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Essere kamikaze: sociologia e psicologia di una scelta
by info-educational Thursday, Mar. 10, 2005 at 11:29 PM mail:

L'intensificarsi degli attentati accende la discussione sul perchè del terrorismo suicida

All'indomani dell'attentato dell'11 settembre 2001, il genetista Richard Dawkins ha scritto un articolo sui "martiri" di al-Qaida dipingendoli come "ragazzi inzuppati di testosterone ma troppo poco attraenti per avere una donna in questo mondo". Da qui l'impellente necessità di ottenere i favori "delle settantadue spose vergini garantite, colme di desiderio ed esclusivamente per loro".

L'analisi-invettiva del più rappresentativo degli scienziati britannici restituisce una visione caricaturale delle motivazioni dei kamikaze arabi di al Qaida, e in generale di tutti gli uomini-bomba che, dalla Palestina allo Sri Lanka, insanguinano il pianeta.

Questa visione sessuocentrica fa il paio con altre visioni ingenue, che per riportare a dimensioni di ragionevolezza l'atto suicida del kamikaze parlano di fanatismo religioso, di irrazionalità o di psicopatologia.

Negli ultimi anni si sono avvicendate molte teorie sulla genesi del terrorismo suicida. Quando gli attentati libanesi di Hezbollah erano chiaramente sostenuti dall'Iran, molti analisti hanno abbracciato la teoria del terrorismo come attività sponsorizzata dagli "stati canaglia", in cui poco contava la volontà dei singoli maritiri. La dottrina dell'origine statale del terrorismo suicida sta ancora alla base dell'agire dell'amministrazione americana, come dimostrano le guerre in Afghanistan e in Iraq. Tuttavia questa spiegazione è stata ampiamente contraddetta dai fatti: il terrorismo suicidia prospera proprio dove la lotta politica sembra essere sfuggita dalle mani di un chiaro indirizzo statale o centralizzato (come nelle seconda intifada palestinese). Inoltre, tutte le indagini condotte finora mostrano come la scelta del "martirio" sia libera e volontaria, addirittura entusiasta, e soprattto compiuta da persone sane di mente e con un discreto livello di istruzione.

Più che puntare su presunte tare psicologiche pare più produttivo concentrarsi allora sui contesti religiosi, ideologici e sociali. In questa direzione vanno gli studi dello psicologo israeliano Ariel Merari e del saggista Malise Ruthven. L'analisi del retroterra politico e culturale dei dirottatori dell'11 settembre, in particolare dell'ingegnere egiziano Muhammad Atta che sembra aver avuto il ruolo di leader del gruppo, rivela un forte radicamento nell'islamismo radicale di Sayyd Qutb (1906-76, ideologo dei Fratelli musulmani) e di Shukri Mustafa (1942-77), guida spirituale dell'Associazione dei musulmani. Entrambe queste forme di radicalismo islamico spingono verso una fedeltà assoluta alla lettera del Corano, un rifiuto antintellettualistico di ogni forma di interpretazione e spiritualizzazione del messaggio religioso, che li conduce a vedere nel jihad una guerra senza esclusione di mezzi contro quegli individui e quelle società "infedeli" che non consentono il libero esercizio della religiosità e della legge islamica. Per l'ingegnere Muhammad Atta, il testo sacro non è altro che una sorta di manuale operativo di "scienza missilistica" da impiegare per la distruzione di una società che si è ribellata alla sovranità di Dio (jahiliyya), in modo da poter instaurare finalmente un califfato universale.

Un altro contributo convincente alla genesi sociale del terrorismo suicida è stato portato dal ricercatore del CNRS francese Scott Atran. Anche per lui la fuga verso soluzioni terroristiche non può essere spiegata né con le categorie della povertà né con quelle psicopatologiche. Tutte le indagini svolte sui martiri e i loro familiari, così come le informazioni che ad Atran sono state date dalla CIA in merito al contenuto degli interrogatori svolti nella prigione di Guantanamo, rivelano l'appartenenza dei terroristi a un ceto medio-alto, con una alto grado di istruzione e di consapevolezza sociopolitica.

La chiave di accesso più efficace alla mente dei giovani terroristi sembra essere piuttosto il potere di condizionamento pressoché totale che le organizzazioni riescono ad avere su di loro. Il meccanismo psicologico è lo stesso che tempo addietro ha funzionato con i kamikaze giapponesi: creare comunità chiuse con una forte impronta mistico-militare, dove tutti si sentano affratellati nella realizzazione di un progetto segreto e considerato di vitale importanza. Il sacrificio di ciascuno, in questa logica, porta alla salvezza degli altri "fratelli" quando non della intera comunità. Le interviste condotte sia alle reclute del gruppo pachistano alleato di Al-Qaida, Harkat al-Ansar, sia a quelle di Jemaah Islamiyah (Singapore) confermano questo senso di appartenenza al gruppo (quasi una nuova famiglia) forgiato sulla ricerca ossessiva della segretezza e sulle letture del Corano.

In una discussione a più voci condotta su un sito internet appositamente dedicato alla "genesi e futuro del terrorismo suicida" il filosofo cognitivista el CNRS Dan Sperber ha cercato di arrivare a una comprensione più fine dei meccanismi cognitivi che possono spingere a una scelta così antiutilitaristica come il suicidio a fini politici. "Dal punto di vista dei leader delle organizzazioni terroristiche" scrive Sperber, "utilizzare terroristi suicidi è una scelta razionale", soprattutto perché con risorse limitate si riesce a ottenere il massimo di effetto (nel caso del conflitto israelo-palestinese, il rallentamento di un processo di pace e di nuovi insediamenti del nemico) con il minimo di spesa (la vita di una persona di un paese povero). Economicamente, si va a colpire il nemico nel capitale umano più prezioso: la popolazione civile di un paese ricco.

