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IRAQ 20/3/04: il racconto di una delle donne rapite
by Simona Pari Tuesday, Sep. 07, 2004 at 5:54 PM mail:  

Da Carta n.11 del 20 marzo 2004 il racconto di una delle due pacifiste rapite oggi a Baghdad

Le pagine bianche dei libri scolastici
di Simona Pari*

Le cinque regole dell’Islam sono il digiuno, la carità, la jihad…». Lezione numero uno: come applicare le leggi dell’Islam nel quotidiano. «La vita al di fuori della religione è un fallimento». Le studentesse ascoltano attente, in un silenzio teso. La stanza è vuota, in penombra. Venti donne tra i 15 e i 50 anni, infagottate negli abiti neri e con il velo, stanno sedute sulle sedie di plastica bianca da giardino. L’insegnante, una delle mogli degli sceicchi più influenti della moschea, legge i testi di al-Sadr. In un angolo c’è uno degli sceicchi. Volta le spalle al resto della classe. Fissa il muro. Improvvisamente si alza e abbandona la stanza. L’insegnante si rilassa. «Scusate, mi sono confusa, ma ero emozionata, lo sceicco era qui per verificare se posso continuare a insegnare». Le alunne ridacchiano.

Al-Mansur, quartiere benestante di Baghdad. Moschea Al Raqman. Quella che Saddam stava costruendo, prima della guerra. Sarebbe stata la moschea più grande del Medio oriente. È rimasta incompleta. Ora è uno scheletro di cemento, coperto da una cupola monumentale. Da maggio, l’edificio che ospitava gli operai del cantiere è diventato una moschea sciita, intitolata al marja Mohammed Baquer al-Sadr, massimo studioso di legge e di religione, fondatore nel 1959 del partito Dawa e ucciso nel 1980 dal regime di Saddam. Le sue immagini, sguardo ieratico rivolto all’infinito, barba lunga e bianca, sono ovunque. Qui, oltre alla moschea, si trovano la scuola religiosa maschile e il centro di comunicazione, dove c’è anche un canale televisivo.

Di solito questa moschea è piena di uomini. Ma la settimana scorsa c’è stata una piccola rivoluzione. È stata aperta la prima Hawza per donne di Baghdad. Questa scuola di studi islamici è affiliata alla Hawza di Najaf, l’accademia religiosa più autorevole, per gli sciiti, fondata almeno 1300 anni fa.
Dalla fine della guerra, almeno una decina di moschee sciite hanno aperto corsi di religione per donne. Insegnano i principi dell’Islam. Come affrontare la quotidianità. Come gestire i rapporti matrimoniali. Ma qui gli studi sono molto più rigorosi. «Il corso dura quattro anni, la frequenza è di cinque pomeriggi alla settimana – spiega Adel Al Saadi, il membro più influente della moschea: turbante, tunica, Corano appoggiato sulla scrivania vuota – Il nostro scopo è istruire le donne per rafforzare il loro ruolo nella società. Le lezioni prevedono teologia, logica, legge, morale, ovvero come gestire i rapporti tra uomini e donne. La scuola è gratuita e, vista la poca sicurezza, la nostra moschea offre anche il trasporto. Alla fine del corso, le studentesse possono decidere di approfondire gli studi a Najaf. Per il futuro prevediamo di aprire anche corsi di computer e una scuola religiosa per bambini».

Le domande di iscrizione, assicurano alla moschea, sono decine. La selezione delle prime venti studentesse è avvenuta in base «allo status religioso delle famiglie». Loro, le studentesse, sono fierissime della nuova carriera accademica. Spiega Beja Al Zubeidi, 50 anni, che fino a poco tempo fa lavorava alla stazione ferroviaria: «È la prima volta dopo decenni che possiamo partecipare liberamente ad attività religiose, capire l’Islam e le sue regole. Esprimere i nostri sentimenti». Alia Hussein, la seconda insegnante del pomeriggio, indossa il burqa nero, ha i guanti, si scopre il volto solo quando gli uomini escono dalla stanza. Fa lezione con la figlia Um Al Mueminin [«Madre dei credenti»] sulle ginocchia: «Vogliamo informare tutto il mondo sul vero Islam, non quello che viene raccontato in modo falsato in occidente», dice.

