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Sul genocidio del popolo iracheno
by Globus Tuesday, Dec. 07, 2004 at 1:54 AM mail:  

Testimonianza di un militare americano sui crimini di guerra perpetuati in Iraq dall’esercito degli stati uniti d’america.


Qualche tempo fa, avevo postato su questo sito una traduzione imprecisa di un’intervista di Jimmy Massey, l’ho trovata completa e precisa su peacereporter.net del militare americano Jimmy Massey che ha disertato della Marina militare americana qualche mese fa egli cerca si ottenere lo statuto di rifugiato politico quanto obiettore di coscienza, in Canada perché rischia anche la pena di morta negli U.S.A. dove è accusato d’alto tradimento per avere rifiutato di continuare ad uccidere civili innocenti e avere osato riferire alla stampa ( che lo ha quasi del tutto ignorato) il modo in cui l’esercito U.S.A. sta attuando il genocidio del popolo iracheno. L’ho incluso completata cui sotto, prima ecco un altro articolo uscito sul “Corriere” e tratto da un giornale italo-canadese il tandemnews (sul sito di questo ultimo l’articolo è stato rimosso) e pubblicato in Italia dal corriere. (non della serra, ovvio).

1) articolo su Jimmy Massey del o5/11/04 pubblicato sul tandemnews
Il racconto del soldato pentito: «Civili uccisi senza un perché»
«Gli Stati Uniti stanno compiendo un genocidio, e lo stanno facendo volontariamente. 100.000 morti? Nessuno saprà mai il numero esatto»
«È stato un massacro. Il mio battaglione era stato dispiegato in una zona periferica di Baghdad. Qui avevamo allestito un posto di blocco. Gli ordini erano precisi: sparare alle macchine che non si fossero fermate al nostro segnale di alt. Nel giro di quarantotto ore abbiamo ucciso trenta civili. Dentro le loro automobili non abbiamo trovato nessuna arma. Abbiamo finito il lavoro gettando i loro corpi in una fossa, come ci era stato ordinato dai nostri superiori». Jimmy Massey parla con distacco dell'inferno che ha visto e vissuto in prima persona in Iraq. Le sue parole sono misurate, il tono della sua voce è calmo e piatto, il suo sguardo molto spesso si abbassa a guardare le sue mani, mani che hanno sparato e ucciso altri esseri umani. Quando venne richiamato negli Stati Uniti, nel dicembre del 2003, il sergente Massey del corpo dei Marines venne colpito da una forte crisi depressiva. «Non ci sono medicine per poter curare le ferite dell'anima:sono sfregi interiori che rimarranno per sempre».
Jimmy Massey, 33 anni, dodici dei quali spesi nell'Esercito, è giunto a Toronto in occasione dell'inizio delle udienze presso l'Immigration and Refugee Board di Jeremy Hinzman, il soldato americano che, dopo essersi rifiutato di partire per l'Iraq, è fuggito dagli Stati Uniti e sta cercando ora di ottenere asilo politico in Canada. Massey porterà le sue esperienze vissute in Iraq di fronte alla commissione, per ribadire che «la guerra fatta dagli Stati Uniti è illegale e rifiutare di parteciparvi è un diritto».
«Ho fatto parte del corpo dei Marines per dodici anni -racconta l'ex soldato - in questo periodo ho avuto molti compiti, ho partecipato a varie missioni. Nell'inverno del 2002, nella nostra base nel North Carolina, iniziammo un'esercitazione specifica sulla guerriglia urbana che durò parecchie settimane. Quindi la preparazione venne incentrata sulla chiusura e il sabotaggio di pozzi petroliferi: nelle esercitazioni utilizzavamo le mappe di Ar Rumaylah, una località meridionale dell'Iraq. Il 2 gennaio ricevetti la telefonata dai miei superiori: sarei stato dislocato in Kuwait, in una missione top secret».
«Arrivammo in Kuwait il 22 gennaio. In tutto eravamo circa 1.200 marines. Qui iniziò la nostra preparazione specifica per l'invasione dell'Iraq. A metà febbraio 2003 eravamo pronti, aspettavamo da un giorno all'altro l'ordine per iniziare l'attacco». Le operazioni di guerra partirono il 22 marzo e Massey si trovò sin da subito in prima linea. «Non ci furono grossi problemi - ricorda - la resistenza che ci trovammo di fronte era male armata, disorganizzata. I vertici militari hanno parlato dell'uso di armi intelligenti, capaci di centrare obiettivi specifici con grande precisione. In realtà fin dall'inizio del conflitto l'esercito americano fece un largo utilizzo di "cluster bomb" e bombe al napalm: era facile vedere civili iracheni morti sui bordi delle strade, completamente dilaniati, sfigurati, divorati dai vermi e dalle mosche».
