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giusto per fare un po' di chiarezza sul concetto di cooperazione
by paolopunx Tuesday, Jun. 22, 2004 at 12:57 PM mail:

Visto che anche dopo lo sciopero dei lavoratori delle cooperative, attorno al termine ed al concetto di cooperazione si continua a fare molta confusione, vorrei provare ad offrire alcuni spunti per il dibattito, che spero possano essere utili, senza alcuna pretesa di fornire soluzioni o spacciare improbabile verità preconfezionate.

COS’É LA COOPERAZIONE SOCIALE?

Banalmente si potrebbe rispondere che oggi la produzione non è che il frutto di un enorme processo di cooperazione sociale controllato e governato dal capitale. Una produzione materiale ed immateriale che non riconosce più né i confini della fabbrica, né quelli degli Stati nazionali, che si nutre d’ogni nostro alito di vita.
Una macchina produttiva così complessa e sconfinata che ha bisogno di una moltitudine di soggetti cooperanti per funzionare. Una macchina produttiva che non può essere governata solo attraverso il rigido comando, ma che necessita di una serie di dispositivi di controllo, capaci di lisciare i comportamenti.
Perché nonostante siamo noi che cooperiamo e che produciamo la ricchezza su questo pianeta, non decidiamo nulla né sui modi né su ciò che produciamo e consumiamo, né sulla distribuzione di quanto realizzato?
Per farmi capire meglio vorrei provare a fare due esempi.
Un gruppo di ragazzini che ascolta musica rap, realizza uno splendido graffito. Due settimane dopo la loro opera ed i loro comportamenti sono usati per fare uno spot pubblicitario. Eppure i ragazzini non hanno mai deciso di cooperare con il pubblicitario, né questo era il fine che si proponevano realizzando quel graffito.
Un ex operaio decide di mettersi in proprio, diviene così lavoratore autonomo. Lui sperava di non dover più avere un padrone, ma ben presto le regole del mercato cominciano a sviluppare il loro effetto, così piano piano finisce per non decidere più nulla né del suo lavoro, né del suo tempo.
La prima osservazione che si può fare è che il fine, l’obiettivo, di questa cooperazione è deciso da altri e non dai soggetti che la realizzano.
La seconda è che la sintesi ed il comando sul lavoro cooperante è rigidamente nelle mani del capitale.
Dunque la cooperazione di cui stiamo parlando è tutt’altro che orizzontale, possiede i suoi nodi di comando e le sue gerarchie interne.
Alcune delle armi usate per piegare la cooperazione alla logica del profitto sono abbastanza note (competitività, esclusione ed inclusione dal reddito, riconoscimento di status ed acceso diversificato alle risorse ed ai prodotti), altre invece sono più sottili.
D’altronde non dimentichiamoci che non siamo più semplici ingranaggi meccanici, muscolari, della macchina produttiva, e quando si tratta di sfruttare oltre ai muscoli anche i cervelli, quando la produzione diventa bio estendendosi alla vita, il governo dei processi produttivi ed il comando su ogni aspetto della cooperazione sono tutt’altro che scontati.

