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qualità totale e coop sociali
by uomonero Thursday, May. 06, 2004 at 9:41 AM mail:

un'analisi sulla questione qualità redatta a fine anni novanta

QUALITA' TOTALE E COOPERATIVE SOCIALI



E' noto che il fenomeno delle cooperative sociali sia abbastanza recente. Esso risale alla seconda metà degli anni '70, quando, giust'appunto sull'onda del riflusso, pezzi interi di movimento sociale trovarono quale unica risposta alla "radicalità dei propri bisogni" (come si diceva allora) quella della "autorganizzazione" nelle cooperative.

Alle spalle vi erano bisogni di liberazione dal lavoro di tipo fordista, eterodiretto, l'esigenza di controllare direttamente strumenti e prodotto del proprio lavoro, ma soprattutto l'idea che si potessero soddisfare tutta una serie di esigenze agitate dal movimento (socialità, lotta all'emarginazione, consumi culturali, ecc.) a cui lo Stato non sapeva dare risposta. A maggior sottolineatura di quanto accennato, va ricordato che è proprio sul finire degli anni settanta che si chiudono i manicomi rimandando "a casa" gli ex-degenti, senza alcuna forma di protezione e assistenza sul territorio da parte del Servizio Sanitario Nazionale di recente istituzione.

Le cooperative "sociali" agli inizi degli anni ottanta erano appena qualche centinaio in tutto il paese, ma già nel 1990 salivano a 1800 per giungere alle attuali 2500.

Oggi queste impiegano sui 50 mila lavoratori, a cui vanno aggiunti 15 mila volontari, rappresentando ca. il 4% di tutto il comparto delle cooperative. In buona parte la maggioranza sono cooperative di tipo A (54%), mentre il 35% sono di tipo B e l'11% di tipo misto. Le cooperative di servizi agiscono principalmente nel sociale (81%), invece quelle finalizzate all'inserimento delle persone svantaggiate sono orientate più o meno equamente nei servizi (30%), nell'artigianato (25%) e nel settore agricolo (24%). Territorialmente la maggioranza delle cooperative sociali sono concentrate in Lombardia, Sicilia, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio e Veneto. La media dei loro introiti è bassa: 823 milioni per le cooperative di tipo A (2.290 milioni per le prime dieci), 413 milioni per le cooperative di tipo B (915 milioni nelle prime dieci), per lo più concentrata nel settore pubblico (80% per le cooperative di tipo A, 75% per le cooperative di tipo B) (dati del '91).



Si può affermare con relativa sicurezza che per buona parte degli anni ottanta queste cooperative hanno assolto ad un ruolo sostitutivo dello Stato laddove questi non riusciva ad offrire dei servizi di assistenza e servizio alla persona, costituendo in questa maniera dei mercati di nicchia, privi cioè di agguerrita concorrenza. Questo fatto ha giustificato per tutto il decennio passato un sistema di appalti regolato dalla vicinanza "politica" a chi governava l'ente di competenza (USL, Comune o altro), ovvero seguendo regole extramercantili e clientelari.

L'esigenza di porre mano ad un processo di contemporaneo smantellamento del Welfare State e di esternalizzazione dei servizi di assistenza dello Stato, hanno spinto alla creazione di un nuovo mercato, molto più aperto ed esteso, trovando nelle cooperative sociali un buon referente. Ma la formazione di mercati aperti impone regole diverse, così come l'esigenza di riordinare la contabilità statale secondo politiche di spesa meno allegre e più contenute obbliga a liberarsi di sistemi di appalto affidati secondo le simpatie politiche del momento senza alcuna "razionalità" economica. Con la legge 381/91 il Parlamento ha imposto una prima regolazione del settore della cooperazione sociale ispirandosi a modelli di tipo aziendale, obbligando l'ente pubblico a ricorrere a sistemi di appalto fondati sul sistema della miglior offerta in termini di prezzo e qualità del prodotto. La competizione fra cooperative si sposta dalla sfera ideologica (e clientelare) a quella mercantile, facendosi su questo campo più accanita e spietata.



Volendo fissare delle periodizzazioni, si può dire che il processo di aziendalizzazione investe tutto il mondo delle cooperative sociali a partire dagli anni novanta, rivoluzionandone costumi, linguaggi, culture. La spinta alla trasformazione è data dal vincolo esterno della trasformazione del sistema degli appalti e dalla costituzione di un mercato dei servizi vero e proprio (in virtù dello smantellamento del W.S.) e dal vincolo interno determinato dalla crescita e dal consolidamento organizzativo di buona parte delle cooperative di vecchia data.

Ma il farsi "impresa" delle cooperative sociali non risulta così lineare e semplice. Non tanto per le eventuali resistenze interne alla "modernizzazione capitalista" da parte di quelle aree di soci nostalgici dell'epopea pioneristica del mondo della cooperazione sociale. Quanto per il carattere stesso della "esternalizzazione" dei servizi attuata dallo Stato che tende a privilegiare "una domanda sociale crescente, eterogenea, complessa, continuamente mutevole fra vecchie e nuove emergenze" (da "Lessico dell'impresa sociale"- AAVV - ed.Gruppo Abele).

Il superamento del carattere "universalistico" delle politiche sociali, affermatosi in Italia solo a partire dagli anni settanta sotto la spinta dell'onda lunga sessantottina, diventa in questo decennio una triste realtà con la reintroduzione del criterio del servizio alle fasce deboli della popolazione di democristiana memoria.

Ma il servizio mirato alle vecchie e nuove aree di emarginazione o "esclusione sociale" comporta inediti livelli di variabilità, temporaneità, diversificazione dei servizi. Non più, dunque, servizi gratuiti accessibili a tutti, che comportano costi enormi di mantenimento di personale dipendente, di strutture e risorse spesso inutilizzati, ma servizi "ad personam", forniti in tempo reale per la durata strettamente necessaria, senza sprechi, ricorrendo a personale e strutture individuati all'occorrenza, all'esterno, secondo il sistema delle gare d'appalto.

Il bacino delle cooperative sociali diviene per quest'ultimo aspetto un referente naturale del servizio pubblico sulla via della privatizzazione/esternalizzazione.