Il punto di vista di Massey sull'intervento in Iraq ha vissuto con il passare dei mesi una parabola tipica di molti altri suoi commilitoni. Partito dagli Stati Uniti con la convinzione «che l'Iraq avesse armi di distruzione di massa e che il regime di Saddam andasse neutralizzato» con il passare delle settimane la sua posizione è radicalmente cambiata.
«La nostra avanzata verso nord procedeva senza troppi intoppi - ricorda l'ex sergente - il mio battaglione fu assegnato alla presa di Salman Pak, quello che secondo la stampa americana doveva essere un campo d'addestramento per terroristi e che in realtà era il centro dell'Intelligence irachena: la struttura era occupata solamente da civili, ma questo lo scoprimmo solamente in un secondo momento. Il blitz scattò di notte, entrammo dentro e iniziammo a sparare all'impazzata, come "cowboy", uccidendo chiunque vedessimo di fronte a noi».
«Nei dintorni di Salman Pak, la mattina seguente, le mie convinzioni iniziarono a vacillare. Ci stavamo riposando, io ero stremato, stavo cercando di scaricare tutta l'adrenalina accumulata la notte precedente. Un uomo iracheno mi venne incontro, con il figlio in braccio. Il bambino avrà avuto non più di due anni. L'uomo si avvicinò e mi mise in braccio il figlio. In quel momento realizzai l'assurdità di quello che stavo facendo: l'umanità di quel gesto, fatto da uno sconosciuto contro il nostro folle atteggiamento, mi aprì gli occhi. Mi guardai allo specchio. Avevo il volto completamente sporco di sabbia, il sudore che mi colava dalla fronte e le mani impastate di sangue: ero un mostro, ero un demone e lo sarei stato per sempre».
Ma per il sergente Massey il precipizio che porta dritto all'inferno non finì quel giorno. «Con il passare delle settimane la situazione continuò a peggiorare. Durante una manifestazione pacifica organizzata su un ponte nella zona dell'aeroporto della Capitale sentimmo esplodere alcuni colpi che passarono sopra le nostre teste: aprimmo il fuoco sulla folla fino a quando non si mosse più nulla. Andammo a controllare i cadaveri: erano tutti civili disarmati. Tra loro c'era un bambino di sei anni, colpito da un proiettile in mezzo alla fronte. Il giorno successivo, nel consueto briefing con la stampa, i vertici militari definirono l'episodio come "un'azione contro un gruppo di ribelli" e i media lo riportarono come tale. Ora la mia domanda è questa: come si può definire quello che abbiamo fatto come "un'azione contro dei ribelli"? Cosa ci farebbe un bambino di sei anni in mezzo a dei terroristi? Il signor Bush può forse darmi una risposta? Lo possono fare i vertici militari?».
Il giorno successivo accadde un nuovo, sconvolgente episodio. «Eravamo di turno in un posto di blocco su una autostrada, nella periferia di Baghdad. Una Kia con quattro persone a bordo non si fermò al nostro segnale di stop: aprimmo il fuoco contro i quattro occupanti. Solo uno rimase ferito di striscio, gli altri tre morirono poco dopo. Ho ancora di fronte l'immagine di questo uomo, la rabbia e la dignità del suo volto: uscì dalla macchina con le mani in alto e si avvicinò a noi. "Perché avete ucciso mio fratello? - chiese - Cosa vi abbiamo fatto? Perché avete sparato?". Nessuno di noi rispose, nessuno di noi avrebbe potuto farlo. Controllammo a fondo il veicolo, dentro non c'era nessuna arma. Queste persone non erano ribelli, non erano terroristi, non costituivano alcuna minaccia. Sono state semplicemente assassinate».
