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la nuova legge sulla droga
by riflessioni Thursday, Feb. 09, 2006 at 6:41 PM mail:

riflessioni dell' avv. Carlo Alberto Zaina

PREMESSA
Con il d.l. 6927, provvedimento emendato di conversione del d.l. 30.12.2005 n. 272, approvato definitivamente oggi dalla Camera dei Deputati, si sono introdotte profonde modifiche rispetto a talune previsioni normative contenute nel T.U. 309/90.
Sotto il profilo della disciplina penale sono stati interessati dalle modifiche in oggetto soprattutto gli artt. 73, 75, 89, 90, 91 e 94.
Anche altre norme sono state riformate, ma in maniera non significativa.
In questa sede, intendo soffermarmi sul complesso di disposizioni concernenti la fase del giudizio cognitivo, rinviando al mio testo LA DISCIPLINA PENALE DEGLI STUPEFACENTI (Maggioli Editore) in corso di pubblicazione, ulteriori generali approfondimenti e le valutazioni relative alle norme che regolano la delicata fase dell'esecuzione penale (artt. 90 e segg.) il cui fine è stato a parere di chi scrive, del tutto stravolto.
Giovi solo. per quanto riguarda la fase esecutiva, sottolineare che emerge all'evidenza il notevole ampliamento dell'ambito di pena che permette l'accesso al beneficio sia della sopsensione ex art. 90 che a quello dell'affidamento in prova ai sensi dell'art. 94.
La ragione di tale magnanima opzione non è facilmente comprensibile e, in ogni caso, confligge, sul piano della coerenza, con l'intenzione del legislatore di assumere un atteggiamento di severità nei confronti dei reati più gravi in materia di stupefacenti.
L'ampliamento a pene complessive o residue pari a sei anni (quattro anni per coloro che rientrano nella previsione dell'art. 4-bis l. 354/75) favorirà l'accesso ad un beneficio importante (tale addirittura da evitare l'espiazione di pena detentiva) di soggetti che, seppur tossicodipendenti, oggettivamente possono aver tenuto condotte di indubbia gravità o allarme sociale, se, poi, puniti con simile sanzione.
Il timore diffuso è, quindi, che la scelta che si commenta sia deleteria ed improvvida conseguenza del fatto che l'unificazione del trattamento sanzionatorio fra droghe pesanti e droghe leggere comporterà l'inflizione di pene pesanti anche in casi di modestà gravità (tenuto conto anche del nefasto impatto della ex-Cirielli) e, che, pertanto, per ovviare ad stortura evidentissima ed aberrante per tutti (ma non per il legislatore) si intenda temperare gli efeftti che si produrranno nella fase espiativa, onde evitare un assurod sovraffollamento delle carceri con personaggi che in carcere non avrebbero dovuto mettere piede.
Svolte tali premesse e con l'impegno di tornare più diffusamente su questo argomento, si deve passare, pertanto, a considerare le norme di cui agli artt. 73, 75, 75 bis ed 89.
L'art. 73, che era l'architrave dello scheletro penalistico della legislazione sugli stupefacenti, è stato, oggetto di mutamenti talmente rilevanti da stravolgerne senso e finalità.
Preliminarmente alle osservazioni tecniche, che seguiranno, non può tacersi il convincimento che il modus operandi del legislatore, nella specifica fattispecie, lasci francamente imbarazzati e sconcertati sul piano strettamente metodologico.
Chiunque può agevolmente notare la bizzarria consistente nell'introdurre sostanziali ed importanti modifiche alla regolamentazione della materia degli stupefacenti, ricorrendo ad un maxi-emendamento, inserito (meglio sarebbe dire mimetizzato), a propria volta, all'interno di una legge di conversione di un decreto-legge riguardante ufficialmente tutt'altra materia (nella fattispecie le incombenti Olimpiadi invernali di Torino 2006).
