazionale.



Noi dobbiamo chiederci non certo se questi temi ci riguardano, se riguardano anche il nostro sistema produttivo regionale: perché ci riguardano senza dubbio; non ci sono isole immuni dai problemi generali del paese. Ma dobbiamo chiederci come ci riguardano, con quali specificità; per affrontare quale situazione congiunturale e soprattutto quali nodi strutturali che permangono irrisolti. Per realizzare quale prospettiva di sviluppo, che non è la stessa in ogni parte del paese, ma dipende dal cammino percorso, dalle caratteristiche dei sistemi produttivi, dalle peculiari risorse di cui dispone ogni territorio, dalle politiche che si adottano localmente, oltre che a livello nazionale.



Il Convegno di oggi, già dal titolo, e la relazione di Mario Giovanetti, presentano chiaro questo segno. E neppure io mi allontanerò da questa traccia.



Per far emergere correttamente i problemi veri e le prospettive, conviene separare gli aspetti congiunturali, di breve periodo, dalle tendenze di carattere più generale. Qualche accenno alla fase congiunturale. Non ci dobbiamo nascondere che il sistema produttivo regionale – e in particolare quello industriale – sta attraversando una fase non positiva. Non abbastanza, o forse per nulla in controtendenza rispetto alla stagnazione economica nazionale.



I dati sulle economie regionali resi noti di recente dall’Istat per il 2001 assegnano all’Umbria un risultato, in termini di crescita del prodotto interno lordo regionale, sensibilmente inferiore alla pur modesta crescita media del paese e del Centro Nord, in particolare proprio per quanto riguarda l’industria. E nel 2002 le cose non sono migliorate: la recente indagine congiunturale mostra anzi una ulteriore frenata, in particolare in alcuni settori. Ma al di là dei dati, come ha ricordato Giovanetti, sono numerose e sotto gli occhi di tutti le crisi aziendali, specialmente nel settore del tessile abbigliamento; e sono evidenti le difficoltà delle numerose aziende umbre dell’indotto Fiat.



Questa è la situazione congiunturale. Una congiuntura, ormai abbastanza lunga, non positiva. Che non è però da considerare indicativa di una tendenza di fondo. Le tendenze di fondo e le prospettive del sistema produttivo regionale presentano indubbiamente anche punti critici, ma penso abbiano tutto sommato un altro segno. Per comprenderle meglio, nelle potenzialità come negli aspetti problematici, è bene allargare un po’ lo sguardo fuori dai confini della nostra piccola economia regionale, e vedere come si colloca in una geografia economica del paese che sta cambiando.



Le difficoltà crescenti dell’industria e dell’economia del paese hanno anche una connotazione territoriale diversificata. Da una parte, l’aggravamento della crisi della grande impresa, di cui la crisi Fiat è l’elemento più emblematico, porta con sé, da tempo, un rallentamento evidente non solo dell’industria, ma dell’intera economia del Nord Ovest.



Da un’altra parte, a questo rallentamento si accompagna, per la prima volta dopo tanti anni di crescita economica sostenuta, segnali di appesantimento, di stanchezza, anche del sistema produttivo del Nord Est. Che in parte è di carattere congiunturale: dipende dall’acuirsi della più generale difficoltà delle esportazioni, che sono il primo motore di quella economia. In parte deriva dai problemi che tutto il sistema italiano di piccola impresa si trova ad affrontare con l’ampliamento dei mercati e il conseguente inasprimento della competizione.



Ma non è solo questo: è forse che si cominciano a vedere i sintomi della saturazione, del capolinea di un modello. Un modello che ha dato molto: basti ricordare gli enormi flussi migratori che originavano da quelle regioni solo qualche decennio fa e confrontarli con gli attuali flussi di immigrazione. Ma che ha anche consumato molto: territorio, risorse ambientali; ma anche coesione e qualità sociale, di cui un elemento emblematico è l’insufficiente investimento in istruzione dei giovani.



In questo quadro piuttosto negativo, soprattutto in termini di prospettive (che si completa con la persistente, seppure non omogenea, difficoltà del Mezzogiorno) a me pare tuttavia che qualche segno diverso pure si intraveda. E che riguardi proprio quella fascia del paese, di cui l’Umbria è parte, il cui modello di sviluppo, pure fondato sulla piccola impresa, si è andato differenziando da quello del Nord Est.