Il tono di Massey diventa più duro. Non riesce più a controllarsi, a tenere dentro il senso di colpa e la rabbia. «Dobbiamo uscire da un luogo comune che ci viene ripetuto tutti i giorni: non siamo portatori di pace, non siamo liberatori. I marines hanno un unico scopo: uccidere e distruggere. Questo è il nostro lavoro, questo è il nostro mestiere, questo è ciò che ci insegnano. Non abbiamo compiti umanitari, non facciamo azioni di peacekeeping: il nostro obiettivo è semplicemente uccidere e distruggere, siamo pagati per fare questo».
Il calvario di Massey finì nel dicembre del 2003, quando fu rispedito a casa a causa di «una forte depressione e disordini dovuti a stress post-traumatico». Da quel momento ha lasciato il corpo dei Marines e ha deciso di aderire al movimento pacifista. «Gli Stati Uniti stanno diventando una nazione di guerra. I ragazzi e le ragazze delle classi sociali a basso reddito si arruolano perché è l'unico modo per poter guadagnare qualche soldo: per poter studiare, per poter essere indipendenti dai genitori. In certe realtà locali la scelta di entrare nella Guardia Nazionale o di fare carriera nell'esercito è l'unico modo per potersi costruire una vita. Io sono stato per dodici anni nel corpo dei Marines: anche nel mio caso la scelta non fu dettata da convinzioni ideologiche, ma dalla situazione economica. Avevo semplicemente bisogno di soldi».
L'esperienza vissuta in Iraq segnerà per sempre Jimmy Massey. Ma non sono stati solamente gli episodi di sangue a sconvolgere il suo modo di pensare. «È assurdo come si sta comportando la stampa in Iraq. Nessuno sta raccontando veramente il conflitto, ma semplicemente vengono riportate le notizie che sono passate dall'esercito. La maggior parte di queste sono finzioni, bugie, dati e numeri sbagliati. I giornalisti sono "incorporati" nell'esercito, seguono le azioni dei soldati dall'interno dei carri armati e vengono portati laddove hanno deciso i vertici militari».
«Il numero dei civili uccisi a causa del nostro intervento è altissimo - conclude Massey - alcune stime parlano di almeno 100.000 vittime. Credo che un dato certo e definitivo non potremo mai averlo. Bisogna tenere conto delle decine di migliaia di persone che muoiono di stenti. Di una cosa comunque sono certo: in Iraq stiamo commettendo un genocidio, e lo stiamo facendo volontariamente».
Data pubblicazione: 2004-12-06
Indirizzo pagina originale: http://www.tandemnews.com/viewstory.php?storyid=34075
Il racconto del soldato pentito: «Civili uccisi senza un perché»
«Gli Stati Uniti stanno compiendo un genocidio, e lo stanno facendo volontariamente. 100.000 morti? Nessuno saprà mai il numero esatto»
«È stato un massacro. Il mio battaglione era stato dispiegato in una zona periferica di Baghdad. Qui avevamo allestito un posto di blocco. Gli ordini erano precisi: sparare alle macchine che non si fossero fermate al nostro segnale di alt. Nel giro di quarantotto ore abbiamo ucciso trenta civili. Dentro le loro automobili non abbiamo trovato nessuna arma. Abbiamo finito il lavoro gettando i loro corpi in una fossa, come ci era stato ordinato dai nostri superiori». Jimmy Massey parla con distacco dell'inferno che ha visto e vissuto in prima persona in Iraq. Le sue parole sono misurate, il tono della sua voce è calmo e piatto, il suo sguardo molto spesso si abbassa a guardare le sue mani, mani che hanno sparato e ucciso altri esseri umani. Quando venne richiamato negli Stati Uniti, nel dicembre del 2003, il sergente Massey del corpo dei Marines venne colpito da una forte crisi depressiva. «Non ci sono medicine per poter curare le ferite dell'anima:sono sfregi interiori che rimarranno per sempre».
Jimmy Massey, 33 anni, dodici dei quali spesi nell'Esercito, è giunto a Toronto in occasione dell'inizio delle udienze presso l'Immigration and Refugee Board di Jeremy Hinzman, il soldato americano che, dopo essersi rifiutato di partire per l'Iraq, è fuggito dagli Stati Uniti e sta cercando ora di ottenere asilo politico in Canada. Massey porterà le sue esperienze vissute in Iraq di fronte alla commissione, per ribadire che «la guerra fatta dagli Stati Uniti è illegale e rifiutare di parteciparvi è un diritto».
