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la comunità illusoria
by uomonero Thursday, May. 06, 2004 at 9:39 AM mail:

cooperazione e ideologia

La comunità illusoria
processi lavorativi e cognitivi nella cooperazione sociale

Nevio Gàmbula

"Che si possa costruire con l'assistenza dello Stato una nuova società, come
si costruisce una nuova ferrovia, è degno della fantasia di Lassalle"
K. Marx, Critica al programma di Gotha




Marco Revelli è uno dei personaggi che ha teorizzato, da "sinistra", la possibilità del "terzo circuito" - cioè quello compreso tra "stato" e "mercato" - di strutturare "spazi pubblici di prossimità", derivazione di processi "regolati dalla reciprocità e non dal denaro o dal potere amministrativo". Revelli, insomma, è uno dei tanti che, nel considerare "inadeguato il paradigma della contrapposizione-negoziazione tra capitale e lavoro", indicano nella "economia solidale" la possibilità "di strutturare e di allargare i confini di quegli spazi liberati nel territorio - di quelle zone franche sociali - che costituiscono i nodi di una società altra".


Due sembrano essere i presupposti di partenza:
1. che possano esistere "settori di attività" non costretti ad integrarsi alla "economia di mercato" e ai relativi quadri giuridico-normativi, ovvero di "isole" che rendono possibile la liberazione dal "dispotismo della forma merce" e dal "denaro";
2. che si possano strutturare "modelli di socialità" dove ogni "attore" può concorrere liberamente alla "autodeterminazione delle condizioni sociali", secondo quella che Revelli chiama "un'intenzionalità che assuma, qui e ora, l'interesse collettivo - il bene comune - come fine e misura dell'agire" .





Allo scopo di sgombrare il campo dalle mistificazioni e dagli equivoci, è bene tentare qualche considerazione che miri a leggere attentamente quanto avviene nella "economia solidale", affrontando il comparto in termini di analisi delle condizioni di lavoro e di verifica di quanto lo stesso possa darsi effettivamente come "spazio liberato" oppure articolazione - o, se si preferisce, "punto di rete" - alle strette "dipendenze" del modo di produzione capitalistico. Limitando ulteriormente il campo dell'analisi, prendiamo a riferimento la parte della "economia solidale" che meglio corrisponde a quello che Revelli chiama il "legame sociale che si mantiene attraverso la messa in opera di un'attività economica", e cioè la cooperazione sociale.


Per intanto, il punto di partenza della "attività economica" svolta da una cooperativa sociale resta - guarda un po' - proprio il denaro, ovvero la risposta sociale a determinati bisogni è possibile solo quando una data somma di valore sociale viene accantonata a questo scopo. Questa "somma di valore" dipende evidentemente dalle condizioni in cui versa tutta l'economia ("di mercato") e dallo stato del conflitto sociale . La quantità di denaro disponibile determina la "fisionomia" della risposta ai bisogni rilevati, dunque del servizio necessario, e più precisamente determina il numero degli operatori necessari, le modalità organizzative dei processi lavorativi, le caratteristiche degli spazi fisici, le possibilità di operare in collegamento con altri servizi, ecc.. E' comunque possibile ravvisare come, nella "esternalizzazione" dei servizi socio-assistenziali, alla cooperazione sociale spetti la gestione delle "elemosina" messe a disposizione delle necessità riproduttive di una parte della popolazione che si trova, per vari motivi, nell'impossibilità di "realizzare la propria capacità produttiva" (minori, handicappati, malati mentali, tossicodipendenti, barboni e quant'altro).


Per gestire un determinato servizio, sia esso "vinto" mediante gara d'appalto o attivato in proprio, una cooperativa acquista la forza-lavoro di un dato soggetto. La quota di denaro che una cooperativa riceve per espletare la gestione di un servizio non coincide mai con quanto riceve il lavoratore; in generale, la differenza tra il costo del servizio pagato dal committente e il costo del lavoro è speso dalla cooperativa per: 1) spese amministrative (circa il 15% del costo del lavoro, e sono inerenti buste paga, commercialisti, segreteria, spese per sedi amministrative, ecc.); 2) spese di gestione (manutenzione ordinaria dei locali dove si svolge il servizio, vitto, ecc., in percentuale varia a seconda dei servizi); 3) margine d'impresa (solitamente tra il 10 e il 20% del costo del lavoro).