Le bambine abbandonano

La lezione viene interrotta da Ali, il figlio di dieci anni, che apre la porta e annuncia: «Sta arrivando il papà». Arriva il marito, uno sceicco, che prende il suo posto, mentre Alia corre a casa a fare i preparativi per le husseynia, i festeggiamenti per il mese sacro del Muharram. «Non so se mia moglie potrà continuare a insegnare, ha molto da fare a casa. Quello che volevo dirvi oggi è che credere non significa solo pregare, ma vedere il bene in tutto. Il rapporto con i miei figli e con mia moglie ha Dio come fine ultimo». Hurud Saleh, 16 anni, ascolta attenta. «Ho finito le elementari – racconta – poi i miei genitori mi hanno ritirata dalla scuola. Mio zio studia alla hawza per uomini e mi ha raccomandata alla moschea».
Hurud è una delle migliaia di bambine che in Iraq lasciano la scuola ad appena 12 anni. O anche prima. Il ministero dell’educazione ha recentemente dichiarato che si tratterebbe del 50 per cento delle bambine in età scolare. L’Unicef parla di più del 30 per cento. Il fenomeno è molto diffuso soprattutto nelle aree rurali. Se a Baghdad i genitori preferiscono tenere i bambini a casa per motivi di sicurezza, specialmente per paura dei rapimenti, nelle zone del sud e fuori dalle città le bambine restano a casa in attesa di sposarsi. I matrimoni precoci sono ancora molto diffusi. Ci si sposa a 14, 15 anni. I maschi, invece, lasciano la scuola per andare a lavorare. Trascinano carretti al mercato, vendono bombole di gas, sigarette, arachidi. Con loro, un esercito di bambini e bambine che fanno l’elemosina e dormono per strada. Esposti agli abusi più gravi, tra cui quelli sessuali, sono i figli di un paese nel caos.

L’abbandono scolastico è una conseguenza del pessimo stato dell’educazione in Iraq. 13 anni di embargo e più di venti di guerre e conflitti hanno seriamente danneggiato il sistema educativo pubblico. Mentre negli anni ottanta la quasi totalità della popolazione sapeva leggere e scrivere, oggi il 55 per cento delle donne [che costituiscono almeno la metà della popolazione] tra i 15 e i 49 anni è analfabeta. Se nel 1989 l’Iraq spendeva ogni anno circa 620 dollari per ogni studente, tra il 1993 al 2002 la spesa è crollata a 47 dollari. E qualche giorno fa, il Ministero dell’educazione ha pubblicato sui giornali locali una stima dei costi degli interventi educativi da qui al 2007: occorrono più di 4 miliardi di dollari.

Entrare oggi in una scuola di Baghdad è come attraversare la storia recente delle ingiustizie che hanno ferito l’Iraq. Da una parte i murales con i carrarmati e la propaganda di regime, dall’altra i segni incancellabili dell’embargo. Prendi la scuola elementare Obta Bin Ghazwan a Fdhalia, un sobborgo povero di Baghdad, dove la gente vive di piccola pastorizia e di qualche industria. Mancano i vetri alle finestre, l’edificio è fatiscente, ci sono mucchi di immondizia ovunque, gli studenti sono più di mille. «Negli ultimi mesi, almeno 43 bambini hanno lasciato la scuola per andare a lavorare – racconta sconsolato il direttore, Foad Email Ashour – abbiamo cercato di coinvolgere i genitori e tutta la comunità perché i bambini tornino a frequentare le lezioni. Ma la gente non investe sull’educazione».

I libri di testo «epurati»

Tuttora i bambini fanno lezione stipati in classi di 50-60 alunni. Molte scuole, in mancanza di aule, fanno il doppio turno, il pomeriggio. I materiali sono pochissimi: ogni bambino ha sul banco un quaderno e una penna. Oggi, circa due terzi delle 16 mila scuole irachene hanno bisogno di una qualche forma di ristrutturazione. Almeno tremila sono state danneggiate dai saccheggi seguiti alla guerra. Altre, durante il conflitto, sono state utilizzate come depositi di munizioni. Almeno la metà non hanno un sistema fognario, altrettante non hanno acqua potabile. Gli insegnanti sono demotivati: per anni il loro stipendio si aggirava sui 2 dollari al mese. A Fdhalia ne prendevano 5, di dollari, perché era prevista una indennità da «zona disagiata, off limits». Questi salari hanno spinto la maggior parte di loro ad abbandonare l’insegnamento. Per anni poi i maestri non hanno avuto la possibilità di aggiornarsi su didattica e metodologie. La conseguenza, spiegano quasi tutti gli insegnanti, è che i livelli di apprendimento sono precipitati.

