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G.Tedesco:FLESSIBILITÀ E PRECARIZZAZIONE
by cobas Friday March 12, 2004 at 12:57 AM mail:  

qui sotto l'intervento di Gino Tedesco al convegno sulla precarizzazione di Perugia organiozzato a Novembre dal coord. nazionale precari Cobas

qui sotto l'intervento di Gino Tedesco al convegno sulla precarizzazione di Perugia organiozzato a Novembre dal coord. nazionale precari Cobas

FLESSIBILITÀ E PRECARIZZAZIONE
Il lavoro incessante della legge
Il problema della flessibilità del lavoro in Italia, anche se ha subito processi di accelerazione notevole nell’ultimo quinquennio, è storia non recente ed è in corso perlomeno da un ventennio. Questo processo ha inizio nella prima metà degli anni ’80 e intacca puntualmente l’impianto delle norme del mercato del lavoro e delle garanzie a tutela della forza lavoro. Sin dal 1982 la Legge 297 modifica in senso peggiorativo l'articolo 2120 del codice civile "Disciplina del trattamento di fine rapporto”, in pratica il conteggio dell'indennità di fine rapporto (TFR o liquidazione) non è più basato sull'entità dell'ultima retribuzione percepita dal lavoratore ma da quanto è stato accantonato, anno dopo anno; la Legge 863/1984 introduce la chiamata nominativa per i lavoratori compresi tra i 15 e i 29 anni impiegati con contratti di formazione, prevede la costituzione di apposite liste di collocamento per "i lavoratori che siano disponibili a svolgere attività ad orario inferiore rispetto a quello ordinario previsto dai contratti collettivi di lavoro o per periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell'anno", con questo si gettano le basi dei contratti a part-time verticale, dei contratti week-end e si permette ai datori di lavoro che intendano assumere a tempo indeterminato lavoratori per cui è prevista la chiamata numerica al collocamento, di effettuare assunzioni dirette per mezzo di chiamate nominative per il 50% di essi; la legge 223-23/7/1991 ridisciplina la materia della Cassa Integrazione e licenziamenti collettivi; il DL 299-16/5/1994 che tra altre norme introduce la normativa sui Lavori Socialmente Utili che permette alle amministrazioni pubbliche di avvalersi di manodopera a basso costo, per periodi determinati e per progetti mirati.
Due interventi che innescano una massiccia giungla della flessibilità e una miriade di incentivi all’occupazione sono rappresentati dalla Legge 196-24/6/1997 (pacchetto Treu) e dalla legge 30/03 (legge Biagi). La prima definisce le linee guida per l’istituzione delle agenzie del lavoro interinale, muta la norma contenuta nel secondo comma della legge 230/62 secondo cui il contratto a termine diventava a tempo indeterminato nel caso di prosecuzione del rapporto oltre il termine o in caso di illegittima ripetizione del contratto, favorisce l'adozione di contratti di lavoro a tempo ridotto, consente alle imprese di assumere i titolari di laurea breve, laureati e dottori di ricerca con contratto a termine anche a tempo parziale e prevede la possibilità di distacco di ricercatori dagli enti pubblici alla piccola media impresa praticamente a costo zero per l’impresa, prevede incentivi, sotto forma di agevolazioni contributive, per i contratti di apprendistato che prevedano di far partecipare gli apprendisti ad iniziative di formazione esterna all’azienda e trasforma in 16-24 anni i limiti rispettivamente minimo e massimo di età precedentemente pari a 15-20 anni, contiene una serie di principi per il riordino della formazione professionale. Secondo queste linee guida, la formazione professionale deve essere integrata con il sistema scolastico e con il mondo del lavoro, anche attraverso il ricorso generalizzato allo stage, deve essere caratterizzata da moduli flessibili e adeguati alla realtà produttiva locale.
La seconda oltre a peggiorare gli istituti del lavoro temporaneo (contratto di somministrazione di lavoro), dei contratti di formazione CFL (o di inserimento) bocciati dalla comunità europea, dell’apprendistato, della coordinata continuativa (lavoro a progetto) in cui si cancella ogni minima possibilità di equiparazione al lavoro dipendente e quindi di vincolo di subordinazione cancellando i già minimi diritti di quei lavoratori, introduce e regola nuove tipologie contrattuali: il lavoro intermittente, il lavoro ripartito, il lavoro a chiamata ecc.