Consumate le operazioni di "selezione del personale", comincia il processo lavorativo, i cui atti principali riguardano: a) il rapporto giuridico che si stabilisce tra cooperativa e lavoratore (inquadramento contrattuale, orari, adesione alla cooperativa come "socio" - da sottolineare come la stragrande maggioranza delle cooperative vincolino l'assunzione alla "adesione", in qualità di socio, alla cooperativa stessa); b) le mansioni che lo stesso lavoratore è chiamato a svolgere (dunque la posizione che occupa nel processo, insieme all'acquisizione dei criteri di accesso e funzionamento del servizio).


A questo punto prende avvio il comportamento organizzativo che attiva, attorno ad uno scopo, un processo lavorativo.


All'origine di tale "comportamento organizzativo", e cioè dell'impresa-cooperativa, vi è la divisione del lavoro, nel senso che, da una parte, la cooperazione sociale è venuta, col tempo, a svolgere quel "lavoro di sostegno e di cura" tradizionalmente affidato alla famiglia e alle organizzazioni di beneficenza , dall'altra, trattandosi di una impresa a tutti gli effetti, è organizzata al proprio interno in ruoli operativi, consultivi, decisionali e di controllo. Quello che differenzia una cooperativa da una impresa qualunque è il "rapporto fiduciario" che si viene a creare tra lavoratore e impresa, che è anche prerogativa indispensabile per la realizzazione del "successo aziendale": i rapporti tra i soggetti che concorrono al processo lavorativo nella cooperazione sociale "sono impostati in modo che la retribuzione risulti correlata alla mansione e non all'orario, e ciò spiega la diffusione di forme di straordinario benevolo e garantisce flessibilità e costi contenuti" .

Gli accenni sin qui fatti ci permettono di sospettare sulla "impostazione apologetica" della "economia solidale", e sembrano confermare l'impostazione marxiana che evidenzia come, "sotto il segno del capitale", ogni attività, al pari di ogni processo lavorativo, "interessa unicamente in quanto supporto del processo di valorizzazione". Più che "terreno di sperimentazione di rapporto sociali e umani altri, liberati dal dominio della forma merce e dal dispotismo dell'utilitarismo acquisitivo proprio della logica d'impresa e di mercato", così come vorrebbe Revelli, la "economia solidale" è diventato il luogo di sperimentazione di nuove forme di utilizzazione flessibile della forza lavoro, non potendo sfuggire, comunque, agli "aggiustamenti" realizzati dal "sistema economico" per aumentare la propria incidenza sul mercato mondiale.


Per specificare come, nel comparto della cooperazione, avvenga la "connessione" tra le diverse parti di una formazione sociale e il "riequilibrio" di ognuna attorno alle compatibilità del modo di produzione capitalistico, conviene precisare lo scopo precipuo della cooperazione sociale, a partire dalla differenza introdotta dalla Legge 381/91 tra cooperative di "tipo A", atte a gestire servizi socio-assistenziali ed educativi, e cooperative di "tipo B", atte a favorire l'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.


Ciò vuole essenzialmente dire:

* nelle cooperative di "tipo A" è predominante l'attivazione di una relazione di aiuto, dove la salvaguardia di soggetti "esclusi" o "emarginati" dall'ambito sociale passa attraverso l'avvio di "legami sociali, scambi, interazioni" e attraverso un lavoro di "cura", di "ascolto", di "accompagnamento" e di "accoglienza";
* le cooperative di "tipo B", invece, sono chiamate a promuovere il recupero al lavoro di soggetti svantaggiati, impiegandoli o direttamente in processi produttivi (in particolare nel campo dell'agricoltura e dell'assemblaggio di componenti), in servizi legati alla produzione (pulizie di complessi industriali, trasporto e commercializzazione), nel turismo e in servizi per conto dell'Amministrazione pubblica (manutenzione aree verdi, pulizia scuole, ecc.).

