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interessi nei grandi laghi
by uganda Wednesday, May. 26, 2004 at 7:58 AM mail:

Ex ZAIRE, UNA PREDA AMBITA NEL CUORE DEL CONTINENTE Interessi in conflitto nell'Africa dei Grandi laghi

http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Gennaio-1999/9901lm20.01.html

L'Africa centrale e orientale subisce le conseguenze del genocidio ruandese e degli sconvolgimenti politici nell'ex Zaire. Il fallimento della diplomazia francese, americana e sudafricana lascia il posto a una nuova geopolitica regionale. I responsabili politici sapranno realizzare quella rinascita africana che tutti auspicano, oppure si tratterà dell'ennesima mistificazione, come fu in molti casi la decolonizzazione, quasi mezzo secolo fa? L'evoluzione del regime di Laurent-Désiré Kabila non lascia molto spazio all'ottimismo.

di Mwayila Tshiyembé*
Fallimento dello stato, crisi delle società, l'Africa centrale e orientale si sta disgregando. Questo caos generale è alimentato dal ricorso indiscriminato al "diritto di ingerenza" negli affari interni dei paesi dell'area. In pratica le organizzazioni internazionali ne hanno fatto uno strumento di politica estera, così come il Consiglio di sicurezza dell'Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) nel caso di paesi privi di governo. L'Onu è intervenuto in Somalia (1992) e in Ruanda (1994), la Forza di interposizione dell'Africa occidentale (Ecomog) in Sierra Leone (1992) e in Liberia (1995) la Missione di applicazione degli accordi di Bangui (Missab) nella Repubblica centrafricana dopo le rivolte del 1997.
Gli stessi stati si intromettono negli affari interni dei vicini.
L'Uganda e l'Angola sono intervenuti in sostegno rispettivamente dei ribelli del Fronte patriottico ruandese (Fpr) in Ruanda nel 1990 e nel 1997, e del generale Sassou Nguesso in Congo Brazzaville nell'ottobre 1997. Una prima coalizione di stati si è costituita contro il regime del maresciallo Mobutu (Uganda, Ruanda, Burundi, Zimbabwe e Angola), una seconda per sostenere il regime di Laurent-Désiré Kabila nell'ex Zaire (Zimbabwe e Angola), mentre una terza vi si oppone (Ruanda e Uganda). Il Senegal e la Guinea Conakry si muovono in aiuto della Guinea Bissau (1). E la lista di interventi continua ad allungarsi con regolarità.
Queste ingerenze hanno conseguenze disastrose per la stabilità degli stati interessati, privandoli di alcune delle loro prerogative di sovranità. Il Ruanda è stato privato della propria competenza giurisdizionale con la creazione del Tribunale penale internazionale di Arusha, che deve giudicare i responsabili del genocidio del 1994 e da cui, paradossalmente, si attende un contributo per la riconciliazione dei popoli. La stessa competenza costituzionale è stata svuotata di significato, con la conclusione di trattati come gli accordi di pace di Arusha per il Ruanda e di Lusaka per l'Angola (nel novembre 1994); la comunità internazionale si sostituisce ai popoli interessati elaborando le regole che definiscono lo statuto degli stati disgregati dalla guerra civile. Infine le funzioni in materia di sicurezza sono sempre più spesso esercitate in nome dell'Onu e delle organizzazioni regionali africane, che si sono attribuite il diritto di mantenere l'ordine. Questi stati si trovano quindi strumentalizzati da istituzioni straniere e, in questo modo, "internazionalizzati".
Allo stesso tempo questa logica di ingerenza ha creato dei principati, cioè dei poteri di tipo medievale, fondati unicamente sulla forza delle armi e sulle relazioni di influenza delle potenze protettrici. La loro caratteristica dominante è l'instabilità e qualunque cambiamento di interessi o di rapporti di forza in seno alla coalizione degli stati protettori scatena sistematicamente delle rivolte. E' stato così per l'ex Zaire, dove oggi i vecchi alleati di Laurent-Désiré Kabila combattono quest'ultimo, facendosi scudo della rivolta dei banyamulenge.
Inoltre con la comparsa di tutele africane distinte dalle tutele coloniali, il diritto di ingerenza ha contribuito alla violazione del diritto internazionale dei rifugiati. Non solo i profughi non sono stati allontanati dalle frontiere del loro paese di origine, come esige la Carta dell'Organizzazione dell'unità africana (Oua) sui rifugiati, ma il riarmo di una parte di essi nei centri di raccolta dell'ex Zaire era contrario alla convenzione di Ginevra del 1951 (2). Così, le Nazioni unite, la Croce rossa internazionale, le organizzazioni umanitarie non governative e gli stati hanno finito per abbandonare al loro triste destino centinaia di migliaia di profughi hutu nelle foreste e nelle savane dell'est della Repubblica democratica del Congo.
