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Altri 2 articoli su convegno di pg sulla precarizzazione
by cobas Friday March 12, 2004 at 01:01 AM mail:  

ancora due articoli sul convegno di PG sulla precarizzazione

PRECARIZZAZIONE E PLAY STATION
La “produttività” di un convegno oltre alla qualità dei relatori (Gino Tedesco dei Cobas di Milano, Enza Caruso economista ISTAT e Fabrizio Stocchi di Infoxoa) sta tutta nella capacità degli stessi di uscire dal rapporto docente/alunno e di creare una discussione circolare e partecipata. Da questo punto di vista il sabato mattina perugino è stato un esempio lampante del come costruire una comunicazione altra. La qualità dei relatori, ciascuno nel proprio campo e ognuno nel campo altrui, e il loro spogliarsi della professoralità ha rappresentato il trampolino di lancio che ha permesso un’interazione orizzontale e una scelta collettiva dei contenuti da dipanare tra tutti i presenti.
Si è iniziato con l’analisi della flessibilità nelle sue quattro forme basilari del controllo (forme contrattuali, mansionalità, orario, salario) traducibili in una crescente regionalizzazione, individualizzazione, aziendalizzazione del rapporto capitale/lavoro, riassumibili cioè in una crescente perdita di contrattualità dei lavoratori nei confronti dei padroni (pardon datori di lavoro). Il punto più sentito di questa fase della discussione è stato il come stilare lo statuto dei nuovi lavoratori, come cioè trasformare i vecchi meccanismi di garanzia ormai resi inoffensivi dalle nuove forme di sfruttamento, come definire i nuovi diritti in un sistema elastico ed estemporaneo come quello postfordista, basato sulla riduzione del tempo di lavoro e sull’aumento della produttività. Una flessibilità selvaggia, che invocata trasversalmente come panacea di ogni male nel fine anni 80 inizio anni 90, è stata possibile grazie alla suicida pratica della concertazione. Visto infatti che, fino ad ora, le leggi hanno tradotto in norma i punti di accordo tra governi e sindacati si può dire senza possibilità di smentita che la concertazione è stata l’essenza della svolta neoliberista in Italia. Una concertazione propedeutica alla flessibilità accompagnata dalle forme storiche di sfruttamento come il lavoro nero ed il lavoro migrante, con particolare riferimento alla Bossi/Fini che collegando il permesso di soggiorno al contratto di lavoro crea di fatto agenzie interinali globali in grado di demolire legalmente i diritti acquisiti attraverso la fratricida guerra tra poveri, tra lavoratori autoctoni e lavoratori migranti.
Si è poi passati a vivisezionare la legge Biagi partendo dal presupposto che essa altro non è che il perfezionamento neoliberista del pacchetto Treu e di tutta la politica dei governi di centrosinistra. Una legge che tende a rendere residuale il lavoro a tempo indeterminato, che mette sullo stesso piano il capitale ed il lavoro segnando così il trionfo dei padroni e la fine del “potere operaio” che, attraverso la “certificazione dei contratti”, scavalca il contratto collettivo nazionale permettendo a lavoratore e padrone di accordarsi bilateralmente rinunciando così ad ogni possibilità di ricorso legale. La legge 30 rappresenta una serie di diktat ineludibili per vecchi e nuovi lavoratori:
a) se si vuole l’occupazione bisogna rinunciare ai diritti e alle garanzie, i soldi dello Stato servono alle imprese;
b) il lavoro non può più garantire la dignità di sopravvivenza tanto che anche chi è occupato può finire al di sotto della soglia di povertà;
c) la contrattazione va individualizzata perché bisogna aumentare la frammentazione e l’isolamento dei lavoratori;
d) la flessibilità deve essere introiettata come insostituibile compagna di vita in modo che la sua costante presenza faccia diminuire la consapevolezza dei diritti da reclamare.
Si è anche sottolineato però l’ambivalenza della flessibilità: se infatti la flessibilità imposta dal capitale si traduce in precarizzazione tout court, la flessibilità reclamata dal lavoro (fuga dal posto fisso) e dal non lavoro (reddito sociale) è sottrazione ad uno sfruttamento sempre più invasivo.
Portando elementi differenziati di analisi, si è concordato sul fatto che la più efficace forma per fermare la dilagante pauperizzazione dei diritti sia l’elargizione di un reddito. Da questo punto di vista le proposte analizzate sono principalmente due:
a) Il reddito di cittadinanza si configura come un reddito universale sganciato dalla produttività soprattutto per eludere la moltiplicazione dei trattamenti
b) il reddito sociale è incondizionato ma non universale viene elargito a chi non lavora, a chi rifiuta i lavori di merda che gli vengono imposti, a chi pur lavorando non raggiunge quel minimo indispensabile per sopravvivere.
Il reddito sociale è preferibile perché basandosi sulla materialità della condizione e sul soddisfacimento dei bisogni dal basso, fa si che la consapevolezza di ciò che ci è dovuto non trasformi l’elargizione del reddito in mera circolazione di denaro calata dall’alto.
A quale livello reclamare reddito? La rivendicazione di un reddito sociale europeo oltre ad allargare i confini della lotta permetterebbe di colmare il gap di garanzie e di ammortizzatori sociali che divide l’Italia dal resto dell’Europa (Grecia compresa).
In conclusione si è evidenziato che da che capitalismo è capitalismo, il problema più importante da sciogliere per la “classe” non è definire analiticamente l’oggettività dello sfruttamento ma è come lavorare sulla percezione soggettiva dello sfruttamento stesso. Se ciò era difficile farlo con le generazioni cresciute a pane e Marx figuriamoci quale è il compito che ci attende di fronte alle nuove generazioni che stanno crescendo a macburger e play station.
Suerte companeros, è lo slogan finale del sabato mattina perugino.