Il lavoro, nel primo tipo di cooperative individuato dal legislatore, non è lavoro direttamente produttivo, non produce cioè un aumento di valore economico nel momento in cui è esperito; concorre solo indirettamente alla valorizzazione, agevolando la riduzione dei costi complessivi nell'utilizzo sociale della forza lavoro e contribuendo ad una intensificazione del suo sfruttamento. Una "estorsione" particolarmente favorevole di plusvalore , e quindi una funzione direttamente produttiva del lavoro nella cooperazione sociale, la si riscontra invece nelle cooperative di "inserimento lavorativo". Nei processi lavorativi attivati dalla cooperazione sociale di "tipo A", allora, il capitale, inteso come modo di produzione e come rapporto sociale, appare il più delle volte come un "elemento esterno", come quel meccanismo sociale che si rapporta "col processo di lavoro come sorvegliante e regolatore"; in quella di "tipo B", o almeno in una parte cospicua di essa, il processo lavorativo attivato è immediatamente anche processo di produzione .


A guardar bene, quindi, seguitando a parafrasare Marx, il capitale regola, secondo le proprie esigenze, anche le offerte di servizi "a forte utilità sociale".





Per verificare concretamente quanto contenuto di verità ci sia in queste asserzioni, proviamo qui di seguito ad analizzare un processo lavorativo standard nella cooperazione sociale, rivolgendo particolare attenzione a quelli che sono i particolari processi cognitivi che in esso avvengono, senza nascondere, per altro, che così facendo siamo intenzionati a continuare a "pestare i calli" di chi ritiene possibile, per il tramite della "economia solidale" o la "intellettualità diffusa", fuoriuscire dai meccanismi sociali e storici cui dà luogo il modo di produzione capitalistico.


Il capitale, direbbe Marx, si appropria, "sussume" e "usa" per i propri scopi ogni processo lavorativo, cioè ogni attività finalizzata alla produzione di semplici valori d'uso, e sottomette a sé ogni evoluzione cognitiva che dallo stesso processo lavorativo trae linfa. Detto altrimenti, la "soggettività" che si forma nell'esperire la dinamica della relazione tra "processo di lavoro" e "rapporti sociali di produzione", diviene immediatamente funzionale alla valorizzazione del capitale; pertanto, "l'accumulazione della scienza e dell'abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, in tal modo è assorbita nel capitale" .


Un processo lavorativo, per intanto, avviene a partire dalla relazione circolare che si stabilisce tra soggetto impegnato e condizioni del processo lavorativo, dove la relazione, nella sua forma generale, presuppone che il soggetto agisca entro il processo "secondo un progetto elaborato dalla direzione ed opportunamente coordinato per il conseguimento di uno scopo".


Scomponendo ulteriormente le parti costituenti la relazione, se ne ricava che il soggetto è da intendersi come dialettica di attività conoscitiva e comportamento, mentre le condizioni del processo lavorativo come dinamica interagente tra organizzazione (formale e informale), strumenti di lavoro e materia su cui intervenire; dove ovviamente le dinamiche tra i vari elementi hanno caratteristiche determinate da quelle che sono le proprietà peculiari di una attività lavorativa entro la cooperazione sociale, per cui, ad esempio, saranno da intendersi come "strumenti" le metodologie di "aggancio" degli utenti di un servizio o la "rete delle relazioni" posseduta da un operatore.


Per comprendere al meglio quello che accade nell'esperire di questa "relazione circolare", e per capire i processi cognitivi e partecipativi che vi avvengono, occorre precisare ulteriormente gli elementi dello scambio tra "soggetto" e "condizioni" del processo lavorativo. Sono elementi dello scambio:

* i dati di realtà (inerenti l'utenza o il servizio) che il soggetto raccoglie, elabora, scambia e archivia;
* le informazioni e l'uso di relativi codici, linguaggi, mezzi di comunicazione;
* i processi elaborativi per definire e codificare con precisione i bisogni su cui intervenire, le finalità dell'intervento, i luoghi, i tempi e le risorse disponibili o da reperire;
* le conoscenze dei singoli soggetti, possedute come bagaglio pregresso o acquisite durante la partecipazione al processo lavorativo;
* le conoscenze dei singoli in relazione ad altri, cioè delle équipe di lavoro;
* i ruoli e le funzioni che determinano le operatività, il controllo del processo e la sua direzione;
* le modalità gestionali con cui si determinano mediante contratto le mansioni e i criteri di svolgimento del processo lavorativo.

La connessione dei diversi elementi (il loro coordinamento secondo un piano) porta ad accentuare il carattere cooperativo del processo, che resta la forma principale del collegamento tra le diverse fasi e tra i singoli momenti investiti.


