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Il silenzio dei media Usa sulla vicenda del sequestro dei server
by quellochenonho Friday, Oct. 22, 2004 at 5:18 PM mail:  

L’Fbi lavora per chiudere i siti web del giornalismo indipendente che sono critici nei confronti della politica Usa. Non è una storia che vale la pena di raccontare? Le organizzazioni di giornalisti fuori dagli Stati Uniti sono pronte a dare battaglia, ma qui (in Usa, ndr) è arrivata appena un’eco smorzata della vicenda.

L’Agence France-Presse ha pensato che fosse una notizia. Lo stesso dicasi per il quotidiano inglese The Guardian e per la Bbc che ha riportato che il 7 ottobre l’Fbi in collaborazione con le autorità inglesi ha ”chiuso venti siti che facevano parte di un network di media indipendenti conosciuto come Indymedia”. Eppure questo allarmante ma significativo evento ha provocato il quasi totale silenzio dei media statunitensi.

Le organizzazioni di giornalisti, tuttavia, hanno seguito con molta preoccupazione il sequestro dei server di Rackspace, la società degli Stati Uniti presso la cui sede inglese risiedono i server che ospitano molti siti locali di Indymedia, compresi alcuni negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia, Italia, Belgio, Yugoslavia, Portogallo, Brasile e Uruguay.
“Siamo stati testimoni di un’intollerabile e intrusiva operazione di polizia internazionale contro un network specializzato in giornalismo indipendente. Le modalità con cui tutto questo è stato fatto lasciano pensare più ad una intimidazione nei confronti di legittime inchieste giornalistiche che ad una retata anticrimine”. Questo il commento di Aidan White, segretario generale della Federazione Internazionale dei Giornalisti (http://www.ifj.org/). [questo è il link all’articolo apparso sul sito dell’IFJ: http://www.ifj.org/default.asp?Index=2734&Language=EN, ndr].
Un’altra organizzazione internazionale di giornalisti, Reporters without Borders (http://www.rsf.org/), ha condannato il sequestro chiedendo spiegazioni alle autorità statunitensi, del Regno Unito, svizzere e italiane. Reporters without Borders sostiene che il sequestro è avvenuto in seguito ad una richiesta del dipartimento di giustizia degli Usa “che, a quanto pare, ha agito sotto richiesta delle autorità italiane e svizzere”.
Anche l’Unione nazionale dei giornalisti del Regno Unito ha condannato l’operazione, così come ha fatto Kurt Opsahl, legale della Electronic Frontier Foundation (http://www.eff.org/) [un’associazione nonprofit americana per la difesa dei diritti degli utenti del web]. Opsahl ha detto: “Eff è profondamente preoccupata per le gravi implicazioni del sequestro sulla libertà di parola e la privacy e sta tentando tutte le strade possibili per richiamare il governo (Usa) alle sue responsabilità per questa incostituzionale censura dei media indipendenti”.

Nonostante lo sdegno dei giornalisti, non risulta, stando alle mie ricerche online, che questo assalto governativo ai media, riportato dalla stessa Indymedia il 7 ottobre e poi dalla stampa straniera così come da numerosi weblog nei giorni successivi, abbia avuto eco sui mezzi d’informazione statunitensi. Una eccezione è rappresentata dal poco visitato sito dell’Upi, che l’11 ottobre ha riportato la notizia dal The Guardian. Il New York Times e il Washington Post, che io leggo regolarmente, non hanno speso una parola sulla vicenda.
Secondo l’articolo di The Guardian dell’11 ottobre, il sequestro dei server “ha fatto cadere le trasmissioni di diverse Internet radio”, una delle quali avrebbe dovuto essere usata per la copertura del Social Forum di Londra. Indymedia ha fatto sapere che all’inizio di questa settimana [l’articolo è stato scritto il 14, ndr] alcuni dei suoi siti web erano ancora chiusi e che altri – tra cui uno nel Massachussets occidentale – avevano subito perdite di dati.

