Articolo tratto dalla rivista Infoxoa 19
Il reggae è davvero solo un affare di uomini? di: WOMENinREGGAE,Roma
Lo abbiamo chiesto a Dawn Penn, una donna che ha fatto la storia del reggae, e a Tanya Stephens, una delle voci femminili che attualmente spopolano nelle dancehall.Dalla old school alla generazione delle dancehall queen, due donne consapevoli a confronto con un mondo ancora permeato da una forte egemonia maschile.
Siamo un gruppo di donne accomunate dalla passione per il reggae, la musica che da sempre esprime il nostro bisogno di ribellarci e protestare, dando voce ai nostri desideri e alle nostre lotte. A partire dalla nostra esperienza di donne che si sono incontrate e riconosciute nei contenuti che questa musica diffondeva, abbiamo cercato di affermare una diversa modalità di collaborazione, basata più sulla condivisione che sulla competizione. Mentre partecipavamo alla nascita della KAOS crew (il Komitato di AppoggiO Sonoro che unisce alcuni sound system e trasmissioni radiofoniche attivi nell'area romana) abbiamo cercato contemporaneamente di offrire un nostro contributo creativo e originale in una scena satura di machismo e maschilismo. Sono nate così l'iniziativa delle Sister in Action per il Casale Malafede, la giornata a sostegno della RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan) al Lab Auro e Marco di Spinaceto, e il tributo a Sarah Baartmann al centro sociale Intifada. Una serie di eventi in cui abbiamo cercato di aprire uno spazio per la discussione e la riflessione, perché crediamo fermamente nelle potenzialità della musica come strumento di comunicazione. WOMENinREGGAE è nato allora dal nostro desiderio di ascoltare e di dare voce ad una splendida minoranza composta di artiste che cantano con passione di rabbia e amore, ma che faticano a trovare un riconoscimento dei loro desideri e delle loro esperienze. Si tratta di un programma andato in onda nella stagione 2003/2004 all'interno del Martedì autogestito da femministe e lesbiche di Radio Ondarossa - e che continuerà ad andare in onda ogni qualvolta ci sarà una voce femminile che avrà bisogno di essere amplificata e diffusa - uno spazio dedicato espressamente alla valorizzazione del ruolo delle donne nella musica e nella cultura giamaicana. Un ruolo spesso dimenticato o sottovalutato, se si guarda al numero di donne che riescono a vivere della carriera musicale, o se si pensa alle disuguaglianze sociali e alle diverse forme di oppressione che ancora le donne sperimentano nell'isola. In Giamaica le lavoratrici sono sottopagate rispetto ai lavoratori. La percentuale delle donne disoccupate è del 39% (più del doppio di quella maschile che è del 16%). Pur rappresentando il 47% della forza lavoro, le donne finiscono per essere relegate nella sfera domestica: ridotte al ruolo di madri, cuoche e serve dei loro mariti (quando il marito c'è, perché in genere sono le donne sole a farsi carico dei figli). La dominazione maschile è stata legittimata e imposta sulla società da una divisione del lavoro basata sul genere, e da istituzioni come le chiese e le scuole, che hanno contribuito a marginalizzare le donne escludendole dalla vita pubblica e sociale. Per non parlare del movimento Rastafari - strettamente connesso alla storia del reggae - che diffonde una cultura sessista e patriarcale, e che tra l'altro finisce per escludere qualsiasi scelta sessuale che esuli dall'eterosessualità normativa. Infatti in Giamaica l'omosessualità maschile è perseguibile per legge, e i cantanti spesso iniziano i loro concerti con proclami antigay. Ma nonostante tutto nella storia dell'isola ci sono state grandi donne - a partire da Nanny dei Maroons, leader della rivolta degli schiavi contro i colonizzatori inglesi nel XVIII secolo; passando per Queen Omega, moglie dell'imperatore d'Etiopia Haile Selassie, divenuta un modello per tutte le rastawomen; fino alle I-Threes, le mitiche coriste di Bob Marley - tutte donne che hanno partecipato alla costruzione della cultura e dell'identità nazionale giamaicana. Dunque per accrescere la consapevolezza delle ragazze di oggi, è cruciale che le storie di queste donne del passato vengano riconosciute e valorizzate.