Il ciclone ruandese, facendo sentire i suoi effetti ben al di là dei Grandi laghi, si è rivelato un potente strumento di ricomposizione geopolitica dell'Africa centrale e orientale. Ha spezzato i due poli portanti dell'influenza britannica e francese, il Kenya e lo Zaire. Al primo polo corrispondeva una comunità economica che riuniva il Kenya, l'Uganda e la Tanzania. Attorno al secondo polo si raccoglievano due schieramenti: la Comunità economica degli stati dell'Africa centrale (Ceeac) composta da Zaire, Gabon, Camerun, Ciad, Repubblica centrafricana e Congo Brazzaville; e la Comunità economica dei paesi dei Grandi laghi (Cepgl) con Zaire, Ruanda e Burundi.
Nell'ottobre-novembre 1997 al posto del Kenya e dello Zaire si è costituita una coalizione eterogenea, che comprendeva Uganda, Angola, Zimbabwe, Ruanda e Burundi (con l'appoggio indiretto di Eritrea, Etiopia, Tanzania e Kenya). Questo gruppo di paesi si è mosso compatto contro il regime del maresciallo Mobutu e ha permesso la spedizione angolana contro il presidente Lissouba in Congo Brazzaville. Questo nuovo schieramento, che va dall'oceano Indiano (Mombasa, Dar-es-Salaam) all'oceano Atlantico (Luanda, Matadi, Libreville, Douala), ha ridisegnato l'Africa centrale - la Mittel Africa della geopolitica tedesca del Diciannovesimo secolo - che si colloca al punto di unione dell'Africa mineraria (che va da Città del Capo a Kinshasa), dell'Africa petrolifera (che va da Luanda a Lagos) e dell'Africa agropastorale (che va da Dar-es-Salaam a Massaua).
Tuttavia i paesi di questo nuovo schieramento (Uganda, Ruanda, Burundi, Zimbabwe, Angola, ex Zaire e Congo Brazzaville), così come i paesi vicini (Gabon, Camerun, Ciad e Sudan), non sono ancora usciti dalla crisi dello stato e della società che li sta divorando. Inoltre le difficoltà economiche, le potenzialità naturali non sfruttate e l'emarginazione delle giovani generazioni da parte di regimi tirannici non hanno permesso di utilizzare uno spazio vitale portatore di integrazione regionale.
Una crisi di legittimità interessa i governi dell'area. Si tratta infatti di dittature di diritto come in Angola e in Uganda, o dittature di fatto come in Ruanda o nella Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), fondate sul clientelismo, la corruzione, il qualunquismo e sulla paura come fondamento dell'autorità. Inoltre regna una cultura della violenza come strumento di conquista e di mantenimento del potere (Angola, Zimbabwe, Uganda, Ruanda, Etiopia, Eritrea, ex Zaire, Congo Brazzaville, sono tutti diretti da ex capi ribelli e il Burundi da un capo militare golpista.).
In terzo luogo, le impreparate milizie vittoriose, al soldo di un clan o di un uomo, si sostituiscono a un esercito repubblicano, cioè a una forza pubblica, garante della sicurezza delle persone e dei beni, delle istituzioni e dell'integrità territoriale. Questo è il caso del Movimento popolare per la liberazione dell'Angola (Mpla) nel 1975, del Movimento nazionale di resistenza armata (Mnra) nel 1986 in Uganda, del Fronte patriottico ruandese (Fpr) nel 1994, dell'Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl) nel maggio 1997 e così via.
Infine molti paesi dell'area devono fare i conti con le rivolte interne: l'Mpla si scontra con l'Unione nazionale per l'indipendenza dell'Angola (Unita), l'Fpr con l'ex esercito ruandese e le milizie Interahamwe, il governo Mnra dell'Uganda con l'Esercito di resistenza del Signore dei sostenitori di Joseph Kony (3), l'Afdl con i banyamulenge, il potere del maggiore Pierre Buyoya in Burundi con il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia (Cndd) dominato dai dissidenti del Fronte per la democrazia in Burundi (Frodebu).
A causa della grande debolezza di questi paesi è ancora presto per dire chi dominerà nella regione in un prossimo futuro.