Un modello fondato sulla piccola e media impresa manifatturiera “tipica”, ma anche su fattori di sviluppo e di competitività diversi. In primo luogo, la peculiarità delle risorse territoriali in senso lato (ambiente, centri storici, beni culturali, prodotti tipici): risorse molto più salvaguardate e valorizzate, che sono diventate non solo un fattore di identità regionale (e di qualità della vita), ma saranno sempre più un fattore importante di sviluppo. E poi la qualità e coesione sociale, altrettanto peculiari e altrettanto salvaguardate e valorizzate con adeguate politiche pubbliche. E anche una maggiore capacità delle istituzioni di progettare lo sviluppo locale e regionale, di produrre beni collettivi, di favorire le relazioni tra le forze sociali, di fare concertazione, di cui il Patto per lo sviluppo promosso dalla Regione e sottoscritto in Umbria è il più recente esempio.



Un modello, un territorio, quello di queste nostre regioni dell’Italia centrale, che se non lo esprime ancora appieno, certo può ambire ad esprimere quel “Progetto alternativo di sviluppo e qualità sociale” che è nel titolo di questo Convegno. Un modello, un progetto nel quale la qualità sociale sia un fattore dello sviluppo, ma anche un risultato dello sviluppo, una componente di quella equità dello sviluppo che nelle nostre società dovremo imparare rapidamente a considerare importante almeno quanto la crescita quantitativa dell’economia.



Qualche dato sull’andamento delle economie regionali comincia a mostrare che a quella differenziazione del modello di sviluppo – che non è di oggi – inizia forse a corrispondere una maggiore dinamicità economia delle nostre regioni. Ad esempio, Toscana, Umbria e Marche, insieme considerate, in quattro anni (dal 1996 al 2000) hanno ridotto del 20% il divario che le separa storicamente dai parametri medi del Centro Nord, sia in termini di Pil pro capite, che delle sue componenti: produttività del lavoro e tasso di occupazione della popolazione.



Quali sono i motori che hanno spinto questo sottosistema del Centro Nord? L’industria manifatturiera, in particolare la meccanica (cresciuta a tassi doppi rispetto alla media del Centro Nord); più in generale l’industria “tipica”, il “made in Italy”. E il terziario, a partire dai settori legati all’economia turistica, che a sua volta si fonda, in queste regioni, su quelle peculiari risorse territoriali, ambientali, culturali di cui si è detto; fino a tutto il terziario privato (dall’informatica agli intermediari finanziari).



Al di là della congiuntura, l’Umbria è in questo contesto. I suoi problemi e le sue opportunità di sviluppo sono quelle di tutta questa parte del paese. In quel periodo 1996-2000, e in particolare a partire dal 1998, l’Umbria è stata la regione che ha realizzato i più elevati tassi di crescita tra tutte le regioni italiane, sia del Pil, sia e ancor più dell’occupazione: quasi 30 mila occupati in più (quasi tutti alle dipendenze) e 15 mila disoccupati in meno. In questi anni è stata colmata una parte notevole del divario di tasso di occupazione della popolazione, che è un divario di carattere strutturale che ha storicamente separato il nostro sistema produttivo anche da quelli delle regioni più simili alla nostra. Ed è stato dimezzato il tasso di disoccupazione.



Ma detto questo, il nostro è anche un sistema produttivo nel quale permangono limiti ed elementi di debolezza che ben conosciamo. Elementi di debolezza che peraltro non si attenuano nelle fasi di crescita, e neppure nell’ultima appena ricordata. Anzi, proprio perché in Umbria la crescita tende a produrre più occupazione (è stato così anche in passato), tende anche a riaprire qualche divario di produttività. Anche rispetto alle realtà regionali a struttura produttiva più simile, in particolare in alcuni settori: la meccanica, la carta stampa editoria, un po’ anche la moda.



Ai divari di produttività che in parte si riaprono tendono peraltro a corrispondere di nuovo anche più bassi livelli delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Tende a riemergere, insomma, quella propensione a ritrovare in basso l’equilibrio del costo del lavoro per unità di prodotto, e quindi della competitività, che pure non è nuova.



A questi elementi critici non è peraltro estraneo quel forte dualismo dimensionale presente nell’ambito delle stesse piccole e medie imprese, i cui risultati complessivi, così come i livelli di produttività, sono condizionati da quelli molto modesti delle piccolissime imprese, sotto i 20 addetti.



Questo, nelle grandi linee, è il quadro. Un quadro nel quale non mancano punti di debolezza, problemi da affrontare con politiche adeguate. Ma non mancano neppure potenzialità positive e prospettive di sviluppo, che per essere colte appieno richiedono anch’esse politiche adeguate. Allora, qualche considerazione sulle politiche.