Le ricadute sul mondo d'orato del cosidetto "terzo settore" sono perciò terribili (dal nostro "retrogrado" punto di vista). Non solo occorre introdurre in molte cooperative, condotte secondo criteri familiari o seguendo criteri di elevata democrazia interna, modelli estranei di cultura manageriale (per cui gli "eletti" dei consigli d'amministrazione si autocandidano a corsi di specializzazione gestionale, marketing, organizzazione del lavoro altrui, contabilità finanziaria, finanziamento pubblico ed evasione fiscale, investimento), ma soprattutto occorre operare una ristrutturazione interna che permetta di riuscire ad offrire in mercati sempre più competitivi prodotti diversificati ed originali.

In altri termini, per buona parte delle cooperative sociali si tratta di operare una doppia rivoluzione che le faccia saltare a pié pari dalla fase pre-fordista, cioè del capitalismo straccione in cui sono collocate, a quella post-fordista, del regime del lavoro flessibile, qualificato, polispecialistico.

Paradossalmente proprio le caretteristiche specifiche del sistema cooperativo, rendono questo tipo di trasformazione per certi aspetti più agevole in una cooperativa solidale che in una normale azienda fordista. Vediamo perché.



Un po' di ripasso: caratteri fondamentali dell'impresa a qualità totale



Va, innanzittutto, aperta una parentesi per ricordare quali sono le caratteristiche proprie di un'azienda post-fordista, cioè di un'azienda ispirata al sistema della Qualità Totale, più prosaicamente noto come modello Toyota.

Secondo M.Revelli (vedi l'introduzione a T.Ohno "Lo spirito Toyota" - ed.Einaudi) la cosidetta fabbrica toyotista, a produzione "snella", si fonda nella sua dimensione tecnica sul concetto dei "sei zeri": zero scorte, zero difetti e scarti, zero tempi morti nella produzione, zero tempi di attesa per il cliente, zero burocrazia, zero conflitto.

Per poter realizzare questo sistema la Toyota si è strutturato su due principi organizzativi rivoluzionari: il just in time e l'autonomazione.



Il just in time

Il just in time si fonda sull'idea di un processo produttivo continuo, senza magazzini, senza scorte, senza polmonature, che varia col variare della domanda, adattandosi in tempo reale alle volubilità del mercato.

Produrre senza scorte significa produrre senza rete, permette di rendere visibili le vere disfunzioni di processo, evidenziandone le cause e dunque facilitandone l'eliminazione.

Con il just in time il rapporto col mercato cambia. E' il mercato stesso che comanda sulla produzione, formulando gli ordini a cui la produzione si deve adattare in tempo reale, sapendo mutare organizzazione del lavoro, organico, disposizione dei processi. Per reggere questo sistema dinamico e delicato al tempo stesso, cambia persino la struttura della comunicazione.

Il flusso comunicativo non segue più il decorso dal centro alla periferia, cioè dal centro dell'impresa alle sue unità periferiche, sottostando a piani in cui volumi produttivi e carattere delle merci sono determinati dalle scelte "illuministiche" del management. Nel sistema toyotista la comunicazione segue il processo inverso, dalla linea di confine fra impresa e mercato al cuore dell'impresa, da valle a monte, trasmettendosi sotto forma di domanda di prodotti o semilavorati da un segmento produttivo all'altro, procedendo all'inverso lungo tutto il flusso della produzione.



L'autonomazione

L'autonomazione è il principio per cui i difetti ed errori di produzione vanno corretti immediatamente, appena si manifestano, per evitarne la riproducibilità. Essa comporta un alto livello di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori, che in questo caso sono incentivati ad esercitare un controllo diretto e immediato sulla qualità del prodotto.

Non si può quindi prescindere da un diverso coinvolgimento della forza-lavoro nella produzione. La strutturale "resistenza" operaia all'erogazione della propria capacità lavorativa và aggirata costruendo intorno al lavoratore un ambiente sociale di tipo familiare, comunitario, dai forti legami interpersonali. L'alto grado di attenzione e di partecipazione migliorativa che richiede l'autonomazione comporta livelli di fiducia, fedeltà, disponibilità impensabili nella vecchia dispotica organizzazione fordista del lavoro. Il sistema toyotista richiede al lavoratore di mettere a disposizione dell'azienda ciò che prima questi usava per difendersi contro il sistema di sfruttamento: cioè la propria soggettività, la propria intelligenza e furbizia, spesso usate "informalmente" per diminuire intensità e durata del lavoro.



L'ambiente sociale quale apriori dell'impresa toyotista

Ovviamente questo grado di condivisione dei "valori" aziendali non deriva da qualche gita aziendale, dall'alzabandiera o dal canto dell'inno aziendale.

Il suo presupposto è l'eliminazione di qualsiasi struttura sindacale "autonoma" (nel senso di classe) e l'istituzione di un sistema retributivo fondato sul merito e la fedeltà aziendale. Il lavoratore nell'impresa giapponese ha come unico riferimento dei sindacati addomesticati, dai cui quadri vengono periodicamente reclutati i dirigenti aziendali, con la conseguenza di vedere praticamente sovrapprosti rappresentanza e ruolo di direzione del lavoro.

La struttura salariale giapponese è fortemente individualizzata, fondandosi sull'anzianità (fedeltà all'azienda) e sulla carriera pregressa (quanto assenteismo, quanto grado di collaborazione, quante idee di miglioramento fornite, quanta disciplina, ecc.). Solo un terzo del salario è costituito dalla paga base: i restanti due terzi sono composti da premi di produzione e straordinario. A questo si aggiunga l'impiego a vita con la garanzia di assunzione per i figli (ma solo per i lavoratori della fabbrica centrale, quelli garantiti da ristrutturazioni e licenziamenti).



Cooperative sociali e modello toyotista



Volendo riassumere, le caratteristiche di un impresa a qualità totale si possono sintetizzare in dieci punti:

1) rapporto col mercato rovesciato. Si mira a diminuire i costi di produzione, eliminando difetti e scarti, senza aumentare i volumi produttivi, puntando ad una maggiore differenziazione del prodotto. E' in questo caso il mercato che con la sua variabilità determina scelte e strutture produttive.

2) il flusso della comunicazione procede dal mercato alla produzione (kanban). Il processo lavorativo è attivato alla periferia dal mercato, non dal centro direzionale dell'impresa. Ogni segmento produttivo è cliente di quello che lo precede.