La promessa ricostruzione americana è in ritardo. Bechtel, la ditta appaltatrice che dovrebbe occuparsi della ristrutturazione delle scuole, ha limitato i suoi interventi alla tinteggiatura delle pareti. Il risultato è che ci sono scuole con squarci nel tetto dove si fa lezione sotto la pioggia, e scuole allagate dalle fogne, dove però i muri profumano di vernice fresca. Gli americani, poi, hanno distribuito a pioggia un contributo una tantum ad ogni scuola elementare. 750 dollari. Troppo pochi, per tentare anche solo di tamponare la situazione disastrosa in cui versano la maggior parte delle scuole. Con con quei soldi i direttori hanno comprato tappeti, tende e condizionatori per il loro ufficio. La sostenibilità non sembra proprio una priorità per la Us Agency for International Development [Usaid].

«Contractor» americani, come Creative Associates International, stanno anche lavorando con il ministero dell’educazione per rivedere i programmi scolastici, e stanno tenendo dei corsi di aggiornamento per gli oltre 33 mila insegnanti delle scuole superiori. Molti insegnanti si lamentano del processo «dall’alto» su cui sono basati i corsi. Rivisti, per quest’anno scolastico, anche i libri di testo. In realtà, sono solo state eliminate le foto di Saddam e rimossi i riferimenti agli ultimi 35 anni di storia del paese. Al loro posto, nei testi freschi di stampa, ci sono pagine bianche. Come confermano i direttori, la distribuzione dei nuovi libri ha raggiunto solo la metà dei bambini delle scuole elementari. Nasrin, 8 anni, il velo sulla testa, mostra il suo libro di testo. Non è quello nuovo. Così la maestra le ha fatto cancellare con la matita le parti che si riferiscono a Saddam. Ovviamente, sono quelle che spiccano di più, come fossero sottolineate.

Le scuole in Iraq sono microcosmi in cui l’instabilità politica e sociale e la mancanza di sicurezza si ripercuotono con conseguenze gravissime. In una scuola elementare alla periferia di Baghdad i bambini hanno sul viso i segni delle infezioni causate dalla mancanza di vitamine. Alcuni di loro indossano t-shirt nere con l’immagine dell’ayatollah Ali al-Sistani. Alle pareti delle aule, ingrigite dal tempo e dalla dimenticanza, le immagini dei leader politici e religiosi sciiti. La scuola è allagata: l’odore è quello della muffa e delle fogne.

Gli insegnanti fuggono

La direttrice non ce la fa più. «Finisco questo anno scolastico e me ne vado – racconta rassegnata – la situazione è troppo grave. Nell’ultimo mese hanno ritirato cento bambini, senza chiederci il certificato di trasferimento. Presumibilmente, in questo momento non vanno a scuola. Una intera tribù si è trasferita, perché le lotte stavano diventando troppo gravi. Hanno litigato per un sacco di farina. Qui sparano in continuazione. Hanno ucciso uomini, ferito donne. Questa mattina hanno ammazzato il marito di una delle insegnanti». La mancanza di leggi, l’ambiguità nella gestione del paese, i vuoti di potere del dopoguerra stanno alimentando il conflitto. A farne le spese, i bambini.

L’educazione è uno dei diritti fondamentali dei minori, così come previsto dalla Convenzione Onu dei diritti del fanciullo del 1989 [solo Somalia e Stati Uniti non l’hanno ratificata]. Eppure, in Iraq sembra un lusso. Fatima, una mamma di Sadr City, racconta: «Ho otto figli, sei bambine e due maschi. Mio marito si è risposato. Abitiamo tutti nella stessa casa, ma lui condivide la stanza con la seconda moglie. Non si occupa di noi. E i soldi non bastano mai. I miei due figli maggiori, di 12 e 14 anni, hanno smesso di andare a scuola. Ora lavorano per mantenerci». A Fatima non puoi chiedere perché. Scuote il capo, lo sguardo fermo, dice: «Questa è la vita».

* Un Ponte Per…

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e allora? pippo Wednesday, Sep. 15, 2004 at 6:33 PM
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