Oltre all'evidenziata stranezza cui si è fatto appena cenno (quale attinenza abbiano interventi definiti urgenti in materia di stupefacenti con le Olimpiadi non è dato apparentemente sapersi), non può trascurarsi la gravità e l'opinabilità della decisione di modificare una legge di così rilevante peso nella vita del paese, eliminando totalmente, pretermettendolo, un doveroso dibattito parlamentare, che avrebbe offerto spunti di riflessione ed arricchimento del complesso normativo.
E' noto, infatti, che si è perseguito il disegno di un'immediata e pronta approvazione di una specifica parte del più complessivo disegno di legge (già nell'agenda governativa sin dal 5 Marzo 2004) attraverso il solo voto di fiducia.
La legge, così promulgata, è un mix di contraddizioni e risulta palesemente ingiusta in taluni fondamentali passaggi.
Ciò che maggiormente affligge, però, è la certezza che il legislatore abbia perduto, dimostrando solo miopia normativa ed un immotivata fretta, una seria quanto rara occasione di intervenire in modo da ovviare ad atavici vizi di genericità ed indeterminatezza che affliggevano il T.U. 309/90.
Per converso, come si avrà modo di rilevare, sono stati introdotti altri e diversi elementi di forte incertezza proprio su quel piano del diritto positivo, che, invece, avrebbe dovuto formare oggetto di norma chiare e comprensibili.
Balza all'occhio, immediatamente, la infelice dizione della lett. a) del nuovissimo comma 1 bis .
Tale norma reintroduce di fatto quella dose media giornaliera, che il referendum del 1993 (1) aveva abolito, in quanto è palese che tra i fini perseguiti con la novella legislativa vi è quello di recuperare alcune norme abrogate con detto strumento consultivo.
Viene posto, infatti, come condizione di punibilità dell'importazione, esportazione, acquisto, ricezione a qualsiasi titolo, nonchè dell'illecita detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, un non meglio identificato criterio quantitativo.
La penale rilevanza della condotta si concreta, quando il dato ponderale risulti superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del consiglio dei Ministri – Dipartimento nazionale per le politiche antidroga -.
Si tratta di un decreto, che dovrà essere approvato in prosieguo.
E', quindi, dimostrato per tabulas che la contestata scelta di delegare all'ambito amministrativo la definizione della soglia di punibilità di talune condotte, di fatto ed in maniera del tutto surrettizia, è viatico per ridare cittadinanza normativa all'abrogato principio della dose media giornaliera, che tante polemiche aveva suscitato nella propria breve esistenza.
In relazione a questa vera e propria restaurazione normativa, si deve dolentemente riconoscere che ci troviamo dinanzi, quindi, ad un atto di imperio, tradotto in attività normativa, la cui discutibilità viene amplificata dalla circostanza che essa si orienta in una direzione del tutto opposta alla volontà popolare e, di fatto, che mira ad imporre il pensiero di una minoranza
Si deve, poi, sottolineare con forza la circostanza che tutti gli operatori del diritto sono rimasti (giustamente) pesantemente perplessi e sconcertati a fronte della decisione di attribuire alla decretazione di un comitato interministeriale l'individuazione della soglia di punibilità di taluni comportamenti, sotto il profilo quantitativo, essenziale ai fini di attuazione della giurisdizione, nonché di tutte le conseguenze ad essa connesse (azione penale, misure cautelari etc.)
Si è, così, inammissibilmente legato il concetto di illiceità penalmente rilevante (e sanzionabile) a provvedimenti di natura prettamente amministrativa.
Il carattere di unilateralità delle scelte del governo rende, inoltre, foretemente dubbiosi sul piano della costituzionalità di una siffatta norma, che introduce un'ipotesi di riserva di legge in materia penale.
La stessa unificazione del trattamento sanzionatorio per le ipotesi illecite penalmente rilevanti, a prescindere dalla tipologia di stupefacente riferibile al soggetto, contenuta nei commi 1, 1 bis e 5 del novellato art. 73, induce a porre seri e concreti dubbi sulla correttezza dell'opzione normativa adottata.
Non è, infatti, per nulla condivisibile la giustificazione addotta dai sostenitori della riforma, secondo i quali si afferma il principio scientifico che non esistono droghe di serie A o di serie B, e che il comune ed eguale trattamento punitivo adottato troverebbe spiegazione inconfutabile nella circostanza che tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope producono effetti negativi e nuociono in maniera indifferenziata e gravemente alla salute.