LA COOPERAZIONE IN GUERRA

La fase di guerra che stiamo attraversando svela quanto sia alta la preoccupazione da parte di alcuni (Bush in testa) che la produzione possa sfuggirgli di mano, che gli stessi dispositivi di controllo non siano sufficienti per mantenere il comando.
D’altro canto, però, è impensabile il governo dei cervelli, dell’intelletto, della cooperazione, solamente attraverso l’uso della forza, piuttosto, converrebbe parlare di una soglia oltre la quale si passa dai meccanismi di controllo, apparentemente più soft, a quelli più brutali, repressivi, di guerra a bassa, media o alta intensità.
Dietro la guerra in Iraq si nasconde la guerra contro l’umanità intera e per il suo dominio.
Le bombe sulla popolazione irachena non sono che un monito per chiarire a tutt@ chi comanda, per rendere visibile cosa succede quando si oltrepassa la soglia del controllo, ma anche per determinare su scala planetaria le gerarchie di comando sulla cooperazione.
Non si tratta però, esclusivamente, di uno scontro tra lobby economiche, militari, politiche all’interno di ciò che ormai appare, al di là di qualunque confine nazionale, come un impero globale, privo di dentro e fuori, ma anche di una differente concezione sulla definizione di soglia minima oltre la quale alla violenza del mercato si sostituisce quella della guerra.
In questo contesto muta radicalmente l’interpretazione del termine guerra: da conflitto armato tra due o più stati a modalità di gestione del quotidiano, dei territori, della cooperazione, ovvero ad una sorta di guerra civile permanente nell’impero.
Bush e company, evidentemente, pensano sia possibile imbrigliare l’anima della cooperazione attraverso l’ombra della guerra, l’eterna guerra preventiva, mentre altri ritengono che tale processo comprima le capacità produttive della cooperazione.
Si può costringere qualcuno con la forza a svolgere un lavoro materiale, ma nessun carro armato è in grado di incentivare le capacità creative, comunicative, relazionali, affettive di un essere umano.
In altre parole, oggi, attraverso un sofisticato sistema di ricatti ed incentivi si offrono motivazioni per dare il massimo, per vendere l’anima, mentre la mera costrizione è per sua stessa natura acerrima nemica della compartecipazione.
In entrambe le concezioni viene a galla il nesso che lega le bombe che cadono sulle città irachene alla vita di merda che ci fanno fare.
La sfida è quella di liberare la potenza della cooperazione dal potere sulla cooperazione, la prima, portatrice di progresso, di sviluppo in armonia con gli esseri viventi e l’ambiente, di quell’altro mondo possibile di cui tanto si parla, il secondo, portatore di sventura, guerra, dominio, comando, distruzione del pianeta e dei suoi abitanti, utilizzato esclusivamente per impedire l’estinzione del più grande parassita che abbia mai infestato la terra: il capitalismo!
Una sfida che necessariamente dovrà fare i conti con le dualità che caratterizzano la cooperazione: autovalorizzazione o valorizzazione capitalistica, autonomia dei soggetti e libera cooperazione orizzontale o processi di verticalizzazione e comando, bio ed eco esigenze o profitto, attività umana o sfruttamento del lavoro, reddito o guerra e ricatti, intelligenza collettiva o sfruttamento capitalistico della scienza, ecc.

LA COOPERAZIONE POSSIBILE

Quando si parla di cooperazione molt@ riducono il discorso allo sviluppo di cooperative o dell’associazionismo in generale, ma in realtà le cose sono decisamente più complesse e interessanti!
Prima di tutto è necessario chiarire che la cooperazione non é una forma neutra di produzione o di organizzazione del lavoro. Cooperare significa letteralmente operare insieme, si, ma per comprenderne davvero il significato occorre chiedersi: in quale forma, quando e per fare cosa?
Cominciamo ad affermare che la cooperazione capitalistica necessita di verticalità e di un sistema di controllo e comando, mentre qualunque tentativo di costituire forme di “cooperazione altra” non può che partire dall’orizzontalità delle relazioni che la animano!
Nel processo di cooperazione dominato dal capitale ognuno di noi si trova da sol@ a dover sostenere la propria relazione con esso. Le condizioni con cui questo processo si determina ed anche la percezione che se ne ha varia da soggetto e soggetto, da singolarità a singolarità. Dunque, il soggetto collettivo della produzione, al contrario che in passato, è caratterizzato più dalla disomogeneità che dall’omogeneità. In sintesi si potrebbe affermare che il molteplice, la moltitudine, non è che l’insieme di queste variegate singolarità le cui vite sono messe al lavoro e che la precarietà, di reddito e di tempo, seppur vissuta in forme diverse, appare come elemento comune a questa molteplicità di soggetti produttivi.
La precarietà di reddito ed il suo utilizzo ricattatorio sono così evidenti che è inutile aggiungere altro, ma per capire cosa significa precarietà di tempo occorre invece domandarsi cosa si decide davvero nell’utilizzo del proprio tempo.
La cosa risulta facile se ci si limita a prendere in considerazione il tempo di lavoro formale, ma il restante tempo, quello del consumo, passato davanti alla TV, delle relazioni, degli affetti, delle nottate trascorse a pensare a che fare domani, siamo davvero sicuri che non sia produttivo, che non produca profitti?
Quanto tempo ci resta ogni giorno da dedicare a noi stessi ed agli altri e soprattutto quanto per cooperare in altro modo?
Quando inizia il tempo della nostra militanza, quando quello della socialità, del lavoro, del consumo, della produzione?
Così come il potere si estende alla vita divenendo biopotere anche la politica non può che riguardare la vita e se la soggettività politica oggi ha un senso, essa dovrà imparare a muoversi nella sfera biopolitica.