L'Angola è forse il solo paese dell'Africa centrale che potrebbe disporre dei mezzi per diventare una potenza regionale. Paese petrolifero in procinto di competere con le monarchie del Golfo persico dopo le nuove scoperte di giacimenti off shore, l'Angola è uno stato marittimo con un'estensione di 1.246.700 kmq e una popolazione stimata in 11 milioni di abitanti. Tuttavia Luanda deve fare i conti con tre gravi problemi: una radicata cultura della violenza che accompagna l'interminabile lotta per il potere tra Mpla e i ribelli dell'Unita; l'alto costo da pagare per la ricostruzione di un paese distrutto da 24 anni di guerra e, infine, la discontinuità geografica della costa angolana che rende difficile il controllo dell'enclave di Cabinda, dove sono i giacimenti più importanti.
Questo fattore territoriale obbliga Luanda a "blindare" i territori limitrofi aiutando i regimi di Kinshasa e di Brazzaville, come dimostra il suo intervento a Matadi contro i ribelli dell'Afdl dell'estate scorsa. Tuttavia la capacità di proiezione dell'Angola potrebbe esserle fatale, se Luanda si impegnasse in una guerra di logoramento nell'ex Zaire orientale e se, allo stesso tempo, l'Unita estendesse il fronte della sua resistenza armata.
Privo di petrolio e di minerali, con una piccola superficie (237.
000 kmq) e con 18,7 milioni di abitanti, l'Uganda è uno stato chiuso che per i suoi sbocchi dipende dal Kenya. Paese agricolo (esportatore di caffè, tè e cotone), l'Uganda deve il suo sviluppo al dinamismo del presidente Yoweri Musuveni e soprattutto al suo status di paese cerniera nel dispositivo americano volto a contenere l'islamismo sudanese; un obiettivo che ha portato gli Usa a sostenere la rivolta sudanese del colonnello John Garang. In compenso, Kampala riceve l'appoggio finanziario del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale, due istituzioni controllate da Washington.
L'Uganda non ha gli strumenti per diventare una potenza regionale, anche se la sicurezza della frontiera con lo Zaire è un'ossessione condivisa con Ruanda e Burundi. La sua influenza sul regime di Kigali rimane intatta, mentre è venuta meno quella esercitata sul regime di Kinshasa.
Chiuso, con una piccola superficie (26.340 kmq) e privo di risorse minerarie e petrolifere, neppure il Ruanda può aspirare allo status di potenza regionale. Deve la sua forza alla popolazione (7,4 milioni di abitanti prima del massacro del 1994). Paese agricolo (esportatore di tè e caffè), rischia di essere distrutto dalla carestia se la regione del nord, il granaio del paese, rimarrà ancora in balia della violenza scatenata dal Fpr e dai ribelli. Come il Burundi, il Ruanda vive una grave crisi politica: a causa di un paradosso che trasforma la maggioranza della popolazione di origine hutu in minoranza politica e la minoranza tutsi in maggioranza politica, è impossibile arrivare a qualsiasi soluzione politica, poiché la percezione che le due etnie hanno del potere politico è antitetica.
Per i protagonisti delle violenze di origine hutu, la soluzione politica passa per la democratizzazione all'occidentale del paese; ciò garantirebbe una legittimità basata sul principio maggioritario. Al contrario, per i tutsi la democratizzazione è una minaccia mortale e inaccettabile, poiché la sopravvivenza della loro etnia è legata alla conservazione del potere politico e militare.
A causa dell'oscurantismo dei due estremismi, solo l'istituzione di uno stato multietnico o multinazionale potrebbe risolvere la situazione. Ciò permetterebbe di riconoscere il carattere binazionale delle etnie hutu e tutsi, garantire il loro diritto inalienabile a vivere sul territorio internazionalmente riconosciuto del Ruanda e del Burundi, istituzionalizzare un sistema politico di divisione proporzionale tra le due etnie di tutti i poteri statali e trasformare in repubblica il potere tradizionale (4).
La Repubblica democratica del Congo, uno dei principali teatri di distruzione e di saccheggi (5) nell'Africa centrale vittima della sua stessa estensione (2.345.000 kmq) e delle sue potenzialità minerarie (rame, cobalto, diamanti, oro) e umane (45 milioni di abitanti) è destinata a rimanere ancora a lungo in questa situazione a causa del fallimento dello stato e della crisi economica e sociale. Se 32 anni di mobutismo sono la causa principale di questa situazione, un anno di potere dell'Afdl ha spento sul nascere ogni speranza di cambiamento.
Si è così instaurato il kabilismo, un messianismo rivoluzionario arcaico che mescola populismo, dispotismo, incompetenza, irresponsabilità e corruzione. Colmo della sventura, i responsabili banyamulenge dell'Afdl, che hanno diviso con Laurent-Désiré Kabila il regno dell'arbitrio, non hanno avuto il coraggio di denunciare la tirannia che asserviva i congolesi. Al contrario, hanno atteso la decisione di Kabila di emanciparsi dalla tutela ugandese-ruandese per prendere le armi contro di lui.
