Si chiamava Stanley Tookie Williams, era un ex teddy boys, un capobanda delle gang di Los Angeles, poi uno scrittore di favole per bambini, un testimone della non violenza, del pacifismo, un candidato al premio Nobel.
Ma nel braccio della morte della prigione di San Quintino, vicino a San Francisco, era più semplicemente l’“inmate C29300”. Inmate vuol dire prigioniero, il numero era il numero di matricola. Lo ha chiamato in questo modo, ieri sera verso le 11,30 (quando qui in Italia erano le otto e mezzo del mattino) la guardia carceraria che lo doveva accompagnare al patibolo. Tookie, che tre ore prima aveva rifiutato l’ultimo pasto, e aveva chiesto un bicchiere di latte, si è girato, si è alzato in piedi, ha spento la televisione che stava guardando per l’ultima volta nella sua vita di bandito e poeta, ha offerto le mani alle manette di plastica, e ha seguito quell’uomo, che con la freddezza del boia gli indicava il suo destino. Era vestito con la tuta blu dei prigionieri, calze bianche e zoccoli. E’ entrato nella sala della morte a mezzanotte in punto. Nella sala, ad assistere, c’erano cinque amici suoi, i parenti delle persone uccise nel 1979 durante due rapine, per la cui morte Tookie è stato condannato (ma si è sempre proclamato innocente) e poi c’era l’avvocato che giorni fa, di fronte al governatore Schwarzenegger, diede battaglia per impedire che a Tookie fosse concessa la grazia. Un certo John Monagan. Magari voi penserete: "Chissà come si sentirà ora questo povero Monagan...". Tranquilli, sta bene, sorride, è sicuro di avere fatto il suo lavoro come si deve, da vero americano. Stanley Tookie a mezzanotte e tre minuti si è arrampicato sul letto della morte. Senza dire una parola, senza una smorfia, senza un gesto di stizza, rabbia, furia o paura. Si è steso. Due infermieri lo hanno legato stretto con delle strisce di cuoio bianche, alle caviglie, agli stinchi, sul petto e sul collo. Poi gli hanno immobilizzato del braccia con dei lacci. A mezzanotte e cinque hanno cercato di infilargli un ago in una vena del braccio destro, e l’ago era collegato a un tubo, e il tubo a un flacone di veleno. La vena non si trovava. Sono passati i minuti, cinque minuti, dieci minuti: niente. Tookie ha cercato di alzare la testa, per vedere cosa succedeva. Ha bofonchiato qualcosa, e poi ha incrociato il suo sguardo con quello di Barbara Becnel, la sua amica del cuore, che lo ha seguito in tutti questi anni. Ha provato a dire delle parole, guardandola, ma non si sentiva. Barbara ha sorriso, ha alzato le mani, gli ha lanciato un grido sottovoce: "Ti benedica Iddio, Stanley, ti amo, ti amo, noi ti amiamo...". Alle 12 a 15 minuti gli infermieri - ma sì, chiamiamoli infermieri! - hanno trovato la vena. Stanley Tookie ha chiuso gli occhi, poi ha iniziato a sussultare, è stato scosso dalle convulsioni e dai rantoli per venti minuti. Lo hanno dichiarto morto a mezzanotte e trentacinque. Chi era Tookie? Ai giudici, a quelli della corte suprema, al governatore Schwarzenegger, alla maggioranza degli americani, e persino dei colti e moderni californiani, fregava un fico secco di chi fosse Tookie. Cosa sapevano di lui? Che a venticinque anni, un quarto di secolo fa, si era messo alla testa di una banda di violenti, i Crips, anzi l’aveva fondata lui, giovanotto nero, muscolosissimo, aggressivo, arrabbiato. Davvero aveva sparato a della gente durante una rapina? Lui dice di no, i processi - come quasi tutti i processi contro i neri poveri, in America - erano stati un po’ manipolati dall’accusa; Tookie non aveva i soldi per pagarsi grandi avvocati, sembra che non fosse riuscito neppure a portare in aula i testimoni a difesa. In prigione aveva studiato, letto, pensato. Aveva cambiato profondamente la sua mente e i suoi sentimenti e le sue passioni. Per vent’anni si era occupato solo di due cose: i bambini e la propaganda contro la violenza. Era stato nominato candidato al premio Nobel. Processi d’appello, altri processi d’appello, e poi altri, altri, altri. Tutte condanne. E’ sempre così in America. Vincere un appello è quasi impossibile: in primo grado è l’accusa che deve dimostrare la tua colpa, in appello devi dimostrare tu che sei innocente. Che il giudice si è sbagliato o che ha imbrogliato. E come si fa? Ci vogliono i soldi, gli investigatori, i testimoni, le confessioni. E poi lo conoscete un giudice che tanto a cuor leggero dirà: "Si il mio collega ha truccato il processo?". Alla fine la richiesta della grazia. Chi doveva decidere, a suo insindacabile e personalissimo giudizio, era il governatore. Lo conoscete tutti, lo avete visto al cinema, fare il buono, il cattivo, il poliziotto, il bandito: Harold Schzwarzewnegger. Ha convocato gli avvocati di Tookie e quelli dell’accusa, ha ascoltato, poi ci ha pensato un po e ha detto di no. Ha detto che Tookie non ammette la sua colpa, dunque non si è pentito, dunque non può essere perdonato. Elementare: chi non è colpevole non è degno della grazia. Harold Schwarzenneger è stato portato alla carica di governatore della California dal “Clan Kennedy” (sua moglie è una Kennedy), e il Clan Kennedy, tra meriti e demeriti, aveva sempre avuto un fiore all’occhiello: il ripudio della pena di morte, netto, per ragioni di principio, al costo di rimmeterci voti. Il fiore all’occhiello si è appassito. Volete che commentiamo questa notizia? E che commento si può fare? Dobbiamo dire che Harold Schwarzenegger è un assassino? Certo che lo è, chiunque lo capisce. di Piero Sansonetti (mercoledì 14 dicembre)
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