I MECCANISMI DI CONTROLLO E LE DUALITÀ DELLA COOPERAZIONE

Se fosse sufficiente costruire qualche cooperativa per liberare la potenza della cooperazione dal potere sulla cooperazione, sarebbe davvero troppo semplice trasformare il mondo!
Eppure da qualche parte bisognerà pur partire per costruire esperienze di “cooperazione altra” capaci di stimolare processi di liberazione della cooperazione tutta!
Ma quali sono i meccanismi con cui viene esercitato il controllo e ripristinato il comando? Quali le dualità con cui si dovrà fare i conti?
Non dimentichiamoci che imparare a conoscere i dispositivi di controllo spesso offre ottimi spunti per capire cosa è meglio fare per renderli inefficaci.

Le forme dell’agire

Poco importa se l’esperienza di cooperazione si occuperà di politica, di produzione di beni o servizi o di socialità, poiché ciò che occorrerà porre in relazione saranno le nostre vite, quindi, scegliere un metodo piuttosto che un altro riveste un’importanza fondamentale.
Guardare alle singolarità come semplici articolazioni pensanti di un progetto deciso altrove o concepire le relazioni con gli altri esclusivamente in funzione di se stessi, rappresentano la peggior deriva per qualunque processo di “cooperazione altra” ed un’ottima opportunità per chi vuole riprodurre gerarchie di comando e/o trionfo dell’individualismo e dell’egoismo. Avanguardie, partiti, centralismo democratico, sono strumenti assolutamente inadeguati per costruire esperienze di cooperazione libera, mentre la comunicazione orizzontale rappresenta il primo passo da compiere per mettere in relazione le diversità, le singolarità, che operano insieme. Da soli non siamo che atomi scomposti di una produzione dominata dal capitale, insieme rappresentiamo la potenza della cooperazione. Né solitudine, né subordinazione, si potrebbe dire, ma affinché le diversità divengano davvero ricchezza è necessario sviluppare uno scambio continuo tra l’apporto che le singolarità moltitudinarie offrono nell’operare insieme e l’arricchimento soggettivo che ne ricavano da questa relazione. La potenza di questo scambio sta proprio nel far cooperare le diversità, costruendo così un bene comune a disposizione di tutt@ e non nell’annullarle, nel ridurle all’unico, nell’appiattirle.
In questo senso la cooperazione è un processo dinamico che muta continuamente tanto le singolarità che la compongono quanto l’oggetto stesso del loro operare insieme. Un processo in cui ci si nutre uno dell’altro senza divorarsi mai, a differenza di ciò che avviene nella cooperazione dominata dal capitale.
Non è certo un caso se il primo dispositivo di controllo sulla cooperazione riguarda proprio l’orizzontalità come scelta metodologica.
Dal punto di vista legislativo si tende a ridurre qualunque esperienza di cooperazione a specifiche figure giuridiche (cooperative, associazioni, società, ecc.), in cui si ripropone una gerarchia di ruoli interni (Consigli Direttivi, Presidenti, Segretari, ecc.), una verticalizzazione delle relazioni che mina alla radice la scelta dell’orizzontalità.
Non si tratta di affrontare la questione semplicemente in termini formali o ideologici, ma sostanziali. Ovvero, meglio un’associazione in cui i ruoli sono solo formali, ma le relazioni, in sostanza, permangono libere e totalmente orizzontali, che un gruppo in cui si ripropongono feroci gerarchie interne!
A volte il processo di verticalizzazione intraprende altre e più tortuose strade che quelle giuridiche e veste i panni dell’impresa, dell’azienda.
La scelta dell’impresa come metodo di gestione di pezzi della cooperazione spesso viene proposta e motivata in nome di un efficientismo organizzativo.
Non pensate che tale modello di gestione riguardi semplicemente le attività produttive o certe cooperative, ma pervade anche una parte del mondo dei centri sociali e delle organizzazioni politiche. In realtà, attraverso la logica aziendale, non solo si riproducono infinite gerarchie interne, sviluppando più potere che potenza, ma si finisce per misurare l’efficacia dell’operare insieme esclusivamente in relazione a tempi e obiettivi posti da altri.
Possibile che proprio ora che si danno le condizioni per sviluppare cooperazione orizzontale, che il fordismo è definitivamente scomparso, la logica d’impresa susciti ancora tutto questo fascino?
Non sarebbe meglio, invece di prestarsi ai tentativi di verticalizzazione, utilizzare come metodo organizzativo quello della cooperazione orizzontale?