«Ho fatto parte del corpo dei Marines per dodici anni -racconta l'ex soldato - in questo periodo ho avuto molti compiti, ho partecipato a varie missioni. Nell'inverno del 2002, nella nostra base nel North Carolina, iniziammo un'esercitazione specifica sulla guerriglia urbana che durò parecchie settimane. Quindi la preparazione venne incentrata sulla chiusura e il sabotaggio di pozzi petroliferi: nelle esercitazioni utilizzavamo le mappe di Ar Rumaylah, una località meridionale dell'Iraq. Il 2 gennaio ricevetti la telefonata dai miei superiori: sarei stato dislocato in Kuwait, in una missione top secret».
«Arrivammo in Kuwait il 22 gennaio. In tutto eravamo circa 1.200 marines. Qui iniziò la nostra preparazione specifica per l'invasione dell'Iraq. A metà febbraio 2003 eravamo pronti, aspettavamo da un giorno all'altro l'ordine per iniziare l'attacco». Le operazioni di guerra partirono il 22 marzo e Massey si trovò sin da subito in prima linea. «Non ci furono grossi problemi - ricorda - la resistenza che ci trovammo di fronte era male armata, disorganizzata. I vertici militari hanno parlato dell'uso di armi intelligenti, capaci di centrare obiettivi specifici con grande precisione. In realtà fin dall'inizio del conflitto l'esercito americano fece un largo utilizzo di "cluster bomb" e bombe al napalm: era facile vedere civili iracheni morti sui bordi delle strade, completamente dilaniati, sfigurati, divorati dai vermi e dalle mosche».
Il punto di vista di Massey sull'intervento in Iraq ha vissuto con il passare dei mesi una parabola tipica di molti altri suoi commilitoni. Partito dagli Stati Uniti con la convinzione «che l'Iraq avesse armi di distruzione di massa e che il regime di Saddam andasse neutralizzato» con il passare delle settimane la sua posizione è radicalmente cambiata.
«La nostra avanzata verso nord procedeva senza troppi intoppi - ricorda l'ex sergente - il mio battaglione fu assegnato alla presa di Salman Pak, quello che secondo la stampa americana doveva essere un campo d'addestramento per terroristi e che in realtà era il centro dell'Intelligence irachena: la struttura era occupata solamente da civili, ma questo lo scoprimmo solamente in un secondo momento. Il blitz scattò di notte, entrammo dentro e iniziammo a sparare all'impazzata, come "cowboy", uccidendo chiunque vedessimo di fronte a noi».
«Nei dintorni di Salman Pak, la mattina seguente, le mie convinzioni iniziarono a vacillare. Ci stavamo riposando, io ero stremato, stavo cercando di scaricare tutta l'adrenalina accumulata la notte precedente. Un uomo iracheno mi venne incontro, con il figlio in braccio. Il bambino avrà avuto non più di due anni. L'uomo si avvicinò e mi mise in braccio il figlio. In quel momento realizzai l'assurdità di quello che stavo facendo: l'umanità di quel gesto, fatto da uno sconosciuto contro il nostro folle atteggiamento, mi aprì gli occhi. Mi guardai allo specchio. Avevo il volto completamente sporco di sabbia, il sudore che mi colava dalla fronte e le mani impastate di sangue: ero un mostro, ero un demone e lo sarei stato per sempre».
Ma per il sergente Massey il precipizio che porta dritto all'inferno non finì quel giorno. «Con il passare delle settimane la situazione continuò a peggiorare. Durante una manifestazione pacifica organizzata su un ponte nella zona dell'aeroporto della Capitale sentimmo esplodere alcuni colpi che passarono sopra le nostre teste: aprimmo il fuoco sulla folla fino a quando non si mosse più nulla. Andammo a controllare i cadaveri: erano tutti civili disarmati. Tra loro c'era un bambino di sei anni, colpito da un proiettile in mezzo alla fronte. Il giorno successivo, nel consueto briefing con la stampa, i vertici militari definirono l'episodio come "un'azione contro un gruppo di ribelli" e i media lo riportarono come tale. Ora la mia domanda è questa: come si può definire quello che abbiamo fatto come "un'azione contro dei ribelli"? Cosa ci farebbe un bambino di sei anni in mezzo a dei terroristi? Il signor Bush può forse darmi una risposta? Lo possono fare i vertici militari?».