Nella cooperazione sociale, esattamente allo stesso modo che in altro tipo di impresa, si accentua, sotto la spinta della concorrenza, la separazione della direzione del processo dalle sue fasi operative, che porta allo sviluppo di specifiche funzioni di comando (i cosidetti "quadri") e che rende complicata, nel soggetto impegnato, la "percezione reale" della propria relazione con l'insieme.


La riproduzione delle condizioni che permettono alla cooperazione sociale di "rimanere in vita", inoltre, necessita della riproduzione di tutti gli elementi che concorrono alla "relazione circolare" tra soggetto e condizioni del processo lavorativo. Le condizioni del processo lavorativo, ad esempio, si riproducono (e "su scala sempre più estesa") contestualmente ai mutamenti che avvengono attorno ai "bisogni" e alle modalità attive per farvi fronte; il soggetto, da parte sua, si riproduce per mezzo di quella somma di valore che ottiene contrattualmente per la sua partecipazione al processo (il salario). Il soggetto, inoltre, necessita, oltre che della riproduzione della propria esistenza spicciola, anche della riproduzione della capacità lavorativa (formazione professionale) e della posizione che ricopre entro il processo lavorativo (riproduzione del ruolo di "operatore" e di quello di "quadro dirigente").


Nel momento in cui ogni cooperativa è esposta alla necessità di adattarsi all'ambiente esterno, e a porsi di conseguenza problemi di integrazione interna per meglio affrontare quell'adattamento, viene costretta a rinnovare continuamente il proprio "comportamento organizzativo": spetta ai processi cognitivi elaborare le modalità di funzionamento generale dell'insieme e dell'adattamento, così come spetta ai processi partecipativi regolare i "passaggi informativi" necessari e il "consenso" di ogni singolo lavoratore alle condizioni del processo lavorativo e alla vita della cooperativa, con in più, per estensione, partecipare consensualmente alla "valorizzazione sociale del capitale".

Mentre nelle cooperative di "tipo A" è desumibile, a livello di sviluppo di conoscenze, un impegno del lavoro intellettuale a riportare dentro l'ambito sociale (e istituzionale) ogni problema o bisogno - dove la relazione tra "utenza" e "operatori" della cooperativa avviene secondo parametri elaborati dall'Amministrazione pubblica -, nelle cooperative di "tipo B", oltre ai meccanismi di invenzione tipici dei processi produttivi, ovvero relativi alla elaborazione dell'esperienza pratica sui "processi di lavoro" e sul "prodotto", il lavoro intellettuale è implicato nella gestione di dinamiche conflittuali anomale rispetto a quelle di altri settori, stante la peculiarità dei soggetti sottoposti a "inserimento lavorativo" .


Si tratta, a questo punto, di verificare quali specifici e concreti meccanismi cognitivi avvengono nella cooperazione sociale, a partire dalle considerazioni testè fatte, precisando che per processi cognitivi intendiamo quella particolare aritmetica mentale atta ad acquisire una serie di dati, conoscenze e consapevolezza di una data porzione di realtà per sapersi orientare in essa.


In termini generali, l'erogazione di attività con prevalente carattere mentale avviene attorno alla "percezione" di una situazione come problematica, cioè al cogliere, secondo quelli che sono i dettati del collaborative problem solving, una determinata "domanda", e il conseguente "disagio", per produrre "motivazioni" per l'intervento e "soluzioni" appropriate.


Questo processo implica diverse fasi, una collegata all'altra e ognuna attivante diversi soggetti o figure istituzionali. Le fasi sono:

* la percezione, che è la capacità di cogliere i sintomi che denunciano la presenza di un problema; avviene nel lavoro quotidiano, nella relazione costante con l'utenza e con il contesto in cui si agisce; presuppone l'ascolto, ovvero il saper cogliere, insieme alle "richieste di aiuto" esplicite, l'inespresso, quanto un utente o un servizio non sono ancora stati in grado di "razionalizzare". Questa fase viene esperita "naturalmente" dagli operatori durante lo svolgimento del proprio lavoro, così come può essere esperienza che gli operatori riportano dentro le équipe. Ciò che si coglie per prima cosa sono i "mutamenti", anche microscopici, che avvengono in una data situazione (tensioni nel gruppo di utenti, progredire o regredire di un percorso personalizzato, trasformazioni nella tipologia dell'utenza di un servizio, ecc.).
* la definizione, mirante a stabilire i confini precisi del problema, chi ne è coinvolto, le cause e le conseguenze. L'elaborazione delle "definizioni" spetta agli operatori riuniti in équipe. E' infatti il gruppo di lavoro che scompone ogni singolo aspetto di un fenomeno e ne identifica natura ed evoluzione. Le conoscenze dei "bisogni", dei "disagi" e delle possibili "soluzioni" convergono poi in un apposito "centro di raccolta", cioè in apposite figure professionali (esterne e interne alla cooperativa) cui spetta elaborarle.
* l'elaborazione delle soluzioni, che presuppone la conoscenza dei vincoli e dei percorsi possibili, cioè, in particolare, degli elementi di natura economica tipo il "vincolo di spesa" (base d'asta per le gare, disponibilità finanziarie dei "bilanci preventivi" di enti pubblici, donazioni ricevute, ecc.) e la "vantaggiosità" (la non attivazione di servizi "in perdita"). Presuppone anche la conoscenza dei "piani di intervento" elaborati dalle amministrazioni, i quali stabiliscono in quale direzione si deve concentrare un "impegno sociale". Questa fase compete alle direzioni delle cooperative.
* la decisione, cioè assumere una determinata soluzione come la più adatta a risolvere il problema riscontrato. Mette in gioco i meccanismi decisionali, ovvero la gestione del potere. Per alcuni casi specifici, in generale riguardanti la "presa in carico" o la "progettazione personale", sono ancora le équipe - e, principalmente, quelle figure di tramite tra il servizio e la direzione della cooperativa che sono i coordinatori - a decidere cosa sia meglio. Le decisioni riguardanti la "economicità" di un servizio, tipo il modo in cui partecipare ad una gara, spettano ai Consigli di Amministrazione.
* la verifica, che è il momento in cui compare direttamente, cioè con funzionari propri, la "committenza", ed implica la possibilità di ripetere la soluzione adottata e dunque di perpetuare la "commessa".

L'insieme di queste fasi converge nel momento della elaborazione progettuale, capace di impostare l'intervento mettendo in relazione produttiva le "diverse anime" di una cooperativa. E' nella connessione tra le diverse fasi che si verifica un passaggio di conoscenze dalla base al vertice, la quale connessione implica il "ruolo di cerniera" ricoperto da particolari figure professionali, a loro volta dipendenti o parte integrante delle funzioni direttive agenti in cooperativa.

La prevalenza del "momento economico" su tutti gli altri elementi del "sistema" ha determinato il passaggio da una elaborazione progettuale intesa come "analisi a tutto campo dei bisogni reali" ad un "sistema di ascolto" che rileva esclusivamente i bisogni cui è possibile rispondere con le risorse a disposizione. Il primo "atteggiamento" permetteva l'attivazione di una lettura critica della realtà; si è scontrato, uscendone sconfitto, con la necessità di rendere compatibili i capitoli di spesa sociale per le varie gradazioni dell'emarginazione con le necessità del modo di produzione capitalistico. Il secondo "atteggiamento" ha trasformato l'elaborazione progettuale in mera programmazione di passi in sostanza stabiliti più sulle "compatibilità" che non sui bisogni, ed ha determinato una situazione dove si tralascia la risposta a bisogni sociali rilevanti, contribuendo, nei fatti, ad aumentare le differenze e le disuguaglianze entro la formazione sociale.


Se si presta attenzione al processo cognitivo che trasforma i bisogni in elaborazione progettuale, non si potrà non rilevare la sostanziale collaborazione della cooperazione sociale al mantenimento degli equilibri politici in corso.


I bisogni, infatti, arrivano al "centro" in cui si progetta - lo ripetiamo: alle dipendenze o diretta emanazione delle direzioni - in varie forme, dai dati grezzi raccolti dall'esperienza di un servizio, alle ricerche formalizzate di "esperti di settore", a elaborazioni dell'Amministrazione pubblica. Su tali bisogni si innestano successivamente particolari metodologie d'intervento, capaci di codificare e attuare praticamente i momento di "aggancio", di "ascolto" delle richieste di "aiuto", di "accoglienza" o di "accompagnamento", tutte finalizzate a obiettivi di grado diversi tesi a "migliorare le condizioni di vita". La elaborazione di queste "metodologie" avviene al di fuori delle cooperative, come elaborazione "separata" ad opera di formatori, supervisori, ricercatori, e divengono bagaglio conoscitivo che gli operatori acquisiscono frequentando le scuole per educatori, le facoltà universitarie specifiche, corsi di formazione od altro.