Roma, - Dawn Penn, la mitica voce di You Don't Love Me (No, No, No), il singolo dal successo più duraturo nella storia della musica reggae, si è appena esibita. La incontriamo nel backstage del concerto, e appena iniziamo a parlare, scopriamo che lei condivide decisamente il nostro intento, tanto che afferma subito con decisione:
"It's a male dominated business! (è un business dominato dagli uomini!) Vedete, è così in ogni genere di musica: non ci sono donne che comandano, anzi ci sono poche artiste donne in generale... Ma soprattutto nel reggae, la situazione è davvero negativa per le donne! e questa per me è la cosa più grave. Ad esempio negli Stati Uniti ci sono tante donne nel panorama del rap e dell'hip hop, ma nel reggae ce ne sono davvero poche...."
È proprio vero, e in effetti anche noi, nelle nostre trasmissioni, abbiamo parlato del fatto che il reggae è quasi sempre "un affare da uomini": a partire dalle liriche, che spesso veicolano messaggi sessisti e omofobici, fino agli atteggiamenti machisti della maggior parte dei cantanti e dj, non solo in Giamaica ma anche qui in Italia. Le abbiamo chiesto allora che cosa ne pensa di questa situazione:
"Non voglio parlare male del mercato discografico in assoluto, perché questo significherebbe sputare nel piatto in cui mangio, ma è come se... Una volta questo mestiere era una sorta di affare rispettabile: cioè, potevi guadagnarti da vivere cantando, per cominciare... ma certo quella della cantante non era considerata una professione necessaria, o comunque non ti veniva riconosciuto un ruolo rilevante nella comunità (come ad esempio si fa per un avvocato). Oggi invece, mi rendo conto che se in un video non appari vestita... anzi svestita! e se non fai tutta una serie di pazzie, come mostrare il più possibile la tua pelle... non hai successo. Io di solito non mostro la mia pelle al pubblico: ho troppo rispetto di me stessa per farlo... e invece di indossare un bel vestito corto, preferisco lasciare spazio alla mente e all'immaginazione. Certi metodi per raggiungere un facile successo poi, funzionano per le ragazze giovani, che probabilmente non conoscono se stesse, o che possono essere facilmente manipolate... comunque sia, il pubblico può giudicare. Per quanto mi riguarda, sono felice di essere in questo business da così tanto tempo... certo questo a volte mi fa sentire un po' vecchia, e non so se è a causa della mia età... o del mio modo di vedere... ma questo non mi ferma dal continuare a cantare!"
In realtà crediamo che non sia per l'età, ma per la tua maggiore consapevolezza di te stessa, e dall'altra parte queste cantanti che strumentalizzano il proprio corpo, probabilmente non hanno talento, o non hanno altri contenuti da trasmettere, e dunque devono usare questi mezzi per raggiungere il successo...
"Sì, adesso è proprio così... e probabilmente in questo sistema io non diventerò mai ricca, e non raggiungerò mai il loro successo, ma io amo la musica, e continuerò a cantare finché vivrò! Io faccio quello che sento e continuo per la mia strada"
Un'altra domanda che le abbiamo posto riguarda le donne del passato che l'hanno ispirata o che sono state per lei dei modelli, ed ecco la risposta di Dawn Penn:
"Amo Dionne Warwick e le sue canzoni, ma anche Aretha Franklin, e poi ancora Patty Labelle e Chaka Khan, e tra le giovani adesso Alicia Keys, per il suo talento e per la sua musica. Ma ora ci sono tutte queste Britney, queste Cristine queste Beyoncé... voglio dire... io posso anche apprezzare Beyoncé ma... perché usare il quel modo il proprio corpo? Questo sistema funziona finché hai 18-19-20 anni... lo puoi fare al massimo finché ne hai 30, ma poi? Comunque loro è così che programmano la propria carriera... Ma adesso voglio dirvi che sono davvero felice di poter essere ancora qui, nonostante la mia età. Amo molto l'Italia. In passato sono stata a Milano, a Napoli e in altre città italiane... ma questa è la prima volta che mi esibisco a Roma, e sono davvero felice di aver conosciuto il calore del pubblico romano!"
Non è certo un caso che Dawn Penn abbia citato una serie di artiste che non appartengono al mondo del reggae: effettivamente le sue coetanee che ce l'hanno fatta sono davvero poche... Oggi le cose però stanno cambiando. Già nel corso degli anni '90 alcune nuove voci femminili si sono imposte nel panorama reggae (erano gli anni in cui esplodevano le cosiddette "dancehall queen" come nel titolo dell'omonimo film). A questa nuova generazione appartiene anche Tanya Stephens, esplosa sulla scena internazionale nel 2003 non solo per la sua splendida voce, ma anche per l'ironia delle sue liriche.