Il giorno successivo accadde un nuovo, sconvolgente episodio. «Eravamo di turno in un posto di blocco su una autostrada, nella periferia di Baghdad. Una Kia con quattro persone a bordo non si fermò al nostro segnale di stop: aprimmo il fuoco contro i quattro occupanti. Solo uno rimase ferito di striscio, gli altri tre morirono poco dopo. Ho ancora di fronte l'immagine di questo uomo, la rabbia e la dignità del suo volto: uscì dalla macchina con le mani in alto e si avvicinò a noi. "Perché avete ucciso mio fratello? - chiese - Cosa vi abbiamo fatto? Perché avete sparato?". Nessuno di noi rispose, nessuno di noi avrebbe potuto farlo. Controllammo a fondo il veicolo, dentro non c'era nessuna arma. Queste persone non erano ribelli, non erano terroristi, non costituivano alcuna minaccia. Sono state semplicemente assassinate».
Il tono di Massey diventa più duro. Non riesce più a controllarsi, a tenere dentro il senso di colpa e la rabbia. «Dobbiamo uscire da un luogo comune che ci viene ripetuto tutti i giorni: non siamo portatori di pace, non siamo liberatori. I marines hanno un unico scopo: uccidere e distruggere. Questo è il nostro lavoro, questo è il nostro mestiere, questo è ciò che ci insegnano. Non abbiamo compiti umanitari, non facciamo azioni di peacekeeping: il nostro obiettivo è semplicemente uccidere e distruggere, siamo pagati per fare questo».
Il calvario di Massey finì nel dicembre del 2003, quando fu rispedito a casa a causa di «una forte depressione e disordini dovuti a stress post-traumatico». Da quel momento ha lasciato il corpo dei Marines e ha deciso di aderire al movimento pacifista. «Gli Stati Uniti stanno diventando una nazione di guerra. I ragazzi e le ragazze delle classi sociali a basso reddito si arruolano perché è l'unico modo per poter guadagnare qualche soldo: per poter studiare, per poter essere indipendenti dai genitori. In certe realtà locali la scelta di entrare nella Guardia Nazionale o di fare carriera nell'esercito è l'unico modo per potersi costruire una vita. Io sono stato per dodici anni nel corpo dei Marines: anche nel mio caso la scelta non fu dettata da convinzioni ideologiche, ma dalla situazione economica. Avevo semplicemente bisogno di soldi».
L'esperienza vissuta in Iraq segnerà per sempre Jimmy Massey. Ma non sono stati solamente gli episodi di sangue a sconvolgere il suo modo di pensare. «È assurdo come si sta comportando la stampa in Iraq. Nessuno sta raccontando veramente il conflitto, ma semplicemente vengono riportate le notizie che sono passate dall'esercito. La maggior parte di queste sono finzioni, bugie, dati e numeri sbagliati. I giornalisti sono "incorporati" nell'esercito, seguono le azioni dei soldati dall'interno dei carri armati e vengono portati laddove hanno deciso i vertici militari».
«Il numero dei civili uccisi a causa del nostro intervento è altissimo - conclude Massey - alcune stime parlano di almeno 100.000 vittime. Credo che un dato certo e definitivo non potremo mai averlo. Bisogna tenere conto delle decine di migliaia di persone che muoiono di stenti. Di una cosa comunque sono certo: in Iraq stiamo commettendo un genocidio, e lo stiamo facendo volontariamente».
Data pubblicazione: 2004-12-06
Indirizzo pagina originale: http://www.tandemnews.com/viewstory.php?storyid=34075

2) Intervista a Jimmy Massey
Iraq : "Ho ucciso innocenti, ora basta"

Per quasi 12 anni, il sergente Jimmy Massey è stato un convinto marine, alcuni dicono anche troppo entusiasta. Per tre anni ha addestrato altri marines, in uno dei più duri rituali di indottrinamento della vita militare. La guerra in Iraq l’ha cambiato. La brutalità dell’invasione Usa l’ha trasformato. E’ stato congedato con onore lo scorso 31 dicembre e ora è tornato nella sua città natale di Waynsville, nel North Carolina. L’intervista a Massey è uscita la settimana scorsa sul quotidiano californiano Sacramento Bee. L’autore, Paul Rockwell, ci ha dato”con piacere” il permesso di tradurla, per far conoscere a più gente possibile cosa succede veramente in guerra.

Lei ha trascorso 12 anni nei marines. Quanto è stato inviato in Iraq?