Si tratta di una considerazione naturalisticamente pacifica sul piano etico (il fenomeno droga non è accettabile e le droghe certamente incidono negativamente sull'individuo), ma non altrettanto su quello dell'applicazione della norma penale, in relazione ai concreti effetti psichici e fisici che esse producono sugli assuntori.
E' indubbia, infatti, che appare ben diversa la reale offensività, per la salute fisica e mentale del soggetto, di un droga quale la cocaina o l'eroina rispetto all'hashish ed alla marijuana.
Da tale osservazione, consegue la necessità imprescindibile di giungere, invece, a definire un principio sia di individuazione, che di graduazione del diverso livello di pericolosità di comportamenti definiti ed accolti come illeciti.
Scelta esattamente opposta a quella operata con la legge in commento.
Or bene, appare indubbiamente chiaro che, ferma l'indiscussa offensività, per la salute e la società, dell'uso e della diffusione di stupefacenti, non si possa porre sullo stesso piano, in relazione alla pericolosità sociale ed ai diretti riflessi penali che ne derivano, sostanze naturalisticamente, biologicamente e chimicamente del tutto diverse tra loro.
L'amplissimo allargamento dello spettro dei soggetti destinatari della pesanti sanzioni, (anche di natura amministrativa) introdotte con il dl 6927, posto che si devono ricomprendere in tale contesto ed accezione anche coloro che, a tutt'oggi, non potevano rientrare nella definizione di tossicodipendenti, in quanto facenti uso di droghe leggere, appare sostenuto da una logica particolarmente contraddittoria.
La novella legislativa, da un lato, risponde ad un orientamento che fa di una scelta totalmente repressiva e della retribuzione della pena rispetto al fatto-reato, la principale (se non esclusiva) risposta al problema della tossicodipendenza, omologando in una inammissibile oggettività, indebitamente, quindi, situazioni fattuali, tra loro differenti.
D'altro canto, invece, nel testo in esame si possono rinvenire tre principali elementi che paiono male armonizzarsi con la patente spinta sanzionatoria, sin qui evidenziata.
1. In primo luogo si deve notare come la pena edittale minima, per i reati previsti dai commi 1 ed 1 bis sia scesa da 8 a 6 anni, stante la conferma nel massimo a 20 anni.
Tale scelta si presta a due ordine di valutazioni.
Da un lato, essa pone il dubbio di una contraddizione non solo di forma, ma anche di sostanza, rispetto all'inasprimento delle sanzioni in relazioni a condotte illecite, sia penali, che amministrative, scopo per il quale la norma sarebbe stata concepita.
Né tale incoerenza normativa può trovare giustificazione nella considerazione, avanzata da taluno, che l'accorpamento, all'interno del medesimo ambito sanzionatorio, di droghe tra loro intrinsecamente diverse, avrebbe imposto al legislatore la necessità di optare per una forma di temperamento della pena minima, in costanza di un evidente generale aggravamento del trattamento punitivo.
Si deve osservare, che il legislatore, infatti, sull'apparente presupposto di volere reprimere il fenomeno degli stupefacenti, avrebbe mutato in toto il quantum di pena previsto dall'art. 73, inasprendo questa (fortemente e globalmente9, sia nei minimi, che nei massimi, in relazione a fatti attinenti a tipologie di stupefacenti (cd. droghe leggere, originariamente inserite nelle tabelle II e IV), che concretano, oggettivamente, una gravità ed un correlativo allarme sociale, di gran lunga minori e diversi rispetto a medesime condotte aventi, però, ad oggetto cocaina, eroina extasy e sostanze analoghe.
Contemporaneamente, sempre il legislatore, invece, avrebbe ridotto, sensibilmente nei minimi la pena, in maniera indiscriminata cioè in relazione a tutte le condotte punibili e, quindi, anche in relazione a fatti di rilevante gravità.