3) valorizzazione delle risorse umane. Tramite una maggiore partecipazione nell'organizzazione del lavoro del processo produttivo e una maggiore partecipazione "sociale" alla vita aziendale.

4) riduzione dei livelli di burocrazia e delle gerarchie aziendali.

5) produzione senza scorte e senza scarti.

6) riduzione dei tempi di attesa del cliente.

7) eliminazione dei tempi morti.

8) miglioramento continuo a piccoli passi (kaizen).

9) eliminazione del conflitto sociale.

10) sistema retributivo fondato sulla fiducia e sul merito.



A prima vista il grado di distanza fra impresa sociale e impresa toyotista è notevole. Certamente per le cooperative solidali esiste un handicap determinato dal fatto che solo ultimamente, in questi anni novanta, esse si sono poste in un ottica di acquisizione di una cultura "imprenditoriale". E il dibattito recente sul terzo settore e il non profit ne è l'involontario testimone.

Non bisogna dimenticare che le cooperative sociali sono spesso nate dietro la spinta solidaristica di gruppi di volontari, la cui azione era ispirata più all'improvvisazione e alla spontaneità che ad una vera cultura manageriale. Il carattere poco formalizzato di ruoli e competenze, l'alto grado di partecipazione democratica tipico degli esordi, sono ben distanti da qualsiasi "ortodossa" cultura aziendale. Eppure la selezione del mercato (e dell'appalto...) hanno spinto molte di queste cooperative a conformarsi sempre più ai criteri del calcolo economico e della gestione imprenditoriale. I valori di partenza, gli obiettivi sociali, vengono piano piano archiviati nella misura in cui si penetra nella giungla del mercato.



Il basso rapporto di capitale organico, la centralità del capitale variabile e, quindi, del fattore lavoro, ne fanno potenzialmente delle imprese ad alto valore aggiunto. Il passaggio da mercati di nicchia a mercati a maggiore competizione costringe buona parte di queste imprese a ristrutturarsi secondo criteri di "razionalità economica", un tempo poco condivisi.

La formalizzazione di una struttura organizzativa con ruoli e competenze ben determinati, la formazione di un "gruppo dirigente" con una cultura manageriale, la capacità di gestire e selezionare i soci-lavoratori secondo criteri conformi agli obiettivi dell'impresa, sono solo alcuni passaggi obbligati per poter attuare dei processi produttivi ispirati ai criteri di "qualità".

La forte tensione valoriale che caratterizza buona parte delle cooperative di solidarietà sociale, specie quelle più piccole, è in tal senso un elemento di forza. Lungi dall'essere un ostacolo alla maggiore sussunzione capitalistica, l'aspetto ideale permette una notevole coesione e carica motivazionale nei soci lavoratori all'interno di processi produttivi sempre più alienati (nel senso marxiano del termine).

Paradossalmente le cooperative sociali sono in grado di fornire quell'ambiente sociale ideale che permette l'autoattivazione dei lavoratori. Ambiente comunitario, pressanti richiami valoriali, identificazione nella cooperativa, forte motivazione, assenza di conflitto, burocratismo ridotto, sono alcuni degli elementi che rendo l'azienda cooperativa vicina, dal punto di vista della centralità delle risorse umane, al modello giapponese.

Esistono comunque delle differenze, legate al dimensionamento e alla forma partecipativa di queste cooperative, che rendono più o meno concretizzabile un processo di razionalizzazione capitalistica ispirato al concetto di qualità totale.



Le piccole cooperative (cioè quelle con un numero di soci lavoratori non superiore alle 15 unità) sono per certi versi quelle più refrattarie. Innanzitutto per l'esistenza di rapporti informali, senza ruoli esplicitati, senza un organizzazione strutturata, senza grandi livelli di programmazione. Esiste un coordinamento fra i soci che corrisponde ad un adattamento reciproco; la leadership è spesso carismatica ma non dichiarata. La rappresentanza sociale e la partecipazione ai processi organizzativi è molto elevata, ovvero sussistono elevati livelli di democrazia interna per quanto riguarda le scelte della cooperativa e la partecipazione al lavoro. Livelli di democrazia che sono determinati anche dai legami interpersonali, dalla condivisione dei fini, dalla coesione interna. La produzione è più orientata agli aspetti qualitativi che quantitativi. Spesso a questo stadio la cooperativa presenta fra i suoi soci una logica del "sacrificio", tipicamente volontaristica, certo valida nei momenti iniziali di sviluppo, ma inadatta a far emergere carenze e disfunzioni nell'organizzazione.



Le cooperative medie (cioè quelle fino a 50-60 soci) sono soggette a due forme diverse di organizzazione. La prima è a modello "presidenziale"; è caratterizzata da un leader riconosciuto che protende ad accentrare decisioni e talvolta delle competenze professionali, da una gestione paternalistica-dittatoriale della forza-lavoro, da una scarsa definizione dei ruoli, da una limitata formalizzazione dei processi. La seconda è a modello "organizzativo", dove si ha una definizione dei ruoli, della struttura gerarchica, delle responsabilità e una formalizzazione dei processi lavorativi. Inoltre vi è una maggiore pianificazione delle risorse, una migliore verifica e controllo dei processi. In genere queste cooperative hanno un buon livello partecipativo sul piano sociale (assemble dei soci annuali, gite, pranzi sociali), ma scarso su quello organizzativo. In questo senso si possono verificare conflitti fra soci fondatori e nuovi soci, ove questi ultimi si sentono privati di strumenti di controllo sull'agire della cooperativa, mentre i primi avvertono nei secondi una carente identificazione nei valori della cooperativa.



Le cooperative consolidate e mature (fino a 150-300 soci, ed oltre) sono ormai aziende con un'organizzazione formalizzata, con ruoli definiti che iniziano a porsi strategie di mercato e di marketing. Non hanno ancora la possibilità di destinare risorse specifiche ad alcune funzioni organizzative. Spesso si ha la presenza di persone che condividono funzioni differenti, specie nel coordinamento e nella gestione delle risorse umane. Non sono molte volte definite le procedure di "selezione del personale", manca un sistema valutativo e un sistema premiante. Non esiste un piano di formazione e addestramento. Dal punto di vista partecipativo è più facile riscontrare una maggiore partecipazione organizzativa ai processi lavorativi che un coinvolgimento nella vita sociale della cooperativa. L'assemblea dei soci è fortemente ritualizzata e sostanzialmente esautorata di potere. Si ha una sostanziale attribuzione di poteri alle strutture gestionali della cooperativa, con un graduale svuotamento dei meccanismi di legittimazione democratica. Il socio lavoratore non si identifica nel ruolo di socio: l'essere socio è solo una condizione del rapporto di lavoro.

