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privatizzazione del calcio
by Liberazione Friday March 26, 2004 at 10:29 AM mail:  

Business e militarizzazione stanno producendo una vera e propria privatizzazione del calcio



Quattro giorni sono forse pochi per sperare che il tempo trascorso renda possibile una riflessione più serena, eppure su quanto è accaduto domenica sera allo stadio Olimpico c'è davvero bisogno di ritrovare la calma. Per ribadire, perlomeno, i contorni reali di complessi fenomeni sociali che sono stati ridotti, nello spazio di una notte di scontri, a semplici variabili dipendenti dell'ordine del pallone. Stampa e televisione si sono scatenati, la magistratura ha aperto un'inchiesta, la polemica innescata dalla decisione di sospendere il derby è diventata un vero affaire: eppure di quello che davvero accade nelle curve italiane si ha l'impressione di conoscere meno oggi di quanto non fosse fino a domenica mattina.
Il bilancio politico-mediatico della partita non finita dell'Olimpico si chiude infatti con un'unica apparente certezza: gli ultrà non esistono. Esistono solo figuri prezzolati dalle società, soldati politici del neofascismo, criminali che usano lo stadio per gestire i loro sporchi affari. Il fenomeno ultrà è ridotto al simulacro violento di ciò che nel calcio non funziona, la sua parte malata, insensata, fondamentalmente "altra" rispetto a una sorta di Eden del prato verde.

Eppure se sono evidenti e noti sia il rapporto di molti gruppi e "capitifoserie" con alcune società, sia il tentativo, mai cessato negli ultimi anni, da parte dell'estrema destra di svolgere un ruolo in diverse curve e anche la degenerazione affaristica di alcune storiche sigle del tifo radicale, ridurre gli ultrà a questo equivale a consegnare uno degli ultimi "spazi pubblici" che ancora esistono nel calcio al devastante binomio affari-repressione. Piuttosto è necessario scomporre tutti questi elementi, scorrere nella loro specifica identità i pezzi di un mosaico che oggi viene letto come un quadro omogeneo, senza incrinature né contraddizioni. Si tratta, del resto, non solo di una possibile pista di indagine, ma anche del solo modo per poter scovare ancora qualche antidoto alla definitiva trasformazione del calcio in una sorta di rollerball multimiliardario, guardato a vista legioni di robocop.

Il primo passaggio da considerare riguarda l'uso che della passione calcistica fa ormai il business del pallone. «La passione è il nostro prodotto di punta», annunciava solo pochi anni fa la campagna pubblicitaria con cui la Roma calcio preparava il suo ingresso in borsa e la sua trasformazione in "azienda sportiva". Ci vogliono «testa e cuore», aggiungevano alla società giallorossa, per far funzionare il calcio di oggi, visto che, come spiegava un altro spot, «anche l'orgoglio rende attivo un bilancio». E la borsa non era che il primo passo, prima del lancio dei canali tv digitali dedicati alle singole squadre. Del resto l'industria dei telefonini Vodafone già nel 2000 ha siglato un accordo con la squadra inglese del Manchester United per inserire sul circuito della telefonia mobile servizi e immagini delle partite per i tifosi. «Quello dello sport, e del calcio in particolare, è un settore davvero speciale, difficile da gestire, ma di grande interesse» aveva spiegato in quell'occasione al quotidiano britannico Guardian Jean Paul de la Fuente direttore della Media Content, agenzia specializzata negli investimenti su sport e media, che aveva aggiunto: «in termini di tempo e di soldi che si è disposti a spendere, lo sport è la cosa più importante nella vita di tantissima gente».

I presidenti del calcio sono diventati manager, le squadre vere aziende, i calendari degli incontri sono dettati dai palinsesti del satellite e dalla pay-tv, l'intera faccenda ha assunto i contorni di una enorme operazione commerciale: sulla carta tutto per il bene dei colori amati dai supporter. Eppure in questo calcio che è disposto addirittura a rinunciare al luogo stesso della partecipazione popolare, lo stadio soppiantato dai canali digitali, e a quotare in borsa perfino emozioni e passione, qual è il posto che spetta ai tifosi?

E' questo il secondo punto su cui soffermarsi, per un ragionamento che dai fatti dell'Olimpico sappia arrivare a cogliere i molteplici aspetti della questione.

Negli ultimi anni, accanto all'immagine del calcio-business c'è stato infatti posto solo per il fenomeno internazionale degli hooligans, e in Italia per la tipizzazione in senso neofascista e iperviolento degli ultrà. Questo, come se alla progressiva trasformazione degli stadi in luoghi della "produzione immateriale" - soldi sonanti accumulati a partire dai sogni e dall'immaginario dei tifosi - si accompagnasse necessariamente l'emergere di una tifoseria connotata da violenza e razzismo. In questo senso, il football miliardario non solo non è stato in grado di eliminare gli hooligans, ma ne ha fatto una costante terribile di ogni campionato europeo. L'unica rivolta consentita nell'industria del pallone che cerca di trasformare i tifosi in consumatori, sembra essere quella dei "ribelli senza causa" delle curve violente, segnate dalla cultura xenofoba dell'estrema destra. Non solo, come aveva ben dimostrato il cortocircuito tra affari, estrema destra e trasformazione del tifo che ha caratterizzato, una decina di anni fa, la gestione Ciarrapico della Roma, l'involuzione dei vari elementi corre spesso insieme.

Qui si innesta l'ultimo segmento di questa sommaria ricostruzione dello stato dei luoghi del calcio: la repressione. Se infatti la deriva degli affari e quella hooliganista si nutrono spesso a vicenda, è la progressiva trasformazione dello stadio in un laboratorio delle forme più innovative della repressione a chiudere definitivamente il cerchio sul pallone. Nello stadio blindato non va più in scena il gioco dello scontro, la forma "festosa" dell'alterita tra curve e forze dell'ordine descritta dalla sociologia del calcio, ma la pantomima tragica della guerra civile, con il suo corollario di cieca violenza.

Se questa fotografia ha anche solo qualche elemento di concretezza, allora è evidente che solo riproponendo il significato di "spazio pubblico" delle curve e l'irriducibilità dell'identità ultrà alla morsa di affari, estrema destra, repressione, si potrà davvero cercare una via d'uscita. In questo, forse, la serata dell'Olimpico ha detto qualcosa, su cui varrà la pena continuare a discutere.

Guido Caldiron


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