D'altro canto, la sola rimodulazione della pena nei minimi edittali, seppur sin qui criticata, può, ad un più attento esame manifestare un carattere parzialmente positivo, soprattutto in relazione a quelle situazioni border-line, veri e propri spartiacque fra l'ipotesi ordinaria dell'art. 73 co. 1 o 1 bis e quella dell'art. 73 comma 5.
Chi scrive, iinfatti, ha sempre sostenuto come l'innalzamento di pena introdotto dal T.U. 309/90 (8- 20 anni di reclusioni oltre alla multa, contro i 4-15 anni della L. 685/75 oltre alla multa) finisse per penalizzare l'autore di fatti non particolarmente gravi (ad esempio il detentore o il piccolo spacciatore di qualche decina di grammi di droga), ponendolo sulla stesso piano, sotto il profilo punitivo, del soggetto rinvenuto con quantitativi di stupefacente, che, pur non essendo ingenti, apparivano, comunque, cospicui, creando una ingiusta situazione di fatto.
E', quindi auspicabile che l'intervenuto abbassamento della sanzione nel suo minimo edittale, se non altro, possa risultare viatico per giungere a valutazione, in ordine al dosaggio delle pene concretamente da infliggere, che permetta di distinguere situazioni che si posizionano a livello intermedio fra la lieve entità e l'ordinaria previsione normativa, temperando la portata della sanzione prevista.
2. In secondo luogo, balza all'evidenza la novità dell'introduzione del comma 1 bis.
In realtà, tale norma attiene ad una serie di condotte di importazione, di esportazione, di acquisto, di ricezione a qualsiasi titolo e di illecita detenzione, già oggetto di previsione penale (nel previgente comma 1), le quali vengono poste, però, in questa sede, in un composito e disomogeneo rapporto con due tipologie di sostanze.
L'aspetto più rilevante è che, in concreto, con la norma in questione, principalmente il legislatore ha classificato le descritte condotte come compatibili con l'uso personale; da qui la separazione delle stesse, considerate come categorie autonome rispetto ai comportamenti previsti dal comma 1°.
Non si può ignorare la circostanza che lo sforzo di circoscrivere i comportamenti, che possano coniugarsi con il concetto di uso personale, possa apparire positivo, perché sembra mirare a porre un marcato discrimine fra trafficanti-spacciatori ed utenti-assuntori.
Va, però, osservato che, se in quest'ottica, importare, esportare, acquistare o ricevere a qualsiasi titolo ed illecitamente detenere sono comportamenti che possono apparire compatibili con il concetto di uso personale, non si comprende perché mai il comportamento di trasporto non possa venir ricompreso in tale contesto interpretativo
E' incontroverso che il trasporto è condotta che rientra in quell'ambito di condotte riferite alla movimentazione dello stupefacente, di cui fanno parte l'esportazione, l'importazione, l'invio ed il passaggio in transito.
Esso, inoltre, presenta aspetti assai simili alla detenzione, in quanto in entrambe le condotte è identico l'oggetto delle stesse, pur potendosi affermare, talora, che esse, in realtà, si pongono in un rapporto di assorbimento tra un "maius" (assorbente-trasporto) ed un "minus" (assorbito-detenzione).
Le osservazioni che precedono, dunque, attestano sul piano logico la stravaganza della scelta legislativa, posto che l'omogeneità delle condotte in questione avrebbe dovuto indurre a catalogare ed inserire le stesse nel medesimo contesto normativo.
D'altro canto, appare, comunque, valutazione piuttosto discutibile quella per cui condotte come l'importazione o l'esportazione, che, usualmente, presuppongono un'attività finalizzata a traffici inseriti in contesti di criminalità organizzata, (e non differiscono sostanzialmente dalla spedizione in transito, solo per fare un esempio), possano giustificare una presunzione di minus valenza rispetto a talune di quelle di cui al comma 1 e segnatamente rispetto a quella del trasporto.
Ne consegue, quindi, che si deve rilevare come non si sentisse affatto la necessità di addivenire ad un cieco frazionamento dei vari comportamenti, scelta legislativa che rende ancor più farraginosa l'applicazione della norma, proprio per le discrasie squisitamente logiche che la stessa presenta, per l'illogicità di fondo della previsione.