Sono andato in Kuwait intorno al 17 gennaio. Sono stato coinvolto in Iraq fin dall’invasione.
Cosa deve sapere il pubblico a proposito della sua esperienza di marine?
La causa della rivolta degli iracheni contro l’occupazione americana. Quello che deve sapere è che abbiamo ucciso molte persone innocenti. Credo che all’inizio gli iracheni capissero che le vittime fanno parte della guerra. Ma col passare del tempo l’occupazione ha fatto male agli iracheni. E io non ho visto nessun sostegno umanitario.
Cosa le ha fatto cambiare idea sulla guerra, facendole lasciare i marines?
Ero a capo di un plotone che disponeva di macchine mitragliatrici e lanciamissili. Il nostro lavoro era di entrare in alcune aree delle città e rendere sicure le strade. C’è stato un incidente in particolare – e ce ne sono molti altri – che mi ha davvero fatto capire che avevo passato il segno. Riguardava una macchina con a bordo dei civili iracheni. I vari rapporti di intelligence che stavamo ricevendo ci informavano che le macchine erano cariche di kamikaze o esplosivi. I veicoli si sono avvicinati al nostro posto di blocco. Abbiamo sparato alcuni colpi di avvertimento. Non hanno rallentato. Così, li abbiamo accesi.
Accesi? Vuole dire che avete sparato con le macchine mitragliatrici?
Esatto. Per ogni macchina che abbiamo acceso ci aspettavamo che esplodessero delle munizioni. Ma non abbiamo sentito niente. Beh, non abbiamo distrutto completamente quel veicolo. E un uomo che era all’interno mi ha guardato dicendo: “Perché avete ucciso mio fratello? Non abbiamo fatto niente di male”. Questo mi ha colpito come un macigno.
Baghdad era sotto i bombardamenti. I civili stavano cercando di fuggire dalla città, vero?
Sì. Avevano ricevuto dei volantini di propaganda che avevamo lanciato con gli aerei. Dicevano: “Alzate le mani e deponete le armi”. E’ quello che stavano facendo, ma li abbiamo accesi comunque. Non erano in uniforme. Non abbiamo mai trovato nessuna arma.
Ha visto i corpi delle vittime?
Sì. E ho anche dato una mano a gettarli in un fosso.
In che periodo è successo tutto questo?
Durante l’invasione di Baghdad.
Quante volte è stato coinvolto in queste “accensioni” ai posti di blocco?
Cinque volte. A Rekha, un uomo stava guidando un furgone rubato. Non si è fermato. Essendo noi belli carichi, non gli abbiamo dato neanche una possibilità. Lo abbiamo acceso molto bene. Poi abbiamo ispezionato il retro del furgone. Non abbiamo trovato niente. Nessun esplosivo.
I giornali dicevano che le macchine erano cariche di esplosivi. Era così in tutti i casi?
Mai. Nemmeno una volta. Non c’erano esplosioni secondarie. A dire il vero, abbiamo acceso un gruppo di dimostranti dopo aver sentito partire un colpo.
Una dimostrazione? Dove?
Alla periferia di Baghdad. Vicino a un complesso militare. C’erano dei dimostranti alla fine della strada. Erano giovani e non avevano armi. E quando siamo arrivati là c’era già un carro armato parcheggiato su un lato della strada. Se gli iracheni avessero voluto fare qualcosa, avrebbero potuto far saltare per aria il tank. Ma non l’hanno fatto. Stavano solo protestando. Giù, verso la fine della strada, abbiamo visto alcuni RPG allineati contro il muro. Questo ci ha messo a nostro agio perché abbiamo pensato: “Wow, se stessero per farci saltare in aria, l’avrebbero già fatto”.
Chi ha dato l’ordine di spazzare via i dimostranti?
Gli alti comandi. Ci è stato detto di stare in guardia con i civili perché tanti Fedayn e membri della Guardia Repubblicana avevano smesso le uniformi e indossato dei vestiti da civili, organizzando degli attacchi terroristici contro i soldati Usa. I rapporti dell’intelligence che ci venivano dati erano praticamente conosciuti da ogni membro della catena di comando. La struttura gerarchica messa in piedi in Iraq dalla catena di comando era evidente per ogni marine. L’ordine di sparare sui dimostranti, credo, è venuto dai più alti ufficiali governativi, incluse le comunità dell’intelligence all’interno dell’esercito e compreso anche il governo Usa.