E' evidente che la cooperazione sociale agisce in relazione ad altri contesti, e che senza questa interazione (e integrazione) non potrebbe muoversi in maniera adeguata; contesti, per altro, altamente "istituzionalizzati", nient'affatto in relazione conflittuale con "stato" e "mercato". Per ottenere una "commessa", o per mantenerla, le cooperative sono costrette ad operare in stretta collaborazione con tutti gli elementi sociali che agiscono in quel dato contesto, ma questa relazione le modifica, le trasforma sino a prendere le sembianze degli elementi dominanti: prima la loro trasformazione in impresa, successivamente, o parallelamente che dir si voglia, la loro disposizione al ferreo controllo delle amministrazioni pubbliche. La doppia condizione che accompagna il lavoro delle cooperative, cioè la marginalità economica e l'integrazione, è rafforzata poi dalla "dipendenza", indiretta fin che si vuole, dai grandi Centri di Ricerca atti ad elaborare modalità di gestione, metodologie, politiche sull'emarginazione, ecc. .


In sintesi, parametri di "subordinazione" passano anche tramite:
* una logica efficientista, che spinge a prendere in carico un numero di "utenti" sempre più alto con le stesse unità di costo;
* una tensione al controllo sociale per alcuni settori di "utenti" (tossicodipendenti, senza dimora, minori devianti), attivando "interventi di contenimento anziché di supporto";
* la standardizzazione degli interventi, privilegiando risposte su macro.bisogni o difficoltà evidenti e agevolando, in pratica, la "cronicizzazione";
* l'attivazione di una logica premiale, dove l'accesso ai servizi è garantito soltanto a quegli "utenti" che si attivano nel "percorso di uscita dalla condizione di emarginato" e che accettino le regole del servizio (è esclusa ogni negoziazione);
* la rimozione e l'occultamento delle cause sociali, come risultato della "personalizzazione" degli interventi socio-assistenziali.

La "finalità educativa" principale messa in gioco dalla cooperazione sociale è l'integrazione del soggetto disagiato con l'ambiente di vita, passando dal fare acquisire la consapevolezza di essere all'interno di un sistema di relazioni affettive e cognitive sino ad arrivare ad avere, con gli altri e con il contesto generale, una "relazione serena". Ciò che viene meno in questo "gioco delle parti" è la possibilità di "educare alla critica" o di un suo esercizio; il che porta ad accettare ogni parvenza di "riduzione del danno", dimenticandosi, una volta per tutte, quel semplice assunto che dice come "prevenire sia meglio che curare". In molti tra gli osservatori, accademici compresi, indicano la fase in corso come quella dove si privilegia la "medicalizzazione" degli interventi sociali, cioè quel puntare tutto su un intervento successivo all'insorgere del "disagio" piuttosto, appunto, che al prevenire quella insorgenza.

Per finire, almeno provvisoriamente, richiamiamo l'attenzione sulla parola d'ordine di Marco Revelli, "estendere la sfera dell'economia solidale" , che non solo ci lascia perplessi, ma la riteniamo molto pericolosa, anche perché tale "estensione" è devoluta tutta alla "bontà" dello "stato" e del "mercato" (o, al limite, della "chiesa"), cioè di quegli stessi soggetti da cui il "terzo sistema" afferma di volersi distanziare.


Revelli, sposando in pieno le teorie sistemiche della complessità, per cui, appunto, non esistono più "conflitti radicali" ma solo "relazioni complesse", si rende conto che la "economia solidale" non può "andare oltre", ma correre "parallelamente al piano di esistenza del processo di accumulazione postfordista": "una logica, questa - è Revelli-Lassalle ad avvertirci -, esplicitamente modulare, più attenta alla connessione che non alla centralizzazione, alla comunicazione che non all'organizzazione, da cui emerge il profilo di una società plurale, articolata in una molteplicità di circuiti di scambio (quello mercantile dominato dall'utilità, quello statuale dominato dalla redistribuzione, quello solidaristico basato sulla reciprocità, quello domestico dell'autoproduzione e dell'autoconsumo ...), nessuno dei quali autorizzato all'assolutizzazione, ma, tutti, combinabili secondo rapporti che possono essere, di volta in volta, di esclusione o di complementarietà, di conflitto o d'integrazione".