Queste politiche hanno destrutturato il mercato del lavoro movendosi su direttrici precise: 1. ridurre il costo del lavoro e incentivare le imprese, 2. porre i due soggetti capitale e lavoro come soggetti alla pari sul mercato, pertanto le norme di tutela a favore della parte debole del rapporto (forza-lavoro) non hanno più motivo di esistere, 3. istituire mediatori tra la domanda e l’offerta di lavoro il cui scambio vede una miriadi di soggetti abilitati a questa funzione, in questo senso l’abolizione della 1369/60 che vietava l’intermediazione di mano d’opera, è emblematica; 4. legalizzare quell’aria grigia del lavoro “autonomo” dentro un quadro di assoluta mancanza di garanzie; 5. rendere residuale il rapporto di lavoro a tempo indeterminato; 6. esercitare meccanismi di controllo sociale sulla nuova forza lavoro.

Trasformazioni produttive, relazioni sindacali e flessibilità
Quale è stata la cornice che a permesso un rivolgimento così profondo? Credo che vadano considerati almeno due elementi: uno inerente le trasformazioni delle forme di produzione a cui spesso abbiamo dato il nome di postfordismo, l’altro inerente i rapporti delle relazioni sindacali che spesso abbiamo definito concertazione.
La nuova produzione capitalistica si caratterizza per la rottura della rigidità produttiva, propria del fordismo, basata su modelli prestabiliti di programmazione industriale e su gerarchie rigide nell’esecuzione dei processi. L’introduzione di modelli di flessibilità tecnologica e produttiva che consentono di avere contemporaneamente produzione informatizzata, incrementi di produttività e differenziazione dei prodotti, nonché aggiustamenti in itinere del prodotto stesso, ha modificato e rotto quella equazione che vedeva direttamente proporzionale l’aumento di produttività con l’aumento di occupazione: oggi aumenta la produttività ma non per questo aumenta l’occupazione. La diffusione dell’outsourcing ovvero l’esternalizzazione di fasi della produzione, nonché la delocalizzazione produttiva hanno provocato il costituirsi di grosse fasce di lavoratori che svolgono le stesse mansioni, svolte per anni, in una nuova condizione di piccole imprese o di lavoratori autonomi o assunti con una miriade di forme contrattuali. Il carattere immateriale della produzione, la sua pervasività sociale, il suo richiedere la totalità del tempo e delle conoscenze, esige una figura operaia flessibile e precaria come nuova tipologia di forza lavoro, ovvero il lavoratore atipico. Figura più adatta al ciclo produttivo perché appunto più flessibile, più mobile complessivamente. In sostanza tutto quello che è stato definito il passaggio dal fordismo al postfordismo, passaggio che ha avuto molteplici letture, nonché definizioni, fino quasi a sfumare le caratteristiche proprie e a diventare un termine omnicomprensivo, ma che relativamente ai fenomeni appena descritti mi sembra abbia ampia condivisione nel dibattito attuale.
Queste trasformazioni produttive e sociali hanno avuto una trascrizione giuridica puntuale in merito al diritto del lavoro davvero impressionante. Trascrizione che non sarebbe stata possibile senza un quadro di concertazione sindacale. Se si leggono in successione le norme prodotte è palesemente rintracciabile una relazione strettissima tra l’elemento pattizio e la legislazione, ovvero tra gli accordi e i testi di legge, la relazione mostra una sconcertante precisione con cui i secondi traducono in norma i primi. Su questo piano l’intesa è stata enorme: all’accordo Scotti del gennaio 1983 succede, nel marzo dello stesso anno, la legge 79/83; all’accordo di luglio del 1993 succede, nel maggio del 94, il dl 299; all’accordo del settembre 1996 segue la legge Treu, e così via, in uno straordinario gioco tra le parti in cui sindacato, governo e parlamento determinano un passaggio d’epoca. Certo negli ultimi anni con il governo di centro destra si è rotta questa relazione, ma non si è rotta la continuità delle politiche del lavoro, come dimostra la legge Biagi, anzi se ne accentuata l’intensità.