Che tipo di armi sono state usate?
M-16, mitragliatrici da 50 millimetri.
Avete sparato su dei bambini? Li avete uccisi tutti?
Oh sì. Beh, ho avuto “pietà” di un ragazzo. Quando siamo arrivati, si stava nascondendo dietro a un pilone di cemento. L’ho visto, ho alzato l’arma, lui messo le mani in alto ed è scappato. Ho detto a tutti: “Non sparate”. Metà del suo piede penzolava dietro di lui. Stava correndo su mezzo piede.
Dopo che avete acceso la dimostrazione, quanto tempo è passato prima di un nuovo incidente?
Probabilmente una o due ore. Questa è un’altra cosa…Sono così contento di parlarne con lei, perché avevo represso tutto questo.
Beh, apprezzo il fatto che lei mi stia dando queste informazioni, per quanto sia duro ricordare i dettagli dolorosi.
Va bene così. E’ una specie di terapia per me, è qualcosa che avevo represso per troppo tempo.
E l’incidente?
C’è stato un incidente con una delle macchine. Abbiamo sparato a un uomo che teneva le mani in alto. E’ uscito dall’auto, era stato colpito duramente. Lo abbiamo acceso. Non so chi ha cominciato a sparare per primo. Uno dei marines è venuto correndo verso di noi e ha detto: “Avete sparato a un tipo che aveva le mani in alto”. Ehi, mi ero dimenticato di questo.
Cosa mi può dire riguardo le bombe a grappolo, o a proposito dell’uranio impoverito?
L’uranio impoverito. So cosa fa. E’ praticamente come lasciare in giro del plutonio. Io ho 32 anni, e i miei polmoni hanno solo l’80 per cento della loro capacità, mi fanno sempre male. Non mi sento un 32enne sano.
Lei è stato a contatto con l’uranio impoverito?
Oh sì. E’ dappertutto sul campo di battaglia. Se colpisci un carro armato, esce la polvere.
Ha respirato la polvere? Sì.
E se l’uranio impoverito ha fatto effetto su di te o sui nostri soldati, lo farà anche sui civili iracheni.
Oh, sì. Hanno un grande problema di scorie.
Ma i marines prendono delle precauzioni per l’uranio impoverito?
Non che io sappia. Beh, se un carro armato viene colpito, l’equipaggio viene tenuto in osservazione per un po’ per assicurarsi che non ci siano segni o sintomi. I tank statunitensi hanno dell’uranio impoverito sui lati, e anche i proiettili ce l’hanno. Se un veicolo nemico è colpito, l’area viene contaminata. Le scorie rimangono nel terreno. La popolazione civile comincia ora ad apprendere del problema. Cavolo, io stesso non avevo mai sentito parlare di uranio impoverito fino a due anni fa. Sa come l’ho scoperto? Ho letto un articolo sulla rivista Rolling Stone. Così ho cominciato a farmi delle domande, e ho detto “Porca putt…!”.
Le bombe a grappolo sono anche una materia controversa. Le commissioni Onu hanno chiesto di metterle al bando. Lei conosceva le bombe a grappolo?
Uno dei marines del mio battaglione ha perso una gamba per una bomba a grappolo intermittente.
Cos’è successo?
Ci ha messo il piede sopra. Non eravamo stati addestrati per le bombe a grappolo fino a un mese prima della mia partenza.
Che tipo di addestramento?
Ci hanno detto che aspetto avevano, e che non dovevamo montarci sopra.
Lei è stato in aree dove queste bombe erano state sganciate?
Oh sì. Erano dappertutto. Sganciate dagli aerei e dall’artiglieria.
Vengono sganciate lontano dalle città o dentro le città?
Sono usate dappertutto. Se lei parlasse con un ufficiale dell’artiglieria dei marines, lui le darebbe la frase giusta, la risposta politicamente corretta. Ma per il soldato medio sono dappertutto. Se si entrava in una città, si sapeva che ci sarebbero state delle bombe a grappolo intermittenti.
Le bombe a grappolo sono armi anti-uomo. Non sono precise. Non danneggiano gli edifici e i carri armati. Solo le persone e le cose viventi. Ci sono molti proiettili inesplosi che saltano in aria dopo che le battaglie sono finite, giusto?