Nè pare particolarmente felice la decisione di richiamare le condotte descritte dall'esaminando comma 1 bis anche in relazione a “….. medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A (2), ove gli stessi eccedano il quantitativo prescritto...”, ipotesi che legittimerebbe una diminuzione di pena da un terzo alla metà.
Si tratta, è bene chiarirlo preliminarmente, di una previsione che si rivolge ad un campo di applicazione indubbiamente limitato, attenendo a medicinali taluni dei quali possono essere utilizzati per il trattamento del dolore severo in corso di patologia neoplastica e degenerativa.
Ad ogni buon conto, con la norma in oggetto, si viene a sancire una presunzione a sfavore dell'inquisito, il quale ove venisse trovato nel possesso (od in altra tra le condotte previste) di un quantitativo eccedente la prescrizione medica, si vedrebbe imputare la illiceità della propria detenzione, la quale viene di fatto equiparata in toto a quella di altra sostanza a fine di spaccio.
Tale presunzione può essere vinta efficacemente, laddove l'indagato assolva all'onere di provare l'assenza di volontà colpevole, posto che la struttura del reato di natura istantanea e spiccatamente dolosa, fa sì che lo sforamento dei limiti quantitativi terapeutici (entro i quali la condotta è ritenuta legittima) possa trovare ragioni esimenti solo quando il soggetto versi in ambito colposo.
Come detto, infatti, il reato è punito a titolo di dolo, sicchè pare di tutta evidenza che la lacunosa prospettazione normativa non preveda la possibilità di ritenere punibile il comportamento del soggetto, in caso di colpa.
Tale opinione non pare possa essere contraddetta o scalfita dalla locuzione “ riceve a qualsiasi titolo ”, in quanto è evidente che con tale espressione si è inteso solamente privilegiare la ragione (o per meglio dire il movente) che sottende all'atto di ricevere e non già l'elemento psicologico che animi il soggetto.
3. Terzo ed ultimo elemento che si intende prospettare a sostegno del vizio di contraddizione che si ritiene affliggere il nuovo testo normativo, consiste nella rimodulazione dei limiti di pena per l'accesso alle misure alternative previste dagli artt. 90 e 94.
Giovi subito rilevare, al fine che ci occupa in questa sede, il cospicuo innalzamento della soglia di ammissibilità per entrambi i benefici.
Si è passati da un limite di quattro anni (quale pena complessiva o residuo di altra maggiore pena) a quello di sei anni.
Il limite di quattro anni è rimasto per quei soggetti nei cui confronti sia stato emesso un “titolo esecutivo comprendente reato di cui all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”, vale a dire personaggi spiccatamente pericolosi o, comunque, di pericolosità acclarata (3), che accedono a tale vantaggio processuale solo se divengano collaboratori di giustizia.
Or bene, appare evidente come questa scelta, che involge la fase dell'esecuzione di pene, concernenti reati commessi dal condannato in dipendenza del proprio stato di tossicodipendente, si ponga in contraddizione proprio con quell'opzione repressiva-punitiva, concretatasi nell'omologazione in un unico e severo trattamento sanzionatorio di tutti i tipi di stupefacente.
Lo Stato, infatti, dapprima, prevede una rigorosa punizione di comportamenti (di spaccio od analoghi) che giudica, in sede legislativa, particolarmente gravi e, quindi, tali da suscitare spiccato allarme sociale; indi, una volta irrogata la sanzione, svuota di significato il principio della certezza della pena, (argomento tanto caro proprio ai propugnatori della riforma) favorendo l'accesso a misure alternative al carcere a persone condannate anche per rilevanti e gravi reati.
Il concetto di gravità del fatto (prodromica e strumentale al concetto di allarme sociale), in uno con il concetto di pericolosità del singolo, non ha, né può assumere, un valore intermittente, venendo invocato ed applicato solo in alcune fasi processuali a scapito di altre.
