Sacchi a pelo, kefiah, banchetti e telecamere. Chi parla di riforma e chi gioca a pallone. Il Nobel ricorda la «rivoluzione» e scrosciano gli applausi.
dscn3461-2.jpg, image/jpeg, 600x449
«È occupata». Sì, lo so. «La sedia, c’è la mia fidanzata». Ore 17.30 di ieri, Università Statale di Milano «okkupata» da quasi ventiquattr’ore. L’aula 109 è strapiena: in cattedra c’è Dario Fo. «Il lavoro, qualunque esso sia, dev’essere tondo, non piatto. L’uomo si deve alzare, andare verso l’alto. E invece no, molti rimangono appiattiti». Gli studenti dell’ateneo milanese ascoltano. A turno, qualcuno sale sul palco, afferra il microfono e pone la sua domanda. A volte, più che un punto interrogativo, è un monologo. L’arte, la cultura, Shakespeare, Galileo, Giotto. «Ci vuole partecipazione, in quello che si fa». Il popolo dell’«okkupazione» vuole partecipare a tutti i costi: gruppi di studio, discussioni, anche durante il discorso del premio Nobel. «Noi siamo degli stakanovisti - spiegano due aule più in là -, siamo andati avanti a leggere e analizzare la riforma per tutto il pomeriggio». E Dario Fo? «Non abbiamo ascoltato nemmeno una parola». Passano le sei, e il flusso (in entrata) continua. Berretti a righe, collanine di legno, maglie e maglioni arcobaleno, sciarpe alla vita, intorno alla testa, pseudo-kefiah avvolte al collo. Macchine fotografiche, telecamere, registratori. C’è anche l’immancabile straniera in visita con l’amica, che prova a tradurle le parole di Fo. «Vai Dario!» è il grido di chi lo vorrebbe sindaco di Milano. Nora e il fidanzato sono arrivati con il materassino, quello sottile da campeggiatore che non teme l’umidità. Altro? «Nulla, solo il sacco a pelo». E la telecamera.
«Ieri sera non sono riuscita a fermarmi, ma questa notte resto. Mi sono organizzata». Fra il pubblico, studenti e qualche professore. «Sono le stesse cose che facevo anch’io, da giovane - racconta una insegnante del liceo - e così sono venuta a dare un’occhiata, volevo vedere com’è adesso». C’è chi, come Daniele, arriva con una borsa di libri nuovi di zecca: «Non è che li voglia leggere tutti qui, è solo che tra poco ho un esame e sono passato a fare acquisti. Tornerò questa notte, prima devo lavorare». Qualcuno, nel prato sottostante, è più interessato al pallone. D’altronde «è una cosa seria, ma non solo». Milanesi e non, in sandali o con la camicia, non vogliono perdersi la lezione di Fo: «Non lasciatevi addormentare da quella vibrazione meccanica», quella che appiattisce e toglie il respiro. Fuori, la zona fumatori. Nella notte fra venerdì e sabato, divisi in tre aule, sessanta studenti hanno dormito qui, al piano terra dell’università. «Forse eravamo anche di più, è difficile dirlo - racconta Fabrizio -. E poi, dormire... Arrivano in tanti, un ateneo occupato, a Milano, è qualcosa che attira». La mattina l’atmosfera cala. Ma, dal primo pomeriggio, la voglia di protestare si risveglia. Tanto che c’è chi vorrebbe «un gruppo di discussione permanente», una specie di comitato attivo a tutte le ore. «Verso sera le sale cominciano a riempirsi. Il rettore è stato generoso, ci ha lasciato quattro aule». In una c’è persino la sala stampa. È qui che spiegano: «Non abbiamo mai detto che, dopo il ponte di Ognissanti, smetteremo di protestare. Noi andiamo avanti, fino a che verrà cancellata la riforma». Pochi metri più in là, Dario Fo, camicia rosa e cardigan petrolio, ha appena scandito la parola «rivoluzione»: applausi, grida, la fila di chi vuole intervenire non si interrompe. «In teatro insegnano che la tensione, a un certo punto, cala. Quindi è il momento di abbracciarci e di salutarci». Dario Fo se ne va, gli altri restano. Per la cena, c’è il banchetto organizzato dai ragazzi di Agraria. «Loro di queste cose se ne intendono». Niente fornelli, tutto già preparato: «Volevamo far pagare qualcosa ma, poi, tutti hanno mangiato praticamente gratis». Così, molti hanno prestato un po’ di sacco a pelo a chi non aveva fatto in tempo a passare da casa. «E poi, non è che abbiamo solo dormito». Tutti accampati col fidanzato? «Libera scuola, libero amore».
|