Una volta che le scariche lasciano il tubo, la bomba a grappolo ha una mente propria. C’è sempre l’errore umano. Glielo dico: le forze armate sono in un posto caldo laggiù. Stanno cominciando a trapelare le notizie sulle vittime civili. Gli iracheni sanno. Continuo a sentire racconti dei miei compagni marines che parlano di oltre 200 civili uccisi a Falluja. L’esercito sta facendo fatica a tenere segreti questi fatti. Da quel che ho capito, Falluja era piena di cadaveri di civili.
Vorrei tornare indietro al primo incidente, quello in cui il sopravvissuto le ha chiesto perché avevate ucciso suo fratello. E’ stato quello l’incidente che l’ha fatta cambiare, come dice lei?
Oh sì. Più tardi ho scoperto che quella era stata una giornata tipica. Ho parlato con uno dei miei comandanti in capo dopo l’incidente. E’ venuto da me dicendomi: “Tutto bene?”. Io ho detto: “No, oggi non è un bella giornata. Abbiamo ucciso un gruppo di civili”. Lui mi ha fatto: “No, oggi è stata una bella giornata”. E quando ha detto così ho pensato “Oddio, in che inferno sono capitato?”.
I suoi sentimenti sono cambiati durante l’invasione. Cosa pensava prima dell’invasione?
Ero come ogni altro soldato. Il mio presidente mi aveva detto che disponevano di armi di distruzione di massa, che Saddam minacciava il mondo libero, che aveva tutta questa potenza e poteva raggiungerci dovunque. Credevo in pieno a tutta questa storia.
Cosa l’ha cambiata?
Le vittime civili. Questo ha fatto la differenza. Questo mi ha fatto cambiare.
Le rivelazioni che non abbiamo trovato nessuna prova delle armi irachene hanno influenzato i soldati?
Sì. Ho ucciso gente innocente per il nostro governo. Per cosa? Cosa ho fatto? Dov’è il lato positivo di questo? Mi sento come se ho avuto una parte in una specie di bugia malvagia per mano del nostro governo. Mi sento imbarazzato, mi vergogno di questo.
Capisco che tutti questi fatti – l’uccisione di civili ai posti di blocco, le dita pronte a premere il grilletto alla manifestazione – pesano su di lei. Cosa è successo con i suoi comandanti in capo? Che tipo di rapporto ha con loro?
C’è stato un episodio, subito dopo la caduta di Baghdad, quando siamo tornati indietro verso sud. Alla periferia di Karbala, ho avuto un incontro mattiniero. Non ero dell’umore giusto. Tutte queste cose mi passavano per la testa – le cose che stavamo faccendo laggiù. Tutte le cose che mi chiedevano i miei soldati. Stavo tenendo tutto dentro. Ho cominciato a chiacchierare col mio tenente colonnello. La conversazione non mi piaceva, e l’ho attaccato. L’ho guardato dicendogli: “Sai, io sento profondamente che quello che stiamo facendo quaggiù è sbagliato. Stiamo commettendo un genocidio”.
Lui mi ha chiesto qualcosa e io ho detto che con le uccisioni dei civili e con l’uranio impoverito stavamo esagerando. Non gli sono piaciute quelle parole. Si è alzato ed è andato via infuriato. E lì ho capito che la mia carriera era finita. Stavo parlando col mio comandante in capo.
Cos’è successo dopo?
Dopo aver parlato con il comandante più alto, sono stato praticamente portato via e messo agli arresti domiciliari. Non ho parlato con altri soldati. Non volevo farli soffrire. Non volevo metterli a rischio. Voglio aiutare la gente. Dovevo dire qualcosa. Quanto sono stato rispedito a casa, sono andato dal sergente maggiore. E’ il responsabile di più di 3.500 marines. “Signore – gli ho detto – non voglio i suoi soldi. Non voglio i suoi vantaggi. Quello che ha fatto è sbagliato”. Era una condanna personale la mia. Ho avuto una carriera impeccabile, ho scelto di tirarmi fuori. E sa a chi do la colpa? Al presidente degli Usa. Non ai soldati. Do la colpa al presidente perché ha detto che avevano armi di distruzione di massa. Era una bugia. Jimmy Massey/Redazione peacereporter.net, 25.05.04 http://www.nucleoculturale.com/userfiles/jmiraqhouccisoinnocentiorabasta.htm http://www.wsws.org/articles/2004/nov2004/vet-n11.shtml

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