E' evidente che la pena finale di sei anni di reclusione può essere (come in realtà spesso è) risultato aritmetico di una serie di riduzioni operate dal giudice (in forza della concessione di varie attenuanti e diminuenti) che possono avere permesso di contenere una sanzione detentiva, originariamente di gran lunga superiore a quella in concreto irrogata.
Ciò sta a dire, quindi, che lascia fortemente perplessi la possibilità che persone, che si siano rese autrici di fatti di reato oggettivamente gravi, possano fruire di un così significativo temperamento della fase di espiazione di pena.
Il riscatto del condannato è indubbiamente fine da perseguire, in ossequio al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.
Come si coniuga, però, questo recupero personale e sociale dell'individuo, che abbia delinquito a cagione della propria condizione di tossicodipendenza, con la sua criminalizzazione nella fase cognitiva?
E allora, non è peregrino ritenere che il legislatore – ben consapevole che primo ed immediato effetto della novella possa essere l'aumento sensibile della popolazione carceraria, o, comunque, delle persone in vinculis – abbia tentato di attivare una correlativa valvola di sfogo, consistente nell'accesso del condannato ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo eseguito presso una struttura sanitaria pubblica od una struttura privata autorizzata ai sensi dell'articolo 116.
LO SDOPPIAMENTO DELL'ORIGINARIO COMMA 1 DELL'ART. 73, CON L'AGGIUNTA DEL COMMA 1 BIS.
Il nuovo 73 del testo unico, recitava alla propria rubrica " Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope ”.
Il testo della disposizione di legge attesta il frazionamento dell'insieme delle condotte punibili, prima ricomprese in un'unica soluzione, attraverso la previsione di un inedito comma 1 bis.
Si crea, così, un doppio binario sanzionatorio, giacchè, da un lato vengono previste plurime condotte, le quali integrano sempre e comunque ipotesi di reato, mentre, dall'altro, vengono estrapolati,dal più generale contesto fattuale, alcuni contegni, i quali possono, anche, sfuggire al concetto di sanzionabilità, in presenza di precise condizioni.
Il nuovo art. 73 (4), come si è appena evidenziato separa, quindi, la condotta di chi, sfornito dell'autorizzazione di cui all'art. 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope, pluralità di situazioni rimaste al comma 1°, da quella di chi importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene le medesime sostanze.
Tutte le condotte indicate vengono punite con la medesima pena, essendo stata abrogata la distinzione, precedentemente e costantemente invalsa fra droghe leggere e droghe pesanti.
Con la nuova previsione legislativa, invece, sia gli oppiacei, che i derivati dalla cannabis, che qualsiasi altra droga di derivazione sintetica, vengono ricompresi nella medesima tabella, la I.
La tabella II, invece, attiene a prodotti di natura farmaceutica ed è strumentale ad un'ipotesi di reato soprattutto relativa alla detenzione di quantitativi di farmaci (con componenti di natura stupefacente) in misura eccedente la relativa prescrizione medica.
La nuova pena, che si applica indiscriminatamente a qualsiasi tipologia di stupefacente, è stata diminuita nel minimo edittale, passando da 8 a 6 anni, ferma quella nel massimo che è rimasta di 20 anni.
Il primo comma, quindi, non pare introdurre tematiche di particolare rilievo, posto che in relazione alle diciassette condotte ivi ricomprese non pare esser stata introdotta novità diversa da quelle sin qui indicate.
Viene, comunque, esclusa la possibilità che tali comportamenti possano rientrare in un contesto di liceità, diversamente da quelli che vengono previsti al successivo comma 1 bis.
Il legislatore, quindi, ha ritenuto che solo i comportamenti descritti in tale nuovo comma possano assumere rilevanza penale, determinando la punibilità del soggetto, solo se riguardano sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope che risultano, nel caso concreto, in quantità superiore a quella indicata nella tabella I allegata al presente testo unico ovvero che, per modalità di presentazione, con riguardo al peso lordo complessivo, al confezionamento frazionato o ad altre circostanze dell'azione, appaiono destinate a terzi o comunque ad un uso non esclusivamente individuale.