Dal punto di vista dell'attuazione di sistemi di qualità è quest'ultima la forma più matura, anche se i livelli di distacco del socio lavoratore dalla vita sociale della cooperativa rappresentano un elemento di ostacolo.



E' indubbio che la ventata toyotista investirà anche le cooperative di solidarietà. La diffusione delle modulistiche e delle certificazioni di qualità UNI EN ISO 9000, specie nelle cooperative di tipo B (data la maggiore facilità di attuazione di criteri di qualità nella produzione di servizi e beni "materiali", e data la necessità di sopravvivenza su un mercato sempre più competitivo per questo ramo della cooperazione sociale), sono una realtà che segnala l'imminente rivoluzione. Questa trasformazione probabilmente sarà lunga e tortuosa. La perdita di controllo da parte del socio lavoratore sui processi di governo della cooperativa, la trasformazione della democrazia interna in un rito brezneviano, rappresentano in ogni caso un processo obbligato di alienazione dal potere sui "mezzi di produzione" della cooperativa a cui il socio può rispondere solo con la riscoperta del conflitto e la sindacalizzazione indipendente. Qualsiasi richiamo ai valori fondativi, ai sacri obiettivi della cooperativa, in tale contesto rinnovato risulta solo fumo negli occhi, ancor più se è mirato a giustificare il ruolo di inamovibili vestali dei soci amministratori neo managers, reali detentori del controllo sulle "forze produttive" della cooperativa. La costituzione di un management strutturato è un presupposto indispensabile alla rivoluzione toyotista, prima ancora degli alti livelli di partecipazione all'organizzazione e all'ideologia aziendale dei soci-dipendenti.

Ma per l'autorganizzazione e la lotta, anche qui, siamo solo agli esordi. Allons enfants, dunque.



Marco Prina

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buono per de-cooperazione
by de-koop Thursday, May. 06, 2004 at 9:52 AM mail:

mi sembrano articoli simili che possano arricchire il ftr sulla DE-COOPERAZIONE

merci bien

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un piccolo contributo
by paolopunx Tuesday, Jun. 22, 2004 at 10:22 AM mail:

Visto che anche dopo lo sciopero dei lavoratori delle cooperative, attorno al termine ed al concetto di cooperazione si continua a fare molta confusione, vorrei provare ad offrire alcuni spunti per il dibattito, che spero possano essere utili, senza alcuna pretesa di fornire soluzioni o spacciare improbabile verità preconfezionate.

COS’É LA COOPERAZIONE SOCIALE?

Banalmente si potrebbe rispondere che oggi la produzione non è che il frutto di un enorme processo di cooperazione sociale controllato e governato dal capitale. Una produzione materiale ed immateriale che non riconosce più né i confini della fabbrica, né quelli degli Stati nazionali, che si nutre d’ogni nostro alito di vita.
Una macchina produttiva così complessa e sconfinata che ha bisogno di una moltitudine di soggetti cooperanti per funzionare. Una macchina produttiva che non può essere governata solo attraverso il rigido comando, ma che necessita di una serie di dispositivi di controllo, capaci di lisciare i comportamenti.
Perché nonostante siamo noi che cooperiamo e che produciamo la ricchezza su questo pianeta, non decidiamo nulla né sui modi né su ciò che produciamo e consumiamo, né sulla distribuzione di quanto realizzato?
Per farmi capire meglio vorrei provare a fare due esempi.
Un gruppo di ragazzini che ascolta musica rap, realizza uno splendido graffito. Due settimane dopo la loro opera ed i loro comportamenti sono usati per fare uno spot pubblicitario. Eppure i ragazzini non hanno mai deciso di cooperare con il pubblicitario, né questo era il fine che si proponevano realizzando quel graffito.
Un ex operaio decide di mettersi in proprio, diviene così lavoratore autonomo. Lui sperava di non dover più avere un padrone, ma ben presto le regole del mercato cominciano a sviluppare il loro effetto, così piano piano finisce per non decidere più nulla né del suo lavoro, né del suo tempo.
La prima osservazione che si può fare è che il fine, l’obiettivo, di questa cooperazione è deciso da altri e non dai soggetti che la realizzano.
La seconda è che la sintesi ed il comando sul lavoro cooperante è rigidamente nelle mani del capitale.
Dunque la cooperazione di cui stiamo parlando è tutt’altro che orizzontale, possiede i suoi nodi di comando e le sue gerarchie interne.
Alcune delle armi usate per piegare la cooperazione alla logica del profitto sono abbastanza note (competitività, esclusione ed inclusione dal reddito, riconoscimento di status ed acceso diversificato alle risorse ed ai prodotti), altre invece sono più sottili.
D’altronde non dimentichiamoci che non siamo più semplici ingranaggi meccanici, muscolari, della macchina produttiva, e quando si tratta di sfruttare oltre ai muscoli anche i cervelli, quando la produzione diventa bio estendendosi alla vita, il governo dei processi produttivi ed il comando su ogni aspetto della cooperazione sono tutt’altro che scontati.