Non c’è dubbio che la possibilità di incidere concretamente sui problemi e sui fattori dello sviluppo regionale passa quasi per intero per i programmi comunitari. Giovanetti lo ha detto molto chiaramente: è così, ed è così non da oggi, anche se oggi più che mai. Da quando sono stati introdotti, alla fine degli anni Ottanta, nella forma dei fondi strutturali, i programmi comunitari sono stati il vero e pressoché unico strumento con cui le Regioni hanno potuto iniziare concretamente a fare politiche per la promozione dello sviluppo. Politiche rivolte in particolare proprio al rafforzamento dei sistemi di piccola e media impresa, ma non solo a questo obiettivo.



In Umbria, ad esempio, una parte consistente delle risorse e dei programmi comunitari è stata destinata, fin dalla fine degli anni Ottanta, al rafforzamento di quell’asse ambiente-beni culturali-turismo che quindici anni dopo, con quest’ultimo ciclo 2000-2006, è diventato strategico anche per gli indirizzi dell’Unione Europea.



Un asse che nel frattempo è diventato uno dei punti di forza dello sviluppo regionale e che sarà sempre più rilevante per lo sviluppo futuro, se intendiamo perseguire con coerenza quel modello di sviluppo sostenibile fondato sull’industria moderna, ma anche su quelle risorse territoriali in senso lato che rappresentano uno specifico “vantaggio comparato” di questa parte del paese.



Con coerenza vuol dire diverse cose: politiche ambientali molto rigorose, mai subordinate ad altre politiche; politiche urbanistiche che non consumino territorio e non spingano al degrado i centri storici, che rappresentano un capitale non riproducibile da valorizzare e non da sperperare; e infine vuol dire anche proseguire – e possibilmente rafforzare – l’impiego dei fondi strutturali in questa direzione, come peraltro sta avvenendo anche nel ciclo di programmazione appena iniziato.



Più difficile è, invece, ragionare dell’efficacia dei programmi comunitari, e del loro impiego efficiente, per rafforzare il sistema delle piccole e medie imprese industriali, che è e resta un punto centrale per dare forza e qualità allo sviluppo futuro.



Che i programmi comunitari abbiano spinto gli investimenti privati, e contribuito all’ampliamento della base produttiva e alla crescita dell’industria e dell’economia della regione, mi pare fuori di dubbio. Guardiamo agli ultimi 12-13 anni, durante i quali, per inciso, l’economia umbra tra alti e bassi è cresciuta mediamente di quasi mezzo punto percentuale in più all’anno rispetto alla media del Centro Nord, così come peraltro avviene da più di trent’anni, dall’inizio del processo di sviluppo fondato sulla piccola e media impresa.



Se guardiamo a quel periodo, ci sono due fasi durante le quali l’economia umbra è cresciuta sensibilmente più della media del Centro Nord: dalla fine degli anni Ottanta al 1993 e nel periodo 1996- 2000. Un punto in più all’anno in entrambi questi periodi, cioè in corrispondenza con i periodi in cui erano pienamente in atto, rispettivamente, la prima generazione dei fondi strutturali e la seconda generazione (gli Obiettivi 2 e 5B).



Vuol dire che la nostra economia è assistita e dipendente dalla spesa pubblica? No, vuol dire che i programmi comunitari hanno funzionato, almeno per quanto riguarda i risultati in termini di tassi di crescita, così come hanno funzionato in tante regioni d’Europa (ma meno in altre, in particolare in Italia).



Quanto gli strumenti della programmazione regionale-comunitaria abbiano rafforzato qualitativamente il sistema delle piccole e medie imprese industriali è invece questione più complessa, che andrebbe approfondita. In ogni caso, la proposta della Cgil di un uso più selettivo delle risorse è da condividere.



Non c’è dubbio, ad esempio, che un punto centrale è il rafforzamento dimensionale delle PMI. Per varie ragioni. Intanto perché da lì passa il necessario aumento della produttività. Va ricordato che c’è, nel sistema nazionale, un divario dell’ordine del 40-60% tra il valore aggiunto per addetto delle imprese della classe 20-100 addetti (lasciamo da parte le imprese maggiori) e quelle con meno di 20 addetti. E questo è vero in tutti i settori tipici della nostra economia regionale di piccola e media impresa: nella moda, nella meccanica, legno e mobili, ceramiche e materiali per l’edilizia, ecc.



Più in generale, perché dal rafforzamento dimensionale passa la possibilità di continuare a competere con successo nell’economia internazionalizzata di oggi e del futuro. Un rafforzamento che deve prendere anche la forma della maggiore integrazione tra le imprese, anch’essa da incentivare con appropriate politiche e con le necessarie risorse.