Appare evidente che il primo criterio discretivo in base al quale valutare l'illiceità solo di queste condotte è quello strettamente quantitativo.
La soglia massima, oltre la quale la condotta di importazione, esportazione, acquisto, ricezione o detenzione, assume rilievo penale, sarà determinata da un decreto interministeriale del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del consiglio dei Ministri – Dipartimento nazionale per le politiche antidroga -.
Si tratta di una metodologia normativa che induce a dubbi di costituzionalità.
Senza invadere il campo del diritto amministrativo, pare di poter affermare che la strutturazione d'insieme del comma 1 bis suscita dubbi in ordine alla sua conformità al principio della riserva di legge dettato dall'art. 25 Cost..
Nel caso concreto, infatti, esso non pare appieno rispettato perchè la legge dello Stato pur indicando i presupposti ed i caratteri del precetto penale, affida, invece, al decreto ministeriale la decisiva determinazione del contenuto dello stesso e stabilisce il quantum di droga, oltre il quale la condotta diviene penalmente rilevante (5).
In concreto si dovrà approfondire (ed è auspicabile una pronunzia sul punto del giudice delle leggi) il problema concernente il fatto che il nuovo art. 1 bis detta una norma penale in bianco, facendo dipendere la punibilità del soggetto inquisito dalla osservanza di disposizioni amministrative emanate con semplice decreto interministeriale.
Si dovrà, quindi, valutare, se sussista per tali ragioni un contrasto con gli artt. 3 e 25, 2° comma Cost. (timore che pare indubbiamente fondato).
La novella, quindi, restaura l'ancient regime, reintroducendo in modo del tutto surrettizio quel concetto di dose media giornaliera che non ha più un riconoscimento legislativo dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, proprio in virtù di una consultazione popolare.
Vanno, poi, richiamati i criteri sussidiari che la lett. a) del comma 1 bis indica sempre al fine di verificare l'uso personale oppure la destinazione dello stupefacente a terzi o comunque ad un uso non esclusivamente individuale.
Sotto la dizione “ modalità di presentazione ”, si ricomprende il peso lordo complessivo dello stupefacente ed il frazionamento del confezionamento della sostanza.
Per quanto attiene al primo si può serenamente affermare che si tratta di una duplicazione del criterio quantitativo prima trattato, posto che è evidente che, se il parametro precettivo della norma è dato da un limite quantitativo, ogni forma o manifestazione di superamento di tale limite integra il reato.
E' evidente, invece, che non si presta a censure del tipo di quelle sin qui esposte, il canone del frazionamento delle confezioni, posto che si tratta di una situazione che classicamente attesta la destinazione a fini diversi da quelli personali dello stupefacente.
Rimane decisamente sul vago, invece, il legislatore con la locuzione “ ad altre circostanze dell'azione ”, in quanto in tal modo si ripropone la delega alla valutazione soggettiva del magistrato.
Anche l'ipotesi riconducibile alla lett. b) e relativa a medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, detenuti, importati, esportati o ricevuti in misura che ecceda il quantitativo prescritto, ha formato oggetto di precedenti valutazioni.
Giovi solamente aggiungere che in caso di verificazione di simile eventualità è previsto che le pene sancite per il comma 1 e per la lett. a) siano diminuite da un terzo alla metà.
Nonostante la usuale approssimatività lessicale, non pare revocabile in dubbio il fatto che si tratti di una ipotesi di reato autonoma (e certamente non di una circostanza attenuante ad effetto speciale), valutata, per il suo carattere di eccezionalità e particolarità, con un parametro di minore gravità.
LE ULTERIORI MODIFICHE AI COMMI 5 E 5 BIS DELL'ART. 73 .
Ferma l'abrogazione del comma 4, che regolamentava l'ipotesi di condotte illecite concerenti droghe leggere, si osserva che l'orientamento ispiratore il dl 6927, ha necessariamente imposto un intervento che rendesse il comma 5 coerente rispetto alle precedenti previsioni.
Non può tacersi, però, che si è persa ulteriormente un'occasione per migliorare, se non addirittura perfezionare una norma importantissima del T.U. sugli stupefacenti, sul piano sostanziale.
