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Iraq : Tecniche di interrogatorio
by Paola Saturday, Feb. 14, 2004 at 6:29 PM mail: paola.gasparoli@virgilio.it

TECNICHE DI INTERROGATORIO


La campagna appena fuori Baghdad è verde e rilassante sembra lontana dalle polvere e dagli attentati di Baghdad. Le mucche pascolano serafiche e le anatre nuotano nei canali di irrigazione.
Ma è solo apparenza.

Gennaio, in Iraq fa freddo, verso mezzogiorno si sente un’esplosione a circa due chilometri dalla fattoria di Ahmed. Un’ora dopo sei elicotteri americani sorvolano bassi la campagna, trovano la spianata giusta e dai loro ventri escono decine di soldati.

Inizia il rastrellamento. La case vengono perquisite, le porte abbattute, il cadavere pronto per essere seppellito nel vicino cimitero perquisito.

Alla fattoria arrestano il nipote di Ahmed che era casualmente lì per spendere un po’ di tempo con la sua famiglia. L’anziana nonna viene spintonata, i bambini si spaventano, la giovane moglie stringe a se il bimbo appena nato. La moglie di Ahmed piange. Non c’è il traduttore. Non capiscono, non possono chiedere, non possono cercare di spiegare nulla. Non possono rispondere a nessuna domanda. Alla madre viene puntato il mitra al collo. Mohammed, il nipote di quindici anni viene arrestato.

Passano quattro ore i soldati tornano. Arrivano da una stradina privata spianata da Ahmed per potersi muovere più facilmente in campagna.
Ora tocca ad Ahmed ed al figlio Salah. Vengono arrestati, trascinati sul posto dell’esplosione, viene chiesto loro chi ha messo la bomba, chi ha attaccato l’unità. Non lo sanno. Non hanno niente a che fare con quello che è successo.
Vengono incappucciati - usano il sacchetto che solitamente riempito di sabbia serve per proteggere le finestre da eventuali colpi di arma da fuoco – e ammanettati con le economiche fascette di plastica, vengono presi a calci e caricati su un mezzo militare.

Destinazione, raffineria di Doura, all’interno della quale c’è una base americana.
Arrivati. Il padre cade mentre scende dal mezzo, viene sollevato di peso e risbattuto a terra, così capisce come si sta in piedi!!
Non erano i soli ma il cappuccio impedisce loro di vedere. Vengono portati davanti ad un muro, spintonati a calci, Ahmed perde l’equilibrio, sbatte la testa contro il muro e cade.

Vengono costretti a sdraiarsi pancia a terra, incappucciati ed ammanettati. All’aperto. Sarà la loro condizione per quattro giorni. I loro polsi hanno ancora i solchi delle fascette. La schiena fa ancora male.

Rimangono straiati a terra per 24 ore, senza poter muovere neppure le gambe. Quando si addormentano un calcio ben piazzato li risveglia. Intorno a loro dei cani. Qualcuno urla, è stato morso.

Dopo ventiquattrore concedono loro di sedersi a gambe incrociate, sempre ammanettati dietro la schiena e sempre incappucciati. Ogni tanto un soldato passa e tira calci nelle ginocchia, intorno Ahmed e il figlio Salah sentono risa e scherzi ad ogni anfibio che colpisce una rotula. Impossibile addormentarsi, aspettano solo che ti si chiudano gli occhi per colpirti. I segni sulle ginocchia sono ancora visibili.

Per andare in bagno si deve supplicare. Lo devono chiedere almeno 10/15 volte prima che qualcuno li accompagni e ogni volta che lo si chiede si riceve il calcio di ordinanza. Una volta raggiunto il bagno liberano le mani e tolgono il sacco, ma le mani sono anchilosate e gonfie, le dita hanno perso ogni sensibilità, non si riesce a controllarle. Con estrema dignità e sofferenza Ahmed cerca di spiegarmi che le sue mani erano quasi inutili ed era difficile non sporcarsi.

Al mattino vengono obbligati ad alzarsi e a stare in piedi fino a sera. Il trattamento dura quattro lunghi giorni.
Ogni volta che vengono spostati per un interrogatorio o per andare al bagno vengono trascinati per la collottola e visto che il sacco non viene tolto li fanno sbattere contro muri, porte e stipiti.

Dopo quattro giorni i soldati annunciano che avrebbero dato loro da mangiare. Ahmed viene portato di fronte ad un muro, gli viene tolto il cappuccio.
Vicino a lui un cane. Davanti a lui una ciotola con carne e biscotti. La carne puzza e Ahmed chiede se può mangiare solo i biscotti, i soldati danno tutto al cane. Ahmed si è giocato il pranzo, viene incappucciato nuovamente e riportato al suo posto.

Niente cibo e siamo al quinto giorno.

Il quinto giorno viene trasferito alla ‘Base A’, grande base militare in Doura. Il figlio salah rimane nella raffineria.