In ogni modo, la riconciliazione nazionale proposta da Nelson Mandela nell'agosto 1998 rappresentava la migliore soluzione per far uscire il presidente Kabila dalla crisi. Infatti, il piano Mandela gli offriva un plebiscito, cioè il riconoscimento della sua funzione di capo di stato da parte di tutte le forze vive del paese (l'opposizione democratica e i membri dell'Afdl in rivolta), come fattore preliminare a qualunque discussione sulla costituzione di un governo di unità nazionale. Respingendo sdegnosamente questo piano, Laurent-Désiré Kabila non ha capito, come diceva Jean-Jacques Rousseau, che "il più forte non è mai abbastanza forte se non trasforma la sua forza in diritto e l'obbedienza in dovere".
Così, illuso dai demagoghi del suo schieramento fiduciosi in una vittoria militare anche se le sue truppe, prive di ogni mezzo, sembrano piuttosto dei boy-scout , Laurent-Désiré Kabila si accontenta di affidare il destino del paese agli eserciti stranieri dell'Angola e dello Zimbabwe, se non addirittura alla legione islamista di Sudan, Ciad e Libia (6), senza tener conto del peso della guerra sulle economie esauste dei paesi alleati.
Così, mentre una parte del paese è ancora nelle mani degli insorti, Kabila si accontenterà dell'ondata di xenofobia antitutsi che egli ha provocato per realizzare nei prossimi mesi l'ennesimo furto elettorale?
L'Africa centrale sarà quella zona emergente della "rinascita africana" che auspica il vicepresidente sudafricano Thabo Mbeki? Ancora oggi non si riesce a disegnare un progetto africano di società democratica, con le sue logiche sociali, i suoi attori, le sue strutture. L'unica speranza è che l'Africa, dopo aver toccato il fondo, non possa far altro che risalire la china. Grande è la miopia politica della diplomazia americana, che ha chiamato "nuovi dirigenti africani"capi di stato arrivati al potere con la forza delle armi e che praticano una politica del terrore. Ancora peggio, la "guerra dei sassi" che oppone l'Etiopia all'Eritrea dal maggio 1998 e la fine dell'intesa tra Kampala, Kigali e Kinshasa indicano la fine delle illusioni americane.
In ultima analisi vi sono almeno tre motivi per affermare che la situazione nella regione dei Grandi laghi non si è ancora stabilizzata.
L'entrata in scena di paesi esterni a questo quadro (Gabon, Ciad e Camerun) ha permesso di ridare lustro alla diplomazia francofona (vertice di Libreville nel settembre 1998), con la condanna dell'aggressione di Kampala e di Kigali contro la Repubblica democratica del Congo e l'invio da parte del Ciad di un corpo di spedizione di 2.000 uomini per sostenere il regime del presidente Kabila.
Sulla scia di questi avvenimenti il vertice Francia-Africa che si è svolto a Parigi il 27-28 novembre 1998 e al quale ha partecipato il segretario generale delle Nazioni unite ha strappato ai protagonisti del conflitto un accordo di massima sul cessate il fuoco, i cui dettagli dovevano essere regolati dal vertice dell'Oua svoltosi nel dicembre 1998 a Ouagadougou e a Lusaka. Tuttavia molti capi della ribellione non accettano l'accordo che impegna i loro dirigenti. Ironia della sorte, è proprio la francofonia, "roccaforte del neocolonialismo francese" secondo l'espressione di Laurent-Désiré Kabila alla vigilia del vertice di Hanoi del novembre 1997, che serve a quest'ultimo come ciambella di salvataggio.
Inoltre il Sudan migliora la propria posizione e spezza l'isolamento in cui si trovava dopo la rottura dell'intesa tra Etiopia e Eritrea e di quella tra Uganda, Ruanda e Repubblica democratica del Congo. Khartoum si è addirittura fatta beffe degli Stati Uniti inviando un corpo di spedizione a sostegno del regime di Kabila.
Infine, per quanto paradossale possa sembrare, la vittoria militare di una coalizione sull'altra apre scenari inquietanti, perché potrebbe significare la fine dei governi sconfitti.
Questa sarebbe la sorte dei regimi al potere a Luanda e Harare (nell'ipotesi di una vittoria militare della rivolta), e a Kampala e Kigali (nell'ipotesi contraria).
Si capisce allora perché una soluzione negoziale sarebbe nell'interesse di tutti. In questo senso la Francia e le Nazioni unite hanno fatto segnare un punto a loro favore, anche se gli Stati Uniti, preoccupati per la triplice intesa Kinshasa-Kigali-Khartoum, non hanno ancora detto l'ultima parola.

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