Roma - Tanya Stephens è in città per presentare Gangsta Blues, il suo quinto album, e ovviamente la fermiamo per farle qualche domanda. Nel brano The Other Cheek (nell'ultimo album) Tanya si rivolge al primo ministro giamaicano perché risolva i tanti problemi dell'isola, perciò le chiediamo: credi davvero che la musica possa contribuire a risolvere i problemi sociali e politici del tuo paese?
"Sicuramente! Qualsiasi mezzo con cui puoi parlare alla gente è un modo per cambiare la situazione. Il cambiamento può venire solo da noi: gli individui. E se io riesco ad influenzare anche una sola persona, questo è già abbastanza per avviare il cambiamento. Io la penso così. Credo che tutt@ dovremmo usare qualsiasi metodo a nostra disposizione per parlare dei problemi e per incoraggiare la gente a superarli".
In Little White Lie (un altro dei nuovi brani), affronti invece il tema delle ragazze madri, delle giovani donne che rimangono incinta senza avere un uomo che riconosca il bambino: si tratta di un fenomeno ancora così diffuso in Giamaica? La responsabilità della famiglia e dei figli pesa sempre solo sulle donne, oppure tra le giovani generazioni si assiste ad un cambiamento nei ruoli di genere tradizionali?
"Negli ultimi decenni le donne sono diventate le colonne portanti della famiglia, molto più che in passato. Ci sono molte famiglie con un solo genitore in Giamaica, e generalmente con una donna come capofamiglia. Anch'io provengo da una famiglia così: mia madre ha cresciuto sette figli, e tutt@ noi abbiamo padri diversi - afferma ridendo sonoramente - perciò capisco molto bene questo problema. Non credo che la situazione sia migliorata ultimamente. Anzi è andata peggiorando. Credo che gli uomini siano troppo assenti, e invece dovrebbero tornare a prendersi cura della famiglia e collaborare a risolvere i problemi. Anche se vuoi essere indipendente, e se vuoi essere forte, non puoi fare tutto da sola. C'è bisogno anche degli uomini, e noi stiamo lottando per questo, ma la situazione non è per niente migliorata".
Comunque anche vedere emergere una cantante come te - che rappresenti un nuovo modello di ruolo femminile - per le ragazze di oggi, è un grosso incoraggiamento ad essere forti e indipendenti, no?
"Ci provo. Non so se ci riesco ma faccio del mio meglio".
Nelle tue liriche tu parli spesso della sessualità, e metti al centro del discorso il punto di vista femminile nella relazione con gli uomini... credi che la musica (e il reggae in particolare) sia ancora un business dominato dagli uomini?
"Nei numeri sì. Ma non necessariamente nella qualità (ride ancora). Ci sono più uomini che donne nel reggae, ma non direi che è colpa di qualcuno. Direi che ci sono più uomini che donne che vogliono fare musica. Ma non c'è niente per cui essere tristi o niente di cui lamentarsi. Così stanno le cose, e questo significa che tutte noi, come donne, come femmine nella dancehall, abbiamo più opportunità di essere ascoltate, perché c'è meno competizione. Perciò dovremmo dire di più e lamentarci di meno!
Nelle tue canzoni decostruisci gli stereotipi tipici delle dancehall (in cui le donne propongono il solito cliché sessuale), e questo si vede anche dal modo in cui ti muovi sul palco... cosa pensi delle dancehall lady che incentrano le loro performance sulla strumentalizzazione del proprio corpo?
"Io non dico mai a nessuna quello che deve fare. Credo che ognuna debba decidere da sé cosa fare della propria vita. Per me non funzionerebbe: io ho qualcosa da dire, e se salissi nuda sul palco sarebbe una distrazione. Io voglio che la gente ascolti me, e capisca esattamente quello che sto dicendo. Perciò non mi presento nuda, ma se le altre donne vogliono farlo... sono affari loro. Io non sono particolarmente a mio agio al pensiero di avere addosso le mani di tanti uomini che non conosco, e insomma non li invito a farlo, ma cerco di coprirmi il più possibile. Ok, non parlo di apparire come una bambina, ma essere ragionevolmente coperta, ed essere comunque attraente".
Il Jamaican Observer in un articolo del 4 marzo 2004 ti definisce come una "male basher": una rovina-uomini, una donna che schernisce gli uomini per la loro incapacità di soddisfare sessualmente le donne, che ne pensi?
"È stato un errore in buona fede. Non ho mai picchiato nessun uomo, mai e poi mai. Non faccio cose del genere".
Nello stesso articolo, tu ti definisci una storyteller (e dici molto onestamente che fai musica non per la gente, ma per la tua sopravvivenza). Però affermi spesso che la musica non deve avere confini né etichette prestabilite, e che sei contraria a qualsiasi forma di censura...