LA COOPERAZIONE IN GUERRA

La fase di guerra che stiamo attraversando svela quanto sia alta la preoccupazione da parte di alcuni (Bush in testa) che la produzione possa sfuggirgli di mano, che gli stessi dispositivi di controllo non siano sufficienti per mantenere il comando.
D’altro canto, però, è impensabile il governo dei cervelli, dell’intelletto, della cooperazione, solamente attraverso l’uso della forza, piuttosto, converrebbe parlare di una soglia oltre la quale si passa dai meccanismi di controllo, apparentemente più soft, a quelli più brutali, repressivi, di guerra a bassa, media o alta intensità.
Dietro la guerra in Iraq si nasconde la guerra contro l’umanità intera e per il suo dominio.
Le bombe sulla popolazione irachena non sono che un monito per chiarire a tutt@ chi comanda, per rendere visibile cosa succede quando si oltrepassa la soglia del controllo, ma anche per determinare su scala planetaria le gerarchie di comando sulla cooperazione.
Non si tratta però, esclusivamente, di uno scontro tra lobby economiche, militari, politiche all’interno di ciò che ormai appare, al di là di qualunque confine nazionale, come un impero globale, privo di dentro e fuori, ma anche di una differente concezione sulla definizione di soglia minima oltre la quale alla violenza del mercato si sostituisce quella della guerra.
In questo contesto muta radicalmente l’interpretazione del termine guerra: da conflitto armato tra due o più stati a modalità di gestione del quotidiano, dei territori, della cooperazione, ovvero ad una sorta di guerra civile permanente nell’impero.
Bush e company, evidentemente, pensano sia possibile imbrigliare l’anima della cooperazione attraverso l’ombra della guerra, l’eterna guerra preventiva, mentre altri ritengono che tale processo comprima le capacità produttive della cooperazione.
Si può costringere qualcuno con la forza a svolgere un lavoro materiale, ma nessun carro armato è in grado di incentivare le capacità creative, comunicative, relazionali, affettive di un essere umano.
In altre parole, oggi, attraverso un sofisticato sistema di ricatti ed incentivi si offrono motivazioni per dare il massimo, per vendere l’anima, mentre la mera costrizione è per sua stessa natura acerrima nemica della compartecipazione.
In entrambe le concezioni viene a galla il nesso che lega le bombe che cadono sulle città irachene alla vita di merda che ci fanno fare.
La sfida è quella di liberare la potenza della cooperazione dal potere sulla cooperazione, la prima, portatrice di progresso, di sviluppo in armonia con gli esseri viventi e l’ambiente, di quell’altro mondo possibile di cui tanto si parla, il secondo, portatore di sventura, guerra, dominio, comando, distruzione del pianeta e dei suoi abitanti, utilizzato esclusivamente per impedire l’estinzione del più grande parassita che abbia mai infestato la terra: il capitalismo!
Una sfida che necessariamente dovrà fare i conti con le dualità che caratterizzano la cooperazione: autovalorizzazione o valorizzazione capitalistica, autonomia dei soggetti e libera cooperazione orizzontale o processi di verticalizzazione e comando, bio ed eco esigenze o profitto, attività umana o sfruttamento del lavoro, reddito o guerra e ricatti, intelligenza collettiva o sfruttamento capitalistico della scienza, ecc.

LA COOPERAZIONE POSSIBILE

Quando si parla di cooperazione molt@ riducono il discorso allo sviluppo di cooperative o dell’associazionismo in generale, ma in realtà le cose sono decisamente più complesse e interessanti!
Prima di tutto è necessario chiarire che la cooperazione non é una forma neutra di produzione o di organizzazione del lavoro. Cooperare significa letteralmente operare insieme, si, ma per comprenderne davvero il significato occorre chiedersi: in quale forma, quando e per fare cosa?
Cominciamo ad affermare che la cooperazione capitalistica necessita di verticalità e di un sistema di controllo e comando, mentre qualunque tentativo di costituire forme di “cooperazione altra” non può che partire dall’orizzontalità delle relazioni che la animano!
Nel processo di cooperazione dominato dal capitale ognuno di noi si trova da sol@ a dover sostenere la propria relazione con esso. Le condizioni con cui questo processo si determina ed anche la percezione che se ne ha varia da soggetto e soggetto, da singolarità a singolarità. Dunque, il soggetto collettivo della produzione, al contrario che in passato, è caratterizzato più dalla disomogeneità che dall’omogeneità. In sintesi si potrebbe affermare che il molteplice, la moltitudine, non è che l’insieme di queste variegate singolarità le cui vite sono messe al lavoro e che la precarietà, di reddito e di tempo, seppur vissuta in forme diverse, appare come elemento comune a questa molteplicità di soggetti produttivi.
La precarietà di reddito ed il suo utilizzo ricattatorio sono così evidenti che è inutile aggiungere altro, ma per capire cosa significa precarietà di tempo occorre invece domandarsi cosa si decide davvero nell’utilizzo del proprio tempo.
La cosa risulta facile se ci si limita a prendere in considerazione il tempo di lavoro formale, ma il restante tempo, quello del consumo, passato davanti alla TV, delle relazioni, degli affetti, delle nottate trascorse a pensare a che fare domani, siamo davvero sicuri che non sia produttivo, che non produca profitti?
Quanto tempo ci resta ogni giorno da dedicare a noi stessi ed agli altri e soprattutto quanto per cooperare in altro modo?
Quando inizia il tempo della nostra militanza, quando quello della socialità, del lavoro, del consumo, della produzione?
Così come il potere si estende alla vita divenendo biopotere anche la politica non può che riguardare la vita e se la soggettività politica oggi ha un senso, essa dovrà imparare a muoversi nella sfera biopolitica.

I MECCANISMI DI CONTROLLO E LE DUALITÀ DELLA COOPERAZIONE

Se fosse sufficiente costruire qualche cooperativa per liberare la potenza della cooperazione dal potere sulla cooperazione, sarebbe davvero troppo semplice trasformare il mondo!
Eppure da qualche parte bisognerà pur partire per costruire esperienze di “cooperazione altra” capaci di stimolare processi di liberazione della cooperazione tutta!
Ma quali sono i meccanismi con cui viene esercitato il controllo e ripristinato il comando? Quali le dualità con cui si dovrà fare i conti?
Non dimentichiamoci che imparare a conoscere i dispositivi di controllo spesso offre ottimi spunti per capire cosa è meglio fare per renderli inefficaci.