I progetti

Se la comunicazione tra diverse singolarità è il primo passo da compiere, definire l’oggetto del proprio operare insieme è decisamente il secondo. Chiaramente, vi è una differenza sostanziale tra operare insieme per un progetto deciso da altri o costruirlo partendo dalla relazione tra sé e gli altri, ma parlare di diversità cooperanti, non significa che non sia necessario ricercare uno scopo, un progetto comune. Non si può pensare di ridurre tutto al semplice culto della forma ed anche se si usasse la cooperazione orizzontale per produrre armi chimiche, ciò sarebbe comunque inaccettabile, incondivisibile.
Tantopiù il progetto sarà capace di veicolare la sua valenza biopolitica (il suo alto valore d’uso sociale), tanto più sarà possibile liberare la potenza della cooperazione, diffondere l’esperienza, come se si trattasse di una reazione a catena capace di contagiare altri pezzi di cooperazione.
Tantopiù il progetto sarà capace di veicolare altre modalità di intendere le relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente, di iniziare a costruire ora il famoso altro mondo possibile, tantopiù si potrà davvero parlare di cooperazione altra.
Privilegiare le bio ed eco esigenze invece che il profitto, ripensare a forme di produzione e consumo non inquinanti, tutelare l’ambiente in cui viviamo, riconsiderare le relazioni tra esseri umani e con gli altri esseri viventi, ridistribuire le risorse in forma egualitaria, sono le condizioni principe per parlare di cooperazione altra.
Più che propagandare improbabili ritorni al passato, occorrerebbe ragionare su un altro modo di intendere la scienza ed il progresso tecnologico.
C’è già la tecnologia per costruire macchine all’idrogeno, ma si preferisce avvelenare il pianeta ed i suoi abitanti usando il petrolio, esistono già fonti energetiche alternative, ma si preferisce costruire centrali nucleari o usare fonti inquinanti, ci sono già le condizioni per tutelare davvero la salute, ma si preferisce far guadagnare le case farmaceutiche, e si potrebbe andare avanti così all’infinito.
E se l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica fossero utilizzati per affrontare i bisogni dell’uomo in armonia con il pianeta invece che in funzione del profitto, cosa accadrebbe?
Che potenzialità potrebbe mai avere un intelligenza collettiva frutto della cooperazione orizzontale altra? Quale salto in avanti, o meglio in “altra” direzione, potrebbe mai fare il genere umano?