"Sì, non credo che dovrebbe averne. La musica è una forma d'arte, e qualsiasi cosa tu riesca a creare, quella è l'espressione di te stessa. Perciò io credo che nessuna possa alzarsi e dire a un'altra come esprimere se stessa, perché quella non saresti tu, non saremmo noi stesse. Credo che nessuno possa influenzarmi in quello che ho da dire, io non mi faccio influenzare. Se sento di voler raccontare storie, lo faccio. Se sento di voler parlare di sessualità, lo faccio. Non voglio avere a che fare con nessun confine in assoluto".
Cosa pensi dell'attuale commercializzazione della musica reggae e del successo internazionale che sta riscuotendo in questo periodo? Non credi che stia provocando un impoverimento a livello dei contenuti?
"Avete ragione, questa è un'argomentazione davvero fondata: secondo me ogni volta che il business entra in gioco in qualsiasi forma di espressione creativa, la forma d'arte ne soffre sempre. Allora sta ad ogni singolo individuo che sente davvero di avere qualcosa da dire, mantenere il messaggio, continuare nonostante tutto. Non c'è bisogno di avere un immenso successo commerciale, per avere un impatto sulla gente. Puoi comunque avere un impatto, guadagnarti da vivere e sentirti a tuo agio, senza l'illusione del mainstream. Finché noi raggiungiamo la gente underground, è gente reale, non sono statistiche, non sono figure, non sono strategie di mercato, è la gente. Ed è a loro che io voglio arrivare. Non mi interessa di essere nel mainstream, o comunque vogliate chiamarlo, a me interessa arrivare alla gente, e se trovo anche solo dieci persone che mi ascoltano va bene".
Allora un'ultima domanda: dicevamo che tu non vuoi nessun tipo di censura o di controllo sulle tue liriche, ma ad esempio qui in Italia noi non sopportiamo di ascoltare le liriche intrise di omofobia e di violenza contro la diversità che dilagano nel reggae giamaicano... che ne pensi? condividi i pregiudizi sull'omosessualità che sono così diffusi in Giamaica?
"Personalmente non difenderei mai nessun tipo di comportamento che penalizzi un altro essere umano. Ma devo spiegare che i giamaicani... come posso dire? i giamaicani guardano il mondo coi paraocchi. Abbiamo delle pratiche di comportamento molto rigidamente definite, e le imponiamo ai nostri bambini, e poi sta ai bambini metterle in pratica. Ma è davvero stupido... Devo chiedere scusa - e qui la voce diventa meno sicura del solito - sì devo chiedere scusa per tutti quelli che dicono cose negative su persone che non conoscono, è a causa dell'ignoranza. Perciò sta a tutt@ noi informarli, insegnare loro non solo ad accettare l'omosessualità, ma soprattutto a comprendere cosa significa veramente la parola libertà, e insegnargli a rispettare i diritti di ogni altro essere umano, qualsiasi siano le sue preferenze sessuali. È una cosa davvero stupida che una persona si metta a dire a un'altra cosa fare della propria vita sessuale. È davvero ridicolo. Io non mi sognerei mai di fare una cosa così stupida come andare a giudicare o a predicare sulle scelte altrui. Ognuno ha il diritto di fare quello che vuole della propria vita, incluso avere dei pregiudizi sugli altri... ma è davvero ridicolo! Dire agli altri cosa fare del proprio corpo. Io faccio tante cose col mio corpo, che credo che degli omosessuali non farebbero... e nemmeno voglio che loro mi dicano cosa fare del mio corpo, non mi interessa. Non è un problema".
La questione dell'omofobia nella cultura giamaicana è una questione piuttosto complessa - che non si limita al livello espressivo della violenza verbale da parte dei dj, ma anzi finisce per provocare gravissimi atti di violenza e di intolleranza. Comunque quello che ci preme di più sottolineare in queste pagine, è che non possiamo continuare ad assistere passivamente alla diffusione di simili messaggi anche nel contesto delle dancehall italiane. Quest'articolo vuole porsi allora come uno spunto di riflessione, come un primo passo verso l'apertura di un dibattito sui temi che più ci stanno a cuore: ad esempio, come viviamo la nostra condizione di donne nel reggae? ci sentiamo a nostro agio? la dancehall esprime i nostri bisogni e desideri? quali dei contenuti che arrivano dalla Giamaica possiamo ancora condividere? Continueremo a porci queste domande e a porle ad altre donne, nella convinzione che solo attraverso il confronto, la solidarietà e il conflitto, potremo contribuire a creare nuovi linguaggi e a liberare nuovi spazi per l'espressione delle nostre soggettività.
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