Nella totalizzazione del capitale come rapporto sociale, nella estensione del suo dominio a tutti gli aspetti della vita sociale, non ci sono margini di autonomia possibili, tanto meno per soggetti economicamente definiti così come sono le cooperative sociali. La cooperazione dipende da dall'ambiente in cui opera, e ne viene determinata non potendo essa determinare a sua volta, stante la propria marginalità e debolezza. La centralizzazione dei poteri, conseguanza dell'accentramento dei capitali in poche "creazioni borghesi indipendenti" e della concorrenza intercapitalistica, non lascia effettivi spazi di manovra economica e quanti siano realmente intenzionati "alla trasformazione delle attuali condizioni di produzione", più che aspirare alla "assistenza dello Stato" o alla benevolenza del "mercato", magari disegnando scenari dove i mutamenti delle forme del dominio sono confusi con un mutamento di "paradigma", dovrebbero costoro "passare ad un paradigma in disuso", recuperandolo dal "cestino della spazzatura" cui è stato costretto e "spianare quel foglio di carta vecchio e sgualcito che si chiamava La scienza della storia, il materialismo storico" .




note
1 Le frasi o le parole virgolettate sono prese dal libro di M. Revelli La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, edito da Bollati Boringhieri, 1997.
2 La necessità di spostare risorse per favorire il rilancio dell'economia sui mercati internazionali ha determinato un progressivo smantellamento dello "stato sociale", e cioè un'offerta minore di servizi, così come ha determinato "un aumento della domanda aggiuntiva degli stessi servizi". Parallelamente, l'aumento della disoccupazione ha reso possibile "lo spostamento di forza lavoro verso il terzo settore, contribuendo a crearvi una offerta crescente di servzi da parte di cooperative e associazioni". A. Burgio, Terzo settore o secondo mercato?, in Altreuropa, luglio-settembre 1996. Tale passaggio è reso possibile dalla aziendalizzazione del settore dei servizi socio-assistenziali, che permettono anche, oltre alle possibilità di "valorizzazione" offerte dalla privatizzazione, anche il mantenimento a livelli di guardia di possibili tensioni sociali e di rispondere a quei bisogni di natura prettamente psicologica relativi al "senso di comunità" (partecipazione e appartenenza).
3 Marx la definisce "popolazione superflua per le esigenze della produzione".
4 "I bisogni sono aumentati e si sono differenziati, richiedendo risposte sempre più specializzate e ad elevato consumo di tempo, mentre il tempo disponibile all'interno delle famiglie si è andato rapidamente riducendo. La comunità locale, con i processi di urbanizzazione prima e con l'invecchiamento della popolazione poi, ha smesso di essere fonte di servizi di sostegno. Una risposta adeguata ai bisogni richiede quindi che altri soggetti organizzati e specializzati garantiscano le risposte che famiglie e comunità non sono più in grado di dare". C. Borzaga, relazione per un convegno della Città di Torino sulle "politiche attive del lavoro".
5 Continua Borzaga: "Le caratteristiche della cooperazione sono tali da innestare con successo meccanismi altrimenti difficoltosi per altri tipi di imprese, sia a causa dell'incertezza circa le dimensioni e la stabilità della domanda, sia, soprattutto, a causa della difficoltà a controllare l'impegno dei lavoratori e quindi il costo del lavoro (...) Nella produzione di servizi sociali e di interesse collettivo, quantità, qualità e costi, dipendono in primo luogo dalla capacità di coinvolgere i lavoratori, di far sì che si identifichino con l'organizzazione e la sua mission, di spingerli a cercare spontaneamente la soluzione dei problemi, le opportunità che si presentano e i modi per sfruttarle. In quest'ambito di attività vale in pieno - insiste con estrema chiarezza ideologica Borzaga - quanto H. Simon ritiene valido per ogni tipo di organizzazione: 'La capacità delle persone di identificarsi con l'organizzazione per cui lavorano rappresenta la più importante forza nel rendere le organizzazioni efficienti nel raggiungere i propri obiettivi e nel metterle in condizione di competere efficacemente con il mercato'. Secondo questo autore - dice con approvazione Borzaga - per ottenere una elevata identificazione è necessario far leva sull'altruismo dei lavoratori". Più chiaro di così ...