Simone Gobbi




NOTE SUL CONVEGNO DI PERUGIA
Il convegno CESP “Precarizzazione e flessibilità: mondo del lavoro e scuola” organizzato dal coordinamento precari Cobas della scuola e tenutosi a Perugia il 13 e 14 dicembre è stato pensato in modo da mettere a confronto esperienze provenienti da diverse realtà rappresentative di settori diversi del lavoro ed opzioni e percorsi teorici differenti.
La consapevolezza ormai generalizzata dell'importanza del fenomeno della precarizzazione dei rapporti di lavoro stimola sempre di più una proliferazione di riflessioni, elaborazioni teoriche, proposte e tentativi di ricomposizione politica. In questo contesto la figura del lavoratore precario rischia di diventare una figura troppo astratta e carica di valenze quasi simboliche, una sorta di chiave teorica e concettuale rispetto alla quale si sviluppano forse attese eccessive rispetto alla necessità di una comprensione piena della realtà e di un rilancio dei conflitti.
Senza voler negare anche queste esigenze il convegno ha messo a confronto situazioni diverse, prima di tutto il precariato nella scuola, realtà per certi aspetti arcaica ma trovatasi improvvisamente e inavvertitamente proiettata nella più convulsa attualità, ma anche situazioni molte più tipiche della cosidetta 'new economy', come i lavoratori dei call center (è apparso particolarmente interessante l'intervento di una lavoratrice della telecom) lasciando intravedere, insieme a tratti comuni, anche differenziazioni a volte forti e un mercato del lavoro attraversato da una serie di divisioni orizzontali e verticali e spesso apparentemente indecifrabile e caleidoscopico.
Uno dei nodi affrontati più estesamente è stato quello del reddito sociale e delle sue varianti (salario sociale, etc.). In una situazione di attacco alle garanzie di tipo sociale e legislativo (dalla Costituzione alla legislazione del lavoro), la questione del reddito è ovviamente destinata a riproporsi in modo sempre più urgente. Anche nella recente vicenda dello sciopero degli autoferrotranvieri la crisi di rappresentanza dei sindacati tradizionali ha indotto subito settori industriali e politici a riproporre lo smantellamento dei contratti nazionali. Fino a qualche tempo fa si sarebbe potuto definire questo atteggiamento come deriva iper-liberista, oggi la cupa necessità di dominio e distruzione del capitale e la sua natura criminale -dal caso Enron a quello a Parmalat- dovrebbero essere sufficientemente evidenti per dirci che si tratta della deriva del capitale tout-court. In questa situazione il discorso sul reddito sociale, se vuole essere qualcosa di più che pura e semplice rivendicazione della necessità di una diversa redistrubuzione e appropriazione delle risorse, e quindi vuole essere parola d'ordine 'politica', rischia di legittimare l'idea di uno stato (un tempo si diceva 'stato del capitale') o di un'amministrazione che, per quanto antagonisti al lavoro, ne siano interlocutori credibili, capaci di raccoglierne la sfida sul terreno della mediazione e della dialettica politica, cosa che nessun segnale lascia attualmente presagire. Né risolve la questione appellarsi a una intensificazione del conflitto in quanto una conflittualità così alta da riuscire ad imporre oggi una reale riduzione del profitto e dello sfruttamento costituirebbe un elemento così entusiasmante da lasciar sperare in ben più corposi e radicali mutamenti. Più convincenti mi sono apparsi gli interventi di Enzo Modugno , nel pomeriggio di sabato, quando si è tentato di affrontare temi teorici. Modugno ha focalizzato il suo discorso sul lavoro cognitivo (in particolare a partire dal l'informatizzazione della produzione) e sulla centralità delle nuove figure di lavoratori, possessori di strumenti decisivi nell'ambito della produzione. Le sue ricerche appaiono in qualche modo parallele a quelle di Paolo Virno (un altro pensatore che non ha buttato alle ortiche il suo Marx e che sarebbe stato interessante ascoltare), anche se leggeri slittamenti possono essere importanti in questo contesto: se per Virno le facoltà 'messe al lavoro' sono oggi quelle 'relazionali' e 'linguistiche', per Enzo Modugno forse l'aspetto più strettamente tecnologico appare altrettanto rilevante. In entrambi i casi comunque il lavoratore si trova al centro dei processi e se questa sua cruciale importanza viene in qualche modo 'autocompresa' può trasformarsi in una forza che ne disarticola la struttura. Nessuna nostalgia e nessuna difesa ad oltranza, quindi, di equilibri ormai travolti dai fatti, dalle ideologie gentiliane nella scuola a modelli di relazioni di lavoro obsoleti.
Se il convegno ha evidenziato una carenza -non certo imputabile agli organizzatori ai quali semmai mi sento grato per avermi permesso di individuare meglio questa esigenza- questa è stata nella difficoltà di articolare il discorso sul lavoro e quello sul precariato con quello sul controllo, l'esclusione e la repressione. Potrebbe essere l'idea per un prossimo convegno, a partire dalle pregevoli inchieste di Renato Curcio sull'azienda totale o andando a rispolverare studi storici come quelli di Sergio Bologna sulla classe operaia durante il nazismo, forse ne avremmo interessanti sorprese.

Enzo Modugno, Keynesismo in versione liberista, Giano n. 42 e Grundrisse Postfordisti, Derive e Approdi 3-4

Paolo Virno, Grammatica della moltitudine, Derive e Approdi
Renato Curcio, L’azienda totale, Sensibili alle foglie e Il Dominio Flessibile, Sensibili alle foglie
Sergio Bologna, Nazismo e classe operaia, Manifestolibri


Carlo Melis

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