Questa continuità nasce da una vulgata che si è posta come idea guida delle politiche del lavoro, dettate già a monte da direttive europee, all’inizio degli anni ’90 e condivisa da teorici di destra e di sinistra con qualche differenza sull’intensità della flessibilità (bontà loro) che può essere sintetizzata nella formula più flessibilità più occupazione. Ma per confutare questa vulgata vediamo alcuni dati, qualche parametro per rintracciare questa flessibilità e qualche conseguenza.
Il mercato del lavoro italiano viene considerato uno dei più rigidi in Europa per il condizionamento che la legge 300/70 (statuto dei lavoratori) ha avuto nel regolare i rapporti di lavoro. Questa affermazione non solo non è mai stata del tutto vera per la presenza di numerosi istituti a cui le imprese potevano ricorrere in caso di crisi, non solo per la parziale applicazione dello statuto dei lavoratori al mondo del lavoro, ma non è attualmente vera soprattutto se si considera il tasso di incremento della cosiddetta flessibilità nell’ultimo quinquennio, tasso che dimostra anche un suo carattere selvaggio e devastante. In Italia si contano altre 20 tipologie contrattuali diverse dal contratto a tempo indeterminato e il lavoro flessibile si pone ormai a oltre il 15% della forza lavoro complessiva.
Dati Aprile 2002
Età Tipico Atipico Totale dipendenti
15-24 8,0 19,0 9,8
25-34 29,1 34,8 30,0
35-44 30,6 27,2 30,1
45-64 32,2 19,0 30,1
Totale 100,0 100,0 100,0
% su dipen. totali 84,1 15,9 100,0

La flessibilità può essere definita in base a quattro parametri: flessibilità del reclutamento, del profilo/della mansione, dell’orario, del salario. Quattro parametri che modificano strutturalmente il rapporto di lavoro. Sul piano del reclutamento si tende da una parte ad ampliare i meccanismi di controllo della forza lavoro (la chiamata nominativa, il collocamento privato, ecc) dall’altra a rendere residuale o perlomeno non più centrale il rapporto di lavoro a tempo indeterminato (contratti a termine, contratti di formazione e lavoro, apprendistato, ecc); sul piano del profilo/della mansione si tende ad accorpare più mansioni nello stesso profilo o a definire profili che permettono un uso più mobile, appunto più flessibile della forza lavoro (se si guardano tutti i contratti collettivi degli ultimi anni si nota la ridefinizione di tutti i profili e tutte le mansioni); sul piano dell’orario/salario si è proceduto sistematicamente alla deregolamentazione degli orari (part time verticale e orizzontale, orari su base mensile o annua ecc) e alla riduzione dei salari che complessivamente erano stati già attaccati con l’eliminazione degli scatti di contingenza, ma che oggi trovano applicazione direttamente nelle forme di contratto o di aree di sviluppo (contratti di formazione e lavoro, apprendistato, patti d’area, ecc).

Flessibilità e nuova composizione sociale
Le conseguenze immediatamente percepibili da tali politiche del lavoro sono sotto gli occhi di tutti.
L’occupazione è principalmente precaria e impone una sorta di scambio con le più elementari garanzie che le lotte operaie avevano determinato. La flessibilità introduce una nuova formula come paradigma pregiudiziale allo scambio tra capitale e lavoro: occupazione in cambio di diritti; Essa non determina più automaticamente una condizione “accettabile” di vivibilità, il lavoro non costituisce più una condizione di insider per dirla con i sociologi, ma molti lavoratori occupati, atipici e non, risultano con redditi bassissimi e a volte sotto la soglia di povertà; Il tempo di lavoro, dalla ricerca del lavoro stesso, dalla formazione, dalla modalità di espletamento non è più definito nel tempo e nello spazio, allungando di fatto la giornata lavorativa modificandone i rapporti, pervadendo l’intera vita dei soggetti; il tasso di lavoratori dei nuovi occupati che entrano ed escono dal mercato del lavoro è in una percentuale altissima, costituendo un trend di lavoro e non lavoro come standard di vita. La problematica del reddito, di cui parleranno gli altri relatori, trova parte delle sue giustificazioni proprio nel mutato rapporto tra lavoro e salario, tra lavoro e tempo di lavoro. La relazione lavorativa diventa la forma del controllo sociale esteso sulla forza lavoro e la rappresentazione di una azienda totale capace di piegare o di escludere.
Non vi è dubbio che siamo di fronte ad una trasformazione possente del mercato del lavoro, del soggetto lavorativo come della possibilità di esercitare il conflitto e che questo debba indurci a qualche riflessione.