6 Secondo A. Fumagalli "il sistema delle cooperative è una delle principali vie che permettono la diffusione delle tipologie di lavoro a più alta intensità di sfruttamento". "I rapporti interpersonali che si costituiscono all'interno delle cooperative - continua Fumagalli nel saggio Aspetti dell'accumulazione flessibile in Italia - , la cultura della solidarietà, l'efficienza produttiva, il conformismo e le dinamiche imitative di gruppo, sono tra gli stimoli che condizionano i comportamenti dei membri di organizzazioni fortemente motivati da progetti sociali e fini mutualistici", parallelamente ad una condizione di flessibilità esasperata caratterizzata da "salario ridotto, intensificazione del lavoro, limitazione del conflitto, modularità della prestazione e ricatto verso i dissenzienti di sprofondare nello stato dei senza lavoro e di povertà diffusa". Il saggio è contenuto nel libro Il lavoro autonomo di seconda generazione, a cura di S. Bologna e A. Fumagalli, Feltrinelli, 1997.
7 "La vera, specifica funzione del capitale in quanto capitale è quindi la produzione di plusvalore, e questa ... non è altro che produzione di pluslavoro, appropriazione di lavoro non pagato all'interno del processo di produzione reale; pluslavoro che si esprime, si materializza, in pluvalore". K. Marx, in Libro I, Capitolo VI inedito de Il Capitale, La Nuova Italia ed..
8 "... il processo produttivo che è processo di produzione di merci è unità immediata di processo lavorativo e processo di valorizzazione". K. Marx. op. cit.
10 La citazione è tratta, al pari di quelle che seguono, dai Grundrisse marxiani, edizione Einaudi. Utile il saggio di A. Signorino "Frammento sulle macchine" e la questione del controllo operaio e sociale" pubblicato sulla rivista Lineamenti, N° 12, 1986.
Nei termini di "criteri d'accesso" ai servizi e di "modalità metodologiche e organizzative di gestione" degli stessi, solitamente codificati nei "capitolati di gara".
11 Un detenuto che accede alle "misure alternative" al carcere secondo un "progetto personalizzato" che prevede l'insierimento in cooperativa sarà, nei suoi rapporti di lavoro con la direzione della stessa, particolarmente ricattabile e praticamente impossibilitato ad avanzare alcuna pretesa critica in tema di diritti minimi, organizzazione del lavoro, mansioni, ecc., pena, appunto, il rischio di perdere la "misura alternativa".
12 Secondo P. N. Johnson-Laird "il pensiero si presenta in forme svariate", dal "flusso libero delle idee nel sogno ad occhi aperti" alla "aritmetica mentale, in cui si agisce in un modo che è volontario e controllato consciamente". Un concetto importante per risolvere un problema sociale o intellettuale attraverso il "ragionamento" è quello di "informazione semantica", cioè se il ragionamento attivato "contenga più informazioni delle premesse, ovvero, più precisamente, se riesce ad eliminare più stati di cose di quelli esclusi dalle premesse". Estendendo il ragionamento che Jonhson-Laird compie in La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva (Il Mulino), un processo lavorativo "può anche essere definito come un modo sistematico di ragionamento che aumenta l'informazione data".
13 Si pensi, ad esempio, all'importanza della Fondazione Zancan di Padova o dell'Istituto Labos di Roma nella elaborazione di ricerche e soluzioni nel campo dell'emarginazione grave, o alla Fondazione Agnelli anche in relazione alle tematiche sul "terzo settore", o al Consorzio Aster di Milano su ricerche per conto di Amministrazioni pubbliche ...
14 Revelli, al pari dei 35 intellettuali firmatari di un manifesto apparso su Il manifesto del 26 ottobre 1996, indica nella riduzione dell'orario di lavoro, nell'estensione della sfera dell'economia solidale e nell'istituzione di forme di reddito garantito il "programma minimo" per "domare" i "poteri forti" e per garantire la costituzione di un "nuovo essere sociale".
15 Subcomandante Marcos, citato da R. Bugliani nel saggio-manifesto Per una dialettica di lotta antineoliberista, in Invarianti N° 30, novembre 1997.

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