Ahmed parla con un soldato arabo, in uniforme militare statunitense. Questo gli dice che lo vuole aiutare e che non lo metterà insieme al gruppo che verrà ‘torturato’. Ahmed si gira e vede delle persone sedute, davanti a loro un militare, questo appoggia una specie di manganello sulla testa e questi cominciano a tremare in tutto il corpo. Manganello elettrico?

Lo trasferiscono in una stanza, gli liberano le mani, gli tolgono definitivamente il cappuccio. Nella stanza ci sono letti e coperte. Può andare in bagno e lavarsi. Finalmente può dormire, ma niente cibo fino alle nove di sera quando arriva un pacchetto di cibo americano precotto.
La stanza è fredda, sono in venti e rimarrà qui altri tre giorni, poi finalmente lo liberano.
Niente delle sue cose gli verrà ridata, ne i soldi e ne la carta d’identità. Gli dicono che può prendere un taxi e pagarlo una volta raggiunta casa sua.

Finalmente a casa.
La paura, lo spavento, le umiliazione sono ancora una ferita aperta, quando i soldati tornano. Rastrellano l’area, raccolgono la gente, la fanno inginocchiare. I soldati si siedono sulle loro spalle e si fanno fare la foto ricordo dai loro colleghi. Minacciano: “Siamo qui da amici, ma possiamo tornare da nemici, quindi state attenti”.

Le famiglie hanno paura, i bambini piangono e al minimo rumore si svegliano, le donne vogliono tornare dalle loro famiglie.

Al figlio Salah è andata peggio.
Riceverà lo stesso trattamento del padre, ma gli interrogatori saranno più decisi. Lo portano in una stanza buia, gli dicono che il padre ha detto tutto e quindi ora è il suo turno. Il tranello non funziona, Ahmed e Salah non hanno niente a che fare con l’esplosione: semplicemente non c’è nulla da dire, nulla da confessare. Viene portato avanti ed indietro dalla stanza per tre volte. Durante quest’ultima lo mettono con le spalle al muro, un soldato gli enuncia le regole: non spostare la testa e guardare sempre diritto, non guardare l’interprete, rispondere alle domande. C’è un quarto ordine, ma lui non lo ricorda e quando deve ripetere gli ordini questa dimenticanza gli costerà un paio di cazzotti ben assestati. Cade a terra, lo rialzano, gli ripetono i quattro ordini e ancora una volta lui ne dimentica uno. La reazione è pronta, gli fanno aprire le gambe e questa volta l’anfibio colpisce con violenza i testicoli. Cade, lo rialzano e prendendolo per il collo lo tengono sollevano da terra continuando a fargli domande sull’esplosione e minacciandolo di picchiarlo se osa vomitare o sputare.
Le domande continuano, sempre le stesse, ma lui non sa nulla. Ginocchiata nei testicoli, pugni, colpi pesanti, finisce a terra e gli anfibi tornano in azione. “Parla o facciamo delle foto nude delle donne della tua famiglia e le facciamo girare in internet”. Altri colpi, il pestaggio prosegue. Finalmente perde coscienza.

Il giorno dopo gli scoprono le spalle – Salah è sempre ammanettato ed incappucciato – e con qualcosa lo pungono sulle spalle e sulla testa.

Alle ventitre del quinto giorno lui ed altri 11 iracheni vengono portati fuori dal cancello della raffineria, viene tolto loro il cappuccio, i soldati comunicano a tutti che sono liberi, possono tornarsene a casa.
‘E le manette?’ ‘ Fatti vostri’. Fortunatamente trovano un baracchino aperto e con un coltello vengono liberate le mani. Altra umiliazione.

Nessuno ha avuto indietro i documenti e non avere carta d’identità in Iraq può essere motivo di arresto sia da parte degli americani sia da parte della polizia irachena. Hassan aveva anche 400.000 dinari che non rivedrà più.
Dove trovare il coraggio?

Salah è sposato, ha tre figli di 4, 3 e 1 anno e mezzo. Lavora come autista al ministero dell’agricoltura. La moglie dal giorno dell’arresto è terrorizzata, i bambini si svegliano di notte e quando vedono i soldati americani, che continuano a passare per la stradina privata, piangono e si coprono gli occhi con il braccio. Non regge e pochi giorni dopo la liberazione del marito torna alla sua famiglia di origine.

Anche la madre, moglie di Ahmed, ha paura, di notte si sveglia ad ogni minimo rumore. E’ la sua terra, la sua casa, ma è pronta a vendere tutto pur di non vedere ogni giorno le uniformi nel cortile di casa.

Non sono stati gli unici ad essere stati arrestati e la loro casa non è stata la sola ad essere perquisita. Arrestato anche il custode del cimitero. La gente ha paura e non parla facilmente: gli americani possono portarli via quando vogliono.
Parlano ma chiedono di non scrivere delle loro storie, o di non fare i loro nomi. Il rispetto è d’obbligo e i nomi usati qui non sono quelli veri così come non ci sono date e luoghi precisi.

L’occupazione continua e le speranze del popolo iracheno si spengono sotto i colpi di una repressione indiscriminata e di auto bombe che feriscono ed uccidono non solo fisicamente.


14 Febbraio 2004
Paola Gasparoli per Occupation Watch



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