Questa è in realtà una delle principali questioni nazionali, se si vuole combattere il rischio di declino industriale del Paese. L’aumento della dimensione caratteristica delle PMI, il rafforzamento del loro carattere sistemico, insieme all’intensificazione del contenuto di ricerca e di innovazione sia nelle piccole che nelle grandi imprese.



Non si tratta di cambiare i caratteri fondanti del sistema produttivo del Paese, che sarebbe velleitario, oltre che sbagliato. Si tratta di sostenere l’evoluzione necessaria del sistema delle piccole e medie imprese, aumentandone la dimensione tipica e il grado di integrazione, in modo che quel sistema possa continuare a svolgere la sua funzione di asse portante dell’economia del Paese – e delle nostre regioni, in particolare – anche nelle attuali, mutate condizioni.



Non è un caso che il Piano regionale di sviluppo 1999-2002 abbia indicato questo obiettivo al primo posto tra le politiche regionali. Il nuovo Obiettivo 2 è chiamato non solo a riproporre le misure già presenti nel precedente ciclo di programmazione, ma anche a rafforzarle.



Concludo con un’ultima considerazione sulle politiche. Con una premessa. Il 1996 in Umbria è stato l’anno di più acuta crisi di un periodo molto negativo (a confronto con il resto dell’economia del paese) iniziato nel 1993, con un clima di fiducia particolarmente depresso, in particolare nella città di Terni, dove tra l’altro la siderurgia aveva dimezzato i livelli produttivi; ma la fiducia non era maggiore nel resto della regione.



Dopo il 1996, tra gli strumenti utili per la ripresa, ma prima ancora utili a invertire quel clima di sfiducia, un ruolo importante l’hanno avuto gli istituti della nuova programmazione negoziata introdotti dal primo governo dell’Ulivo. Il contratto d’area per Terni, Narni e Spoleto; i patti territoriali dell’Orvietano, Trasimeno e Amiata e quello dell’Alta Umbria, anch’esso interregionale, con le aree limitrofe della Toscana, delle Marche, dell’Emilia Romagna. Strumenti che in Umbria sono stati ampiamente utilizzati e che hanno visto un forte protagonismo delle organizzazioni sindacali e delle forze imprenditoriali, oltre che delle istituzioni locali e regionali e del governo nazionale.



Ricordo che qui ad Orvieto, in questa stessa sala, il Sindaco di Livorno, al Convegno di lancio del progetto di cooperazione interregionale tra le regioni dell’Italia centrale, disse che il patto territoriale di Livorno aveva cambiato il clima della città prima ancora di diventare operativo.



Bene. Sappiamo tutti che la fase dell’ideazione di questi strumenti è stata una cosa e la loro gestione è stata cosa ben diversa, che ha lasciato molto a desiderare. Ma non pensiamo che sia stato un errore, prima la presa di distanza dei governi di Centro sinistra, bisogna dire, e poi il completo abbandono di quell’approccio di politica di promozione dello sviluppo da parte del governo Berlusconi, che l’ha sostituito con il suo esatto contrario, cioè con la politica delle “grandi opere”, per il Sud, ma non solo per il Sud?



Quella era una politica di promozione dello sviluppo del Sud, ma anche di molte aree del Centro Nord con vari problemi di deindustrializzazione e riconversione (come Terni) o di insufficiente imprenditorialità (come l’Orvietano e il Trasimeno) o altro, che nasceva da una più profonda comprensione dei meccanismi di sviluppo endogeno fondati sulla piccola impresa locale o sull’attrazione mirata di investimenti complementari al tessuto produttivo esistente; del ruolo dei soggetti locali, prima sociali e poi istituzionali, dello sviluppo. Una politica che non è stata immune da problemi, ma che è stata abbandonata senza valutarne la validità e l’efficacia, né i correttivi da apportare alla luce dell’esperienza.



La sua marginalizzazione significa, peraltro, anche il venir meno di strumenti importanti per quella promozione dello sviluppo locale che superi, in particolare nella nostra regione, quel rivendicazionismo localista di cui ha parlato Mario Giovanetti nella sua relazione.



Dall’Umbria che propone un progetto alternativo di sviluppo e qualità sociale, e che giustamente difende la concertazione, penso debba levarsi una contestazione decisa alle politiche del governo nazionale anche e soprattutto su questo punto. E penso che si debba fare in modo che anche nell’attuale quadro delle politiche nazionali, certamente meno favorevole di qualche anno fa, quella ispirazione di politica di promozione dello sviluppo sia nella misura del possibile salvaguardata e mantenuta, come in effetti si cerca di fare con i progetti integrati di sviluppo locale.


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