IL MERCATO COME CONTROLLORE

Che si tratti di un impresa, una cooperativa, un lavoratore autonomo o quant’altro, è assurdo pensare di non dover fare i conti con un mercato globale, di merci materiali e immateriali, di beni e di servizi, improntato esclusivamente al profitto, alla competitività, al comando e che se ne infischia delle bio ed eco esigenze. Perciò meglio chiarire subito che anche i progetti frutto di cooperazione altra non possono certo sfuggire alle forche caudine del mercato.
Chiunque intenda realizzare un progetto sa bene che per farlo è indispensabile coprirne i costi e che questi quantomeno dovranno tenere conto sia della retribuzione e delle condizioni di chi lo realizzerà, sia del tempo necessario ad ogni singolarità per cooperare con gli altri. Per affrontare il problema si possono scegliere diverse strade, schematicamente raggruppabili in tre: autofinanziamento e volontariato; competitività e autoreddito; accesso ai finanziamenti e vertenzialità.

Autofinanziamento e volontariato
Sul volontariato si potrebbe dire sicuramente molto, soprattutto sul ruolo che questo ha assunto nel trasferimento di funzioni e servizi prima amministrati da strutture pubbliche ed ora gestiti in forma privatistica da associazioni o cooperative sociali. Un trasferimento che è stato realizzato non certo con l’intento di costituire una sfera pubblica non statuale, ma al solo scopo di ridurre i costi dei servizi a totale discapito sia dei fruitori sia di chi vi lavora. Capita spesso, in queste strutture, di scoprire di essere volontario solo quando si chiede di venire retribuiti per il lavoro prestato. D’altronde il cosiddetto terzo settore, è ricco di squallidi personaggi che con la scusa dell’associazionismo, del socio lavoratore, del volontariato, hanno saputo mostrare solo il peggio del capitalismo. Altro che cooperazione orizzontale, lì vive solo lo sfruttamento bestiale, la gerarchia, la subordinazione. Molti sono gli stessi che come avvoltoi dopo le guerre si scannano per spartirsi il business della ricostruzione e degli aiuti umanitari. Questi personaggi non sono altro che la rappresentazione del capitalismo compassionevole, tanto caro a Mr. Bush.
Il dramma è che anche coloro che sono armati di buone intenzioni, e ne esistono sicuramente, rischiano di soccombere, schiacciati dalle regole del mercato.
Dunque, è lecito domandarsi: coprire i costi di un progetto attraverso l’autofinanziamento e prestando la propria opera gratuitamente, è davvero una scelta priva di compromessi e non sottoposta a ricatti?
A mio avviso, l’autofinanziamento invece di porre il problema della riappropriazione della ricchezza prodotta dalla cooperazione tutta, si limita ad affrontare la questione della copertura dei costi attraverso una più ampia richiesta di partecipazione, invitando le singolarità a destinare una parte del proprio reddito per realizzare il progetto.
Ma se il progetto costa molto e le singolarità coinvolte hanno un reddito troppo basso, che si fa? Si rinuncia al progetto o eventualmente si chiede a tutt@ di vivere in povertà?
Certo, se parliamo di cooperazione orizzontale di carattere prevalentemente politico, probabilmente l’autofinanziamento e la gratuità della propria partecipazione mantengono una loro validità, ma se i progetti da realizzare riguardano la produzione di beni e servizi i dubbi sono davvero notevoli.
Inoltre, per cooperare e realizzare un progetto occorre tempo. Finché la nostra collaborazione è gestibile oltre il lavoro formale il problema si pone relativamente, ma quando non è così, come facciamo a procurarci il reddito necessario per vivere?
Ecco che ciò che pensavamo di aver gettato dalla finestra ricompare dalla porta ed il costo del progetto viene semplicemente scaricato sulle singolarità cooperanti, costrette a subire il ricatto sul reddito in totale solitudine.
Oggi, fare il volontario a tempo pieno, appare un’esperienza limitata a poche persone che dispongono di molto tempo e di un minimo di reddito, oppure a chi è ricco, gli altri, le altre, proprio non possono permetterselo!
Come possiamo pensare che progetti incapaci di fornire risposte collettive alla questione del reddito possano risultare interessanti per la moltitudine o diffondersi?