Sono tanti gli aspetti di questa vicenda su cui i media statunitensi potrebbero concentrarsi.
I resoconti della stampa europea sostengono che ad oggi non sono ancora note le cause del sequestro e chi esattamente l’ha ordinato e perché.
Rackspace, forse per ordine di un magistrato, non ha voluto rivelare a Indymedia e alla stampa cosa sapeva circa l’ordine di sequestro, sostenendo di aver ottemperato ad un dovere legale. The Guardian ha riportato solo che l’Fbi “ha agito in ottemperanza al Trattato di Mutua Assistenza Legale, che stabilisce le procedure di assistenza reciproca tra gli stati nelle indagini su terrorismo internazionale, rapimenti e riciclaggio di denaro”. Un funzionario dell’ambasciata Usa a Londra ha negato il coinvolgimento dell’Fbi nel sequestro, ma il portavoce del Federal Bureau of Investigation Joe Parris ha confermato all’Agence France-Press l’intervento del braccio investigativo del Dipartimento di giustizia americano che avrebbe agito “per conto di un paese terzo”. Indymedia ha la sua teoria al riguardo: gli ispiratori di questa azione potrebbero essere un procuratore svizzero che ha aperto un’inchiesta nei confronti di Indymedia per la copertura del summit del G8 ad Evian, oppure un pubblico ministero italiano che indaga sul network indipendente perché sospettato di “supportare il terrorismo”.
Presumibilmente, se i cronisti statunitensi seguissero questa vicenda potrebbero determinare esattamente chi ha ordinato questo sequestro e perché stati che apparentemente garantiscono la libertà di stampa come gli Stati Uniti e il Regno Unito sono coinvolti in questo episodio nefasto.
Non è la prima volta che Indymedia si scontra con l’Fbi. Precedentemente, secondo le cronache giornalistiche, agenti dell’Fbi hanno fatto visita ai volontari di Indymedia negli Stati Uniti per chiedere lumi sulla pubblicazione su un sito francese del network indipendente di immagini di poliziotti svizzeri a volto scoperto che fotografano manifestanti. Indymedia ritiene che questo primo intervento potrebbe essere collegato con il sequestro dei server.
Indymedia è stata formata nel 1999 per dare una copertura giornalistica dalla parte del movimento alle proteste contro il vertice del Wto di Seattle. Da allora è cresciuta, diventando un network globale con oltre 140 siti locali. Si descrive come un “collettivo di media indipendenti e centinaia di giornalisti che offrono una narrazione dal basso e non legata alle grandi corporation dei media”.
Reporters without Borders descrive Indy come “una rete internazionale di media che opera senza un controllo editoriale centrale e che consente a tutti di inserire liberamente i propri messaggi”.
Chi scrive su Indy racconta con partecipazione le proteste contro la guerra e contro la globalizzazione e parla di diritti umani, ambiente, lavoro e minoranze, fornendo copertura ad eventi internazionali e nazionali dei vari paesi nei quali opera.

Nei giorni scorsi i principali media Usa hanno dato correttamente precedenza alla recente azione di un giudice federale che ha condannato al carcere la reporter del New York Times Judith Miller per il suo rifiuto di rivelare la fonte dalla quale ha saputo il nome di un agente della Cia.
Ma, per quanto sia serio il caso della Miller, non è ancor più pericoloso per la libertà di stampa se un’autorità poliziesca – che sia statunitense o internazionale – mette a tacere fonti giornalistiche critiche nei confronti del governo degli Usa e dei governi occidentali, intimorendo in tal modo tutte le voci indipendenti?

Sarebbero stati così silenti i più grandi mass-media statunitensi se gli agenti federali avessero sequestrato i server internet del New York Times, del Wall Street Journal o del Los Angeles Times piuttosto che quelli di un mezzo di comunicazione radicale e non mainstream?
Dovrebbe essere naturale per i mass-media statunitensi avere almeno un minimo interesse per la libertà di stampa. O in quest’epoca di terrore non fa notizia l’interruzione del libero flusso dell’informazione e l’intimidazione delle voci giornalistiche alternative da parte delle autorità governative – nostre o dei nostri alleati? La chiusura di Indymedia è certamente qualcosa di inaccettabile e contiene più di una traccia di totalitarismo, ma forse è anche più deleterio il silenzio dei maggiori mezzi d’informazione statunitensi.



L’autore dell’articolo, John Hanrahan, è scrittore e giornalista di Washington D.C. ed è stato direttore del Fund for Investigative Journalism e reporter del Washington Post, del Washington Star, dell’Upi e di altre organizzazioni.


L’articolo è stato pubblicato il 14 ottobre sul sito del Nieman Watchdog Project, creato dalla Nieman Foundation for Journalism at Harvard University con lo scopo di monitorare le attività del governo e delle autorità statunitensi e suggerire spunti e questioni alla stampa.


L’articolo in inglese è all’indirizzo http://niemanwatchdog.org/index.cfm?fuseaction=background.view&backgroundid=0033

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