Dal punto di vista dell'agente, la scelta viene resa possibile dalla sua gradualità. Argomenta Sperber: "La domanda che ci si dovrebbe porre non è "Perché questi giovani compiono un'azione suicida", bensì "Perché si rendono disponibili a commettere un'operazione suicida?", e ancora "Perché, essendosi resi disponibili, vanno avanti piuttosto che cambiare idea?"". Alla prima domanda si può rispondere che offrirsi come volontari per fare qualcosa è più facile che fare qualcosa, non impegna ancora. In cambio però dà subito dei vantaggi, come il rispetto da parte della comunità, un'aura di eroismo che si confà al futuro martire, ecc.. Una volta che si è fatto questo passo, è più facile procedere verso i passi successivi che tornare indietro. "A ogni snodo decisionale successivo" continua Sperber, "la scelta è razionale, date le credenze e le preferenze dell'individuo. Il punto debole è la mancanza di lungimiranza al momento di offrirsi volontari". Tornare indietro dopo una scelta del genere comporterebbe disonore, disprezzo, delusione, rifiuto da parte degli amici e dei familiari.

Fino a un attimo prima del suicidio, dunque, l'utilità sociale che si trae dalla scelta è molto alta, per poi apparentemente annullarsi nell'atto autodistruttivo del martirio. Tuttavia, continua Scott Atran, continuare a pensare ai martiri di Allah come agenti razionali che decidono in base a convincimenti personali secondo un'ottica di responsabilità e utilità è il tipico errore di attribuzione compiuto da una visione del mondo individualistica di tipo americano o europeo. In realtà, nelle società asiatiche e africane, l'etica delle scelte ha una colorazione decisamente più comunitaristica che individualistica. "Istituzioni come al Qaida, Hamas o Hezbollah riescono a sfruttare il potenziale di sofferenza, oltraggio e umiliazione presenti in società come quella palestinese per costruire vere e proprie bombe umane" spiega Atran. "Come consumati pubblicitari, i leader carismatici di questi gruppi che sponsorizzano il martirio come arma politica, riescono a utilizzare i normali desideri per la famiglia e la religione per creare delle microcomunità coese al loro interno e pronte a esplodere in attentati verso l'esterno. E' lo stesso tipo di manipolazione degi individui compiuto dall'industria della pornografia che volge il desiderio universale e innato di avere partner sessuali in dipendenza da immagini oscene su carta o su video".

Se la chiave del successo del terrorismo suicida è da ricercare nella manipolazione delle coscienze condotta da queste organizzazioni, è lì secondo Atran che si dovrebbe agire per prevenire nuovi proseliti. "Prima di tutto" scrive Atran "bisogna condurre studi sistematici su questi gruppi e sulle loro regole di reclutamento". Bisognerà riuscire a mettere in discussione il loro prestigio politico e culturale, magari, come propone il governo di Singapore, stimolando iniziative di confronto interreligioso e nuove forme di dibattito ed educazione civica.

Più che aiuti economici o un generico miglioramento dell'istruzione, serve poi una soluzione politica, capace di disinnescare il principale simbolo di ingiustizia per le masse arabe, rappresentato dall'occupazione israeliana dei territori palestinesi. All'interno degli stati arabi, invece, si dovrebbero abbandonare le politiche ferocemente repressive nei confronti dei movimenti radicali per cercare di recuperarli nel processo politico. Ma gli Stati Uniti sono pronti a questa "riduzione del danno" su scala planetaria? Fino a quando gli statunitensi crederanno di avere a che fare con maniaci antioccidentali che odiano i valori di libertà, tolleranza e democrazia - spiega Scott Atran - non ci sarà via d'uscita pacifica all'emergenza terroristica.

Intanto anche i sondaggi statunitensi raccontano una realtà completamente ddiversa: l'ultima edizione del sondaggio del Pew Research Centre sugli atteggiamenti globali in merito alle politiche e ai valori sociali in 21 paesi conferma che le popolazioni che sostengono il terrorismo di al Qaida vedono con favore il sistema di vita, le libertà civili e il sistema economico statunitense. La stessa indagine condotta sui palestinesi conclude che l'80% della popolazione mette al primo posto il sistema politico israeliano e al secondo quello americano. Risultati paradossali, che contraddicono la lettura del terrorismo musulmano in termini di "scontro delle civiltà".

Ciò che viene rigettato da queste popolazioni è piuttosto la politica estera americana, che sembra conoscere solo due vie: la guerra o il sostegno alle politiche repressive di stati autoritari. "Sembra esserci una correlazione diretta fra aiuti militari e controinsurrezionali americani, abusi di diritti umani da parte dei governi aiutati, e intensificarsi del terrorismo" conclude Atran.

Più che del Corano, il terrorismo suicida di al Qaida è figlio di questa politica.

Luca Carra

fonte
http://www.scienzaesperienza.it/news/new.php?id=0233

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Titolo Autore Data
mafiosi solo mafiosi x i mafiosi Friday, Mar. 11, 2005 at 12:30 AM
non so di chi sono figli... la sgrena li chiama "amici" reisten Thursday, Mar. 10, 2005 at 11:37 PM
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