Competitività e autoreddito
Qualunque progetto di produzione di beni o servizi viene immediatamente posto in competizione con mille altri. Una competizione feroce, che non concede sconti a nessuno, dove la qualità di ciò che si propone spesso è secondaria rispetto al basso costo di realizzazione.
Nel mercato, l’alto valore d’uso sociale di un progetto frutto di cooperazione orizzontale assume tutt’altro valore. Lo sanno bene quelle compagne e quei compagni, armati di buone intenzioni, che hanno provato a costruire cooperative e si sono ritrovati stritolati nei meccanismi giuridici, di mercato, organizzativi, ecc.
Non basta affermare che un’esperienza di cooperazione orizzontale dovrebbe ripartire in maniera equa ciò che si realizza insieme per risolvere il problema dei costi e del reddito garantito da sé (autoreddito), poiché la competitività che caratterizza il mercato rischia di far naufragare il progetto stesso o mutarlo a tal punto da dequalificarlo completamente sotto l’aspetto dell’alterità, del metodo, della realizzazione, della riproducibilità.
Banalmente si potrebbe dire, che un’equa distribuzione della ricchezza è cosa assai diversa da un’equa distribuzione della povertà.
Un bellissimo progetto in cui le persone lavorano 11 ore al giorno, senza alcuna tutela per la salute e la sicurezza e con una retribuzione oraria di 2 Euro, perde ogni fascino ed ogni alterità ed acquista il sapore del più bieco sfruttamento o dell’autosfruttamento. E poi, come quantificare il reddito spettante alle varie singolarità cooperanti? Remunerare il tempo prestato oppure la semplice partecipazione, considerare solo la fase di realizzazione del progetto o anche l’ideazione, ecc.
Questi rimangono problemi aperti, da affrontare volta per volta, però è meglio essere consapevoli che il meccanismo di contenimento dei costi imposto dal mercato insieme al ricatto sul reddito, rischiano di mietere le prime vittime proprio tra le singolarità cooperanti.

Accesso ai finanziamenti e vertenzialità

Se la richiesta di fondi pubblici (CEE, Regionali, Statali, o quant’altro) per coprire i costi di un progetto fosse sottoposta esclusivamente ad un controllo sul loro effettivo utilizzo, questo potrebbe apparire come un terreno neutro.
In realtà, basta vedere come vengono spartiti i denari pubblici tra grosse lobby legate a vecchie e nuove parrocchie politiche per capire quale fauna popola tale ambiente e soprattutto quali interessi si celano dietro a ciò che alcuni si ostinano a chiamare No Profit. La Compagnia delle Opere piuttosto che la Lega delle Cooperative rappresentano delle vere e proprie potenze in questo settore.
Costruire vertenze per accedere a finanziamenti pubblici è un bel modo anche per svelare l’esistenza di questi monopoli occulti del denaro pubblico.
A mio avviso, però, per parlare davvero di vertenza dovrebbero sussistere almeno questi tre elementi: condivisone “sociale” del progetto e del suo valore d’uso, individuazione delle controparti pubbliche e/o private, capacità di non ridurre il conflitto ad una trattativa privata.
Il primo passo nella costruzione di un percorso vertenziale, non può che riguardare il tentativo di sviluppare il progetto nella maniera più ampia possibile, cercando di suscitare interesse, condivisione, partecipazione, coinvolgimento del territorio (reale o virtuale).
Il processo di cooperazione altra da questo primo passo non può che trarne potenza, espandendosi.
Successivamente, si pone il problema della riappropriazione delle risorse necessarie per finanziare il progetto, ed é proprio qui che si apre il conflitto con i dispositivi di controllo e comando.
Chi decide cosa produrre e consumare? Qual è il reale valore d’uso di un progetto?
Questa è sicuramente la tappa più difficile, perché le proveranno tutte per ripristinare comando. Cercheranno di vincolare il progetto chiedendoci di snaturarlo, di snaturare noi stessi e il processo di cooperazione in atto, il metodo, la forma, il contenuto.
Cercheranno di farci rinchiudere in esperienze di nicchia o elitarie, incapaci di diffondersi, di riprodursi e costantemente sottoposte al rischio di deflagrare all’interno, di implodere.
Cercheranno di ridurre la vertenza ad una trattativa tra le articolazioni del comando e la soggettività politica, invece che con la cooperazione sociale nel suo complesso.
Li abbiamo già visti all’opera, anche nella trattativa sulla sede del Leoncavallo, con Albertini che chiedeva al Centro Sociale di snaturare la propria esperienza, di firmare una dichiarazione dietro l’altra… ci mancava solo la proposta di divenire tutti giovani Boy Scout, poi…
E se i dispositivi di controllo dovessero rivelarsi inefficaci, ci minacceranno, cercheranno di isolarci, criminalizzarci, spezzare i fili della comunicazione orizzontale, poiché, anche nella biopolitica, le sorti delle vertenze continueranno a dipendere dai rapporti di forza.