Come si nota nei parametri prima elencati della flessibilità non compare la “flessibilità in uscita”, quindi le problematiche legate all’art. 18. Qui è necessario qualche considerazione anche per una maggior comprensione valutativa delle mobilitazioni fatte negli ultimi tempi o del referendum ad esempio. I nuovi lavori non sono sottoposti all’art. 18, questo non solo giuridicamente, ma direi ontologicamente, la licenziabilità ce l’hanno nel loro DNA, cioè scritta nel loro contratto, nella loro stessa forma di erogazione. Fermo restando la validità politica “offensiva” e la pregnanza “estensiva” dei diritti del referendum, non c’è dubbio, però, che esso presentava uno scarto forte con la nuova forma del lavoro, una difficoltà di comunicazione e coinvolgimento di fasce giovanili, una difficoltà di rappresentare il referendum come battaglia di tutti. Inoltre il fatto che la flessibilità comincia ad entrare nelle ossa delle nuove generazioni determina nuovi modelli culturali e comportamentali di porsi nei confronti del lavoro, modelli tutti da indagare e che spesso non portano con se la consapevolezza della cesura avvenuta sul piano dei diritti: diritti e consapevolezza dei diritti sono direttamente proporzionati ovvero in una società in cui si abbassa il livello dei diritti, si abbassa la consapevolezza dei diritti
Le ripercussioni della ristrutturazione in atto intendono segnare anche profondamente la funzione del fare sindacato o dell’attività politico-sindacale alle quali viene prospettata con i contratti privati e la certificazione, il ruolo di notai della contrattazione. Il sindacalismo di base ha in questo un elemento di dura battaglia non solo sul piano dei diritti collettivi, ma anche sul ruolo e sull’identità dell’azione politico-sindacale. Paradossalmente tutto ciò non costituirà la fine della contrattazione bensì la sua estensione che avrà caratteristiche individuali e riguarderà ambiti che mai avremmo immaginato diventassero tali.
Non c’è dubbio quindi che la complessità delle ristrutturazioni economiche e sociali hanno delineato ciò che viene definito area del precariato. Ma vale la pena soffermarsi su questo concetto, analizzare alcune visioni in atto e abbozzare qualche critica. La crescita esponenziale dei lavori atipici e precari spinge molti a dimenticare che quello di cui stiamo parlando è una tendenza forte di deregolamentazione del mercato del lavoro, di scomposizione e frammentazione della forza lavoro, non di processi compiuti e univoci, pertanto non va dimenticato che i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sono ancora la maggioranza della forza lavoro occupata. In secondo luogo si tende a rappresentare il precario come una sorta di nuovo soggetto che deve riscattarsi da questa condizione iniqua nel rapporto lavoro/salario, lavoro/diritti, rimanendo in questo senso dentro una categoria prettamente fordista, cioè delineando la figura del precario dialetticamente posta con la figura del lavoratore garantito, il precario come colui che aspira ad essere garantito. In realtà se una tendenza è chiara nella nuova ristrutturazione capitalistica è che ciò che è in gioco è la precarizzazione del soggetto del lavoro nel suo complesso e la precarietà quindi della sua vita che sovradetermina chiunque al di là di essere indeterminato o determinato, subordinato o autonomo. Una sorta di estensione di senso dell’accezione etimologica del termine.
Le considerazioni del punto precedente ne suggeriscono un’altra. Negli ultimi due anni le mobilitazioni hanno riguardato il tema dei diritti e non poteva essere diversamente dal momento che l’attacco ad essi è stato duro e senza precedenti. A questo proposito è bene considerare che nelle piazze piene, i confederali, i leader del centrosinistra e a volte alcune aree di movimento hanno articolato il discorso sui diritti sul piano della dignità o della democrazia, piano che non porta molto lontano se lo si slega dalla possibilità di esercitare i diritti stessi dentro una relazione sociale e dentro il conflitto specifico capitale/lavoro. Possiamo condividere con S. Bologna quando dice che “sembra aver dimenticato, la sinistra, che l’idea di lavoro e di diritto passano per un’altra idea, costitutiva di entrambi, che è l’idea di conflitto. O un diritto è ancorato a una possibilità di conflitto, cioè ad un rapporto sociale, oppure non c’è ancoraggio giuridico che tenga” Già nel 94’ in una ricerca sui conflitti di lavoro si rilevava una tendenza all’aumento delle cause di lavoro avvero un aumento della rivendicazione dei diritti sul piano del diritto. Questo se da una parte mostrava l’aumento delle zone grigie e indeterminate delle figure lavorative e della loro definizione giuridica, dall’altra esprimeva una caduta della possibilità del conflitto, ovvero la difficoltà di conquistare ed esercitare i diritti dentro una relazione sociale. Queste considerazioni non sono estranee alla comprensione di ciò che più volte ci siamo chiesti, insieme ad altre realtà, in merito ad alcuni meccanismi di espressione sociale verificatesi negli ultimi anni ad esempio il May Day che vedono una grande partecipazione e nello stesso tempo l’incapacità di ritrovare soggetti e forme di conflitto dentro i luoghi di lavoro capaci di determinare un percorso possibile il giorno dopo.