Le forme dell’agire

Poco importa se l’esperienza di cooperazione si occuperà di politica, di produzione di beni o servizi o di socialità, poiché ciò che occorrerà porre in relazione saranno le nostre vite, quindi, scegliere un metodo piuttosto che un altro riveste un’importanza fondamentale.
Guardare alle singolarità come semplici articolazioni pensanti di un progetto deciso altrove o concepire le relazioni con gli altri esclusivamente in funzione di se stessi, rappresentano la peggior deriva per qualunque processo di “cooperazione altra” ed un’ottima opportunità per chi vuole riprodurre gerarchie di comando e/o trionfo dell’individualismo e dell’egoismo. Avanguardie, partiti, centralismo democratico, sono strumenti assolutamente inadeguati per costruire esperienze di cooperazione libera, mentre la comunicazione orizzontale rappresenta il primo passo da compiere per mettere in relazione le diversità, le singolarità, che operano insieme. Da soli non siamo che atomi scomposti di una produzione dominata dal capitale, insieme rappresentiamo la potenza della cooperazione. Né solitudine, né subordinazione, si potrebbe dire, ma affinché le diversità divengano davvero ricchezza è necessario sviluppare uno scambio continuo tra l’apporto che le singolarità moltitudinarie offrono nell’operare insieme e l’arricchimento soggettivo che ne ricavano da questa relazione. La potenza di questo scambio sta proprio nel far cooperare le diversità, costruendo così un bene comune a disposizione di tutt@ e non nell’annullarle, nel ridurle all’unico, nell’appiattirle.
In questo senso la cooperazione è un processo dinamico che muta continuamente tanto le singolarità che la compongono quanto l’oggetto stesso del loro operare insieme. Un processo in cui ci si nutre uno dell’altro senza divorarsi mai, a differenza di ciò che avviene nella cooperazione dominata dal capitale.
Non è certo un caso se il primo dispositivo di controllo sulla cooperazione riguarda proprio l’orizzontalità come scelta metodologica.
Dal punto di vista legislativo si tende a ridurre qualunque esperienza di cooperazione a specifiche figure giuridiche (cooperative, associazioni, società, ecc.), in cui si ripropone una gerarchia di ruoli interni (Consigli Direttivi, Presidenti, Segretari, ecc.), una verticalizzazione delle relazioni che mina alla radice la scelta dell’orizzontalità.
Non si tratta di affrontare la questione semplicemente in termini formali o ideologici, ma sostanziali. Ovvero, meglio un’associazione in cui i ruoli sono solo formali, ma le relazioni, in sostanza, permangono libere e totalmente orizzontali, che un gruppo in cui si ripropongono feroci gerarchie interne!
A volte il processo di verticalizzazione intraprende altre e più tortuose strade che quelle giuridiche e veste i panni dell’impresa, dell’azienda.
La scelta dell’impresa come metodo di gestione di pezzi della cooperazione spesso viene proposta e motivata in nome di un efficientismo organizzativo.
Non pensate che tale modello di gestione riguardi semplicemente le attività produttive o certe cooperative, ma pervade anche una parte del mondo dei centri sociali e delle organizzazioni politiche. In realtà, attraverso la logica aziendale, non solo si riproducono infinite gerarchie interne, sviluppando più potere che potenza, ma si finisce per misurare l’efficacia dell’operare insieme esclusivamente in relazione a tempi e obiettivi posti da altri.
Possibile che proprio ora che si danno le condizioni per sviluppare cooperazione orizzontale, che il fordismo è definitivamente scomparso, la logica d’impresa susciti ancora tutto questo fascino?
Non sarebbe meglio, invece di prestarsi ai tentativi di verticalizzazione, utilizzare come metodo organizzativo quello della cooperazione orizzontale?

I progetti

Se la comunicazione tra diverse singolarità è il primo passo da compiere, definire l’oggetto del proprio operare insieme è decisamente il secondo. Chiaramente, vi è una differenza sostanziale tra operare insieme per un progetto deciso da altri o costruirlo partendo dalla relazione tra sé e gli altri, ma parlare di diversità cooperanti, non significa che non sia necessario ricercare uno scopo, un progetto comune. Non si può pensare di ridurre tutto al semplice culto della forma ed anche se si usasse la cooperazione orizzontale per produrre armi chimiche, ciò sarebbe comunque inaccettabile, incondivisibile.
Tantopiù il progetto sarà capace di veicolare la sua valenza biopolitica (il suo alto valore d’uso sociale), tanto più sarà possibile liberare la potenza della cooperazione, diffondere l’esperienza, come se si trattasse di una reazione a catena capace di contagiare altri pezzi di cooperazione.
Tantopiù il progetto sarà capace di veicolare altre modalità di intendere le relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente, di iniziare a costruire ora il famoso altro mondo possibile, tantopiù si potrà davvero parlare di cooperazione altra.
Privilegiare le bio ed eco esigenze invece che il profitto, ripensare a forme di produzione e consumo non inquinanti, tutelare l’ambiente in cui viviamo, riconsiderare le relazioni tra esseri umani e con gli altri esseri viventi, ridistribuire le risorse in forma egualitaria, sono le condizioni principe per parlare di cooperazione altra.
Più che propagandare improbabili ritorni al passato, occorrerebbe ragionare su un altro modo di intendere la scienza ed il progresso tecnologico.
C’è già la tecnologia per costruire macchine all’idrogeno, ma si preferisce avvelenare il pianeta ed i suoi abitanti usando il petrolio, esistono già fonti energetiche alternative, ma si preferisce costruire centrali nucleari o usare fonti inquinanti, ci sono già le condizioni per tutelare davvero la salute, ma si preferisce far guadagnare le case farmaceutiche, e si potrebbe andare avanti così all’infinito.
E se l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica fossero utilizzati per affrontare i bisogni dell’uomo in armonia con il pianeta invece che in funzione del profitto, cosa accadrebbe?
Che potenzialità potrebbe mai avere un intelligenza collettiva frutto della cooperazione orizzontale altra? Quale salto in avanti, o meglio in “altra” direzione, potrebbe mai fare il genere umano?

IL MERCATO COME CONTROLLORE

Che si tratti di un impresa, una cooperativa, un lavoratore autonomo o quant’altro, è assurdo pensare di non dover fare i conti con un mercato globale, di merci materiali e immateriali, di beni e di servizi, improntato esclusivamente al profitto, alla competitività, al comando e che se ne infischia delle bio ed eco esigenze. Perciò meglio chiarire subito che anche i progetti frutto di cooperazione altra non possono certo sfuggire alle forche caudine del mercato.
Chiunque intenda realizzare un progetto sa bene che per farlo è indispensabile coprirne i costi e che questi quantomeno dovranno tenere conto sia della retribuzione e delle condizioni di chi lo realizzerà, sia del tempo necessario ad ogni singolarità per cooperare con gli altri. Per affrontare il problema si possono scegliere diverse strade, schematicamente raggruppabili in tre: autofinanziamento e volontariato; competitività e autoreddito; accesso ai finanziamenti e vertenzialità.