NOTE CONCLUSIVE

Qualunque strada si sceglierà di intraprendere per realizzare progetti cooperanti il ricatto sul reddito e di conseguenza i problemi relativi al tempo per fare altro, saranno nostri compagni di viaggio.
Si é detto che le esperienze di cooperazione orizzontale dovrebbero porsi costantemente il problema di come coinvolgere la cooperazione tutta, mutandola, ma tale processo per realizzarsi necessita di particolari condizioni. Restituire autonomia decisionale ai soggetti, spezzare il ricatto sul reddito, liberare tempo sono solo alcuni degli obiettivi in cui RdC e cooperazione sociale camminano affianco.
Alcuni ritengono che il RdC rappresenti una proposta economicista, ma evidentemente non colgono la stretta connessione che lega il tempo al reddito.
Come si fa a costruire un altro mondo se siamo costretti ad usare il nostro tempo per procurarci i soldi necessari per vivere, sottostando ai mille ricatti sul reddito?
Quegli stessi ricatti che ti fanno competere al ribasso, che ti costringono ad accettare lavori a condizioni e retribuzioni sempre peggiori, a lavorare fino a tardi anche se formalmente non hai un padrone, ad essere sempre disponibile a qualunque proposta, a costruire macchine che poi ti avveleneranno i polmoni o armi che uccideranno altri esseri viventi, ecc.. Altro che etica del lavoro, piuttosto dovremmo chiederci qual è il reale valore d’uso sociale di questi ed altri lavori.
Invece, attraverso il RdC è possibile riappropriarsi del tempo, per fare altro, restituire ai soggetti un’autonomia decisionale, oggi, prigioniera dei ricatti, ovvero si rende possibile il passaggio dal rivendicare migliori condizioni di sfruttamento al rifiuto dello sfruttamento e si pongono le condizioni per liberare la cooperazione sociale dal controllo e dal comando del capitale.
Ma se la rivendicazione di un RdC pone le condizioni per liberare la potenza della cooperazione, lo sviluppo di esperienze di cooperazione altra sono fondamentali affinché il RdC non venga declassato da potenziale strumento di liberazione a semplice ammortizzatore sociale.
Di conseguenza è indispensabile cominciare a ragionare, anche in maniera critica, sulle esperienze già realizzate o che si intendono realizzare, poiché la strada che si sta percorrendo più che di certezze è ricca di domande, di situazioni sempre diverse, nuove, tutte da indagare, da inventare.
La speranza è che questa riflessione, possa in qualche modo stimolare un dibattito tutt’altro che chiuso, nella consapevolezza che il compito di fornire risposte esaurienti continua a rimanere nelle mani delle esperienze reali, esistenti o da realizzare.

Paolo Punx

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Titolo Autore Data
Bella Lupo Tuesday, Feb. 01, 2005 at 9:09 PM
BRAVO! de-koop Tuesday, Jun. 22, 2004 at 2:10 PM
scuse. zio ho Tuesday, Jun. 22, 2004 at 2:06 PM
oh zio sei fuori tema.. paolopunx Tuesday, Jun. 22, 2004 at 1:53 PM
icr, tavola della pace, croce azzurra... zio ho Tuesday, Jun. 22, 2004 at 1:36 PM
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