La difficoltà e la necessità del conflitto.
D'altronde la capacità di individuare forme di linguaggio e di organizzazione adeguate alla nuova composizione sociale è la scommessa principale che ci troviamo davanti. Infatti chiunque abbia seriamente provato a cimentarsi con il tentativo di intervento e di organizzazione in questo ambito ha riscontrato immediatamente molteplici difficoltà:
- Il luogo di lavoro come elemento che determinava chiaramente la concentrazione operaia e l’identificazione della controparte è sfuggevole e a volte non facilmente identificabile nella sua variegata catena, ciò rende “spaesata” per prima la possibilità di organizzazione e conflitto; sembra rappresentarsi uno scenario in cui a fronte dell’aumentato carattere comunicativo del lavoro si presenta un isolamento e una frammentazione del soggetto lavorativo.
- Molti soggetti entrano in contatto con realtà politico-sindacali nel momento della loro espulsione dal ciclo produttivo con conseguente difficoltà a determinare un orizzonte che superi la vertenza giuridica o la rivendicazione del diritto individuale.
- La percezione della flessibilità cambia a seconda delle fasce di età e quindi delle esigenze diverse del soggetto: i soggetti giovani molte volte non rifiutano la loro condizione di “flessibili”, “precari”, convinti che quel lavoro è transitorio, che in fondo possono sempre sottrarsi se non si trovano bene, che poi troveranno il lavoro vero. La consapevolezza che troveranno molto probabilmente la stessa forma di lavoro ovunque è bassissima, convinti inoltre che l’alternativa di un lavoro per otto ore in una fabbrica o in un altro luogo non è poi così allettante. Anche qui è necessaria una forte riflessione sugli obiettivi che mettiamo in atto perché la flessibilità si presenta come un elemento che porta con sé un carattere ambivalente: da una parte la forma della ristrutturazione capitalistica del lavoro e dall’altra una forma di sottrazione operaia dal lavoro.
- La presenza di forza lavoro extracomunitaria largamente diffusa in questi ambiti lavorativi pone un livello di ricattabilità abbastanza alto e la necessità di legare le problematiche lavorative a quelle della cittadinanza.
I fenomeni fin qui descritti, certamente parziali, ci pongono quindi di fronte ad un carattere sociale del lavoro, ad una accentuata mobilità dei soggetti, ad una interazione tra vita lavorativa e non lavorativa che necessitano di una riflessione seria su queste tematiche, sulla nuova composizione del lavoro e sulle forma di organizzazione (ben venga, quindi, questo convegno ) che non possono trovare a lungo in noi forme di inadeguatezza profonda.
Gino Tedesco

Note bibliografiche
T. Spazzali- G. Tedesco Mi fletto ma non mi piego. Deriveapprodi
Cronache di diritto del lavoro (Pelazza) B. Mai.
Collana Map Deriveapprodi (soggettività e percezione della flessibilità.Racconti)
IPSOA. La flessibilità del lavoro, manuale operativo
S. Bologna. Competenze e poteri
R. Curcio. Dominio flessibile. Sensibile alla foglie
U. Beck Il lavoro nell’epoca del lavoro. Einaudi
Le proletariate precarie (AAVV) Acantie
La flessibilità del lavoro e dell’occupazione (Barbier – Nadel) Donzelli
Il costo umano della flessibilità (Gallino) Laterza
Altreragioni n. 1-2-4-8

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