Autofinanziamento e volontariato
Sul volontariato si potrebbe dire sicuramente molto, soprattutto sul ruolo che questo ha assunto nel trasferimento di funzioni e servizi prima amministrati da strutture pubbliche ed ora gestiti in forma privatistica da associazioni o cooperative sociali. Un trasferimento che è stato realizzato non certo con l’intento di costituire una sfera pubblica non statuale, ma al solo scopo di ridurre i costi dei servizi a totale discapito sia dei fruitori sia di chi vi lavora. Capita spesso, in queste strutture, di scoprire di essere volontario solo quando si chiede di venire retribuiti per il lavoro prestato. D’altronde il cosiddetto terzo settore, è ricco di squallidi personaggi che con la scusa dell’associazionismo, del socio lavoratore, del volontariato, hanno saputo mostrare solo il peggio del capitalismo. Altro che cooperazione orizzontale, lì vive solo lo sfruttamento bestiale, la gerarchia, la subordinazione. Molti sono gli stessi che come avvoltoi dopo le guerre si scannano per spartirsi il business della ricostruzione e degli aiuti umanitari. Questi personaggi non sono altro che la rappresentazione del capitalismo compassionevole, tanto caro a Mr. Bush.
Il dramma è che anche coloro che sono armati di buone intenzioni, e ne esistono sicuramente, rischiano di soccombere, schiacciati dalle regole del mercato.
Dunque, è lecito domandarsi: coprire i costi di un progetto attraverso l’autofinanziamento e prestando la propria opera gratuitamente, è davvero una scelta priva di compromessi e non sottoposta a ricatti?
A mio avviso, l’autofinanziamento invece di porre il problema della riappropriazione della ricchezza prodotta dalla cooperazione tutta, si limita ad affrontare la questione della copertura dei costi attraverso una più ampia richiesta di partecipazione, invitando le singolarità a destinare una parte del proprio reddito per realizzare il progetto.
Ma se il progetto costa molto e le singolarità coinvolte hanno un reddito troppo basso, che si fa? Si rinuncia al progetto o eventualmente si chiede a tutt@ di vivere in povertà?
Certo, se parliamo di cooperazione orizzontale di carattere prevalentemente politico, probabilmente l’autofinanziamento e la gratuità della propria partecipazione mantengono una loro validità, ma se i progetti da realizzare riguardano la produzione di beni e servizi i dubbi sono davvero notevoli.
Inoltre, per cooperare e realizzare un progetto occorre tempo. Finché la nostra collaborazione è gestibile oltre il lavoro formale il problema si pone relativamente, ma quando non è così, come facciamo a procurarci il reddito necessario per vivere?
Ecco che ciò che pensavamo di aver gettato dalla finestra ricompare dalla porta ed il costo del progetto viene semplicemente scaricato sulle singolarità cooperanti, costrette a subire il ricatto sul reddito in totale solitudine.
Oggi, fare il volontario a tempo pieno, appare un’esperienza limitata a poche persone che dispongono di molto tempo e di un minimo di reddito, oppure a chi è ricco, gli altri, le altre, proprio non possono permetterselo!
Come possiamo pensare che progetti incapaci di fornire risposte collettive alla questione del reddito possano risultare interessanti per la moltitudine o diffondersi?

Competitività e autoreddito
Qualunque progetto di produzione di beni o servizi viene immediatamente posto in competizione con mille altri. Una competizione feroce, che non concede sconti a nessuno, dove la qualità di ciò che si propone spesso è secondaria rispetto al basso costo di realizzazione.
Nel mercato, l’alto valore d’uso sociale di un progetto frutto di cooperazione orizzontale assume tutt’altro valore. Lo sanno bene quelle compagne e quei compagni, armati di buone intenzioni, che hanno provato a costruire cooperative e si sono ritrovati stritolati nei meccanismi giuridici, di mercato, organizzativi, ecc.
Non basta affermare che un’esperienza di cooperazione orizzontale dovrebbe ripartire in maniera equa ciò che si realizza insieme per risolvere il problema dei costi e del reddito garantito da sé (autoreddito), poiché la competitività che caratterizza il mercato rischia di far naufragare il progetto stesso o mutarlo a tal punto da dequalificarlo completamente sotto l’aspetto dell’alterità, del metodo, della realizzazione, della riproducibilità.
Banalmente si potrebbe dire, che un’equa distribuzione della ricchezza è cosa assai diversa da un’equa distribuzione della povertà.
Un bellissimo progetto in cui le persone lavorano 11 ore al giorno, senza alcuna tutela per la salute e la sicurezza e con una retribuzione oraria di 2 Euro, perde ogni fascino ed ogni alterità ed acquista il sapore del più bieco sfruttamento o dell’autosfruttamento. E poi, come quantificare il reddito spettante alle varie singolarità cooperanti? Remunerare il tempo prestato oppure la semplice partecipazione, considerare solo la fase di realizzazione del progetto o anche l’ideazione, ecc.
Questi rimangono problemi aperti, da affrontare volta per volta, però è meglio essere consapevoli che il meccanismo di contenimento dei costi imposto dal mercato insieme al ricatto sul reddito, rischiano di mietere le prime vittime proprio tra le singolarità cooperanti.

Accesso ai finanziamenti e vertenzialità

Se la richiesta di fondi pubblici (CEE, Regionali, Statali, o quant’altro) per coprire i costi di un progetto fosse sottoposta esclusivamente ad un controllo sul loro effettivo utilizzo, questo potrebbe apparire come un terreno neutro.
In realtà, basta vedere come vengono spartiti i denari pubblici tra grosse lobby legate a vecchie e nuove parrocchie politiche per capire quale fauna popola tale ambiente e soprattutto quali interessi si celano dietro a ciò che alcuni si ostinano a chiamare No Profit. La Compagnia delle Opere piuttosto che la Lega delle Cooperative rappresentano delle vere e proprie potenze in questo settore.
Costruire vertenze per accedere a finanziamenti pubblici è un bel modo anche per svelare l’esistenza di questi monopoli occulti del denaro pubblico.
A mio avviso, però, per parlare davvero di vertenza dovrebbero sussistere almeno questi tre elementi: condivisone “sociale” del progetto e del suo valore d’uso, individuazione delle controparti pubbliche e/o private, capacità di non ridurre il conflitto ad una trattativa privata.
Il primo passo nella costruzione di un percorso vertenziale, non può che riguardare il tentativo di sviluppare il progetto nella maniera più ampia possibile, cercando di suscitare interesse, condivisione, partecipazione, coinvolgimento del territorio (reale o virtuale).
Il processo di cooperazione altra da questo primo passo non può che trarne potenza, espandendosi.
Successivamente, si pone il problema della riappropriazione delle risorse necessarie per finanziare il progetto, ed é proprio qui che si apre il conflitto con i dispositivi di controllo e comando.
Chi decide cosa produrre e consumare? Qual è il reale valore d’uso di un progetto?
Questa è sicuramente la tappa più difficile, perché le proveranno tutte per ripristinare comando. Cercheranno di vincolare il progetto chiedendoci di snaturarlo, di snaturare noi stessi e il processo di cooperazione in atto, il metodo, la forma, il contenuto.
Cercheranno di farci rinchiudere in esperienze di nicchia o elitarie, incapaci di diffondersi, di riprodursi e costantemente sottoposte al rischio di deflagrare all’interno, di implodere.
Cercheranno di ridurre la vertenza ad una trattativa tra le articolazioni del comando e la soggettività politica, invece che con la cooperazione sociale nel suo complesso.
Li abbiamo già visti all’opera, anche nella trattativa sulla sede del Leoncavallo, con Albertini che chiedeva al Centro Sociale di snaturare la propria esperienza, di firmare una dichiarazione dietro l’altra… ci mancava solo la proposta di divenire tutti giovani Boy Scout, poi…
E se i dispositivi di controllo dovessero rivelarsi inefficaci, ci minacceranno, cercheranno di isolarci, criminalizzarci, spezzare i fili della comunicazione orizzontale, poiché, anche nella biopolitica, le sorti delle vertenze continueranno a dipendere dai rapporti di forza.

NOTE CONCLUSIVE

Qualunque strada si sceglierà di intraprendere per realizzare progetti cooperanti il ricatto sul reddito e di conseguenza i problemi relativi al tempo per fare altro, saranno nostri compagni di viaggio.
Si é detto che le esperienze di cooperazione orizzontale dovrebbero porsi costantemente il problema di come coinvolgere la cooperazione tutta, mutandola, ma tale processo per realizzarsi necessita di particolari condizioni. Restituire autonomia decisionale ai soggetti, spezzare il ricatto sul reddito, liberare tempo sono solo alcuni degli obiettivi in cui RdC e cooperazione sociale camminano affianco.
Alcuni ritengono che il RdC rappresenti una proposta economicista, ma evidentemente non colgono la stretta connessione che lega il tempo al reddito.
Come si fa a costruire un altro mondo se siamo costretti ad usare il nostro tempo per procurarci i soldi necessari per vivere, sottostando ai mille ricatti sul reddito?
Quegli stessi ricatti che ti fanno competere al ribasso, che ti costringono ad accettare lavori a condizioni e retribuzioni sempre peggiori, a lavorare fino a tardi anche se formalmente non hai un padrone, ad essere sempre disponibile a qualunque proposta, a costruire macchine che poi ti avveleneranno i polmoni o armi che uccideranno altri esseri viventi, ecc.. Altro che etica del lavoro, piuttosto dovremmo chiederci qual è il reale valore d’uso sociale di questi ed altri lavori.
Invece, attraverso il RdC è possibile riappropriarsi del tempo, per fare altro, restituire ai soggetti un’autonomia decisionale, oggi, prigioniera dei ricatti, ovvero si rende possibile il passaggio dal rivendicare migliori condizioni di sfruttamento al rifiuto dello sfruttamento e si pongono le condizioni per liberare la cooperazione sociale dal controllo e dal comando del capitale.
Ma se la rivendicazione di un RdC pone le condizioni per liberare la potenza della cooperazione, lo sviluppo di esperienze di cooperazione altra sono fondamentali affinché il RdC non venga declassato da potenziale strumento di liberazione a semplice ammortizzatore sociale.
Di conseguenza è indispensabile cominciare a ragionare, anche in maniera critica, sulle esperienze già realizzate o che si intendono realizzare, poiché la strada che si sta percorrendo più che di certezze è ricca di domande, di situazioni sempre diverse, nuove, tutte da indagare, da inventare.
La speranza è che questa riflessione, possa in qualche modo stimolare un dibattito tutt’altro che chiuso, nella consapevolezza che il compito di fornire risposte esaurienti continua a rimanere nelle mani delle esperienze reali, esistenti o da realizzare.

Paolo Punx

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riflessione
by giolanskij Tuesday, Jun. 22, 2004 at 12:24 PM mail:

Intanto ringrazio l' autore del post iniziale, veramente ben scritto, ben argomentato e privo di facili frasi fatte e slogan.

Nel merito: condivido tutto quello scritto ma non riesco a vedere la negatività dell' organizzazione a cooperativa sociale anche perchè non vedo modelli alternativi attualmente realizzabili.

E' vero quello che si dice sulla fabbrica giapponese, sul modello inventato da Ohno per la Toyota e tutte le ripercusioni che hanno portato nell' ambito industriale occidentale ma:
1)Il modello giapponese esportato in europa e USA non ha mai funzionato. Anche la FIAT ha provato a utilizzare il modello TQM (Total Quality Management) mutuato dal Company Wide Quality Control giapponese e i risultati si sono visti, in negativo. L' automazione dello stabilimento di Termoli è stato un insuccesso, Melfi non ne parliamo. Perchè? Secondo me perchè i valori culturali e principi sociali interiorizzati in estremo oriente sono totalmente differenti dai nostri.
2)Non vedo tutto questo male nel senso di appartenenza dei lavoratori all' impresa, la delega, la presa di coscienza del proprio ruolo. Esattamente il contrario che nel modello taylorista-Fordista, alienante. Perchè non va bene?
3)Giusto quello che dice l' autore sulla perdita di spinta iniziale delle cooperative sociali, ma c' è da dire che se un' impresa vuol sopravvivere nel mercato si deve organizzare. Lo fanno anche i centri sociali e le associazioni di volontariato. E' impensabile (almeno per me) coordinarsi fra 300 persone in tempo reale. E' chiaro che va fatta una divisione dei ruoli, se no si chiude. E' una scelta, condivisibile o meno, ma il problema rimane: CHE ALTERNATIVE CI SONO?

saluti

giolanskij

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