In concreto, ad un intervento strutturale sull'impianto normativo del tipo di quello operato – pur nella sua discutibilità – avrebbe dovuto corrispondere una profonda rivisitazione del comma 5 dell'art. 73.
Da un lato, anche alla luce delle nefaste conseguenze derivate in tema di giudizio di valenza fra aggravanti ed attenuanti, in capo a soggetti ai quali sia stata contestata la recidiva ex art. 99/4° c.p., dall'approvazione della L. 5 Dicembre 2005 n. 251, meglio conosciuta come ex-Cirielli, si sarebbe dovuto affrontare, preliminarmente ad ogni altra considerazione, il problema della natura giuridica dell'ipotesi lieve, abbandonando la tesi invalsa secondo la quale la norma in questione integra un'attenuante ad effetto speciale, in favore dell'ipotesi del reato autonomo (6).
Va, inoltre, rilevato come la tesi dell'autonomia di reato trovi, poi, ulteriore elemento di conforto e sostegno proprio nell'art. 7 della novella legislativa, che introduce il comma 5 bis .
Tale disposizione opera un riferimento preciso alla lieve entità, (“….Nell'ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui all'articolo 73, comma 1 bis…”), di modo che appare estremamente forzato ritenere che quella che viene definita un'ipotesi (di reato), possa venire considerata nulla più che un'attenuante.
Mantenendo, pertanto, in aperta quanto immotivata antitesi alla logica, alla ermeneutica nonché al percorso storico della normativa sugli stupefacenti, l'ipotesi della lieve entità nella categoria delle attenuanti, si finisce per ottenere un concreto ridimensionamento della portata applicativa della norma, svuotandola di significato e precludendone una significativa applicazione in un numero elevato di procedimenti.
In secondo luogo si deve osservare che il testo licenziato non presenta alcun tangibile ripensamento ai criteri contenuti nella norma originaria ed una possibile migliore indicazione ed individuazione degli stessi, sì da superare situazioni di palese indeterminatezza, limitandosi, infatti, a richiamare fedelmente la locuzione “la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze”.
Ciò posto, come appena anticipato, si deve osservare, sul piano strettamente tecnico-giuridico che l'ipotesi di lieve entità, in forza della novella normativa, si attaglia con un'unica pena a qualsiasi tipologia di sostanza stupefacente, sicchè unica è le pena – laddove venga riconosciuta la sussistenza della ritenuta attenuante – che è della reclusione da uno a sei a anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.
Di assoluta novità, invece, è il contenuto del comma 5 bis, introdotto dall'art. 7.
Si tratta di una norma che si raccorda con la previsione dell'art. 1 bis, e si applica nei casi di lieve entità.
In buona sostanza, prima facie, il comma 5 bis conferma l'opinione che il frazionamento in due commi delle condotte criminose, (originariamente contenute nel comma 1), risponda al disegno di introdurre un doppio binario, conferendo all'importazione, esportazione, ricezione ed all'illecita detenzione un carattere di minore gravità rispetto a tutti gli altri comportamenti sanzionati.
Ergo, in un contesto di ritenuta ridotta offensività di taluni comportamenti, il giudice, in presenza di persona tossicodipendente o assuntrice di stupefacenti, in caso di condanna all'esito del giudizio o di patteggiamento, potrà evitare che l'imputato, il quale non possa fruire del beneficio della sospensione condizionale della pena e, pertanto, debba espiare in concreto in carcere la pena inflitta, possa convertire la stessa in quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274.
La disposizione pone immediatamente alcuni interrogativi.
A. In primo luogo, ci si deve domandare cosa si intenda con il termine “ assuntore ” di sostanze stupefacenti e di sostanze.
Ci si deve, infatti, porre il problema di quali siano i soggetti che possono venir ricompresi in siffatta previsione o individuzati con tale accezione, e, soprattutto, a quale fine sia stato usato tale termine in vece di tossicodipendenti.
In buona sostanza si vuole comprendere se il legislatore abbia coniato una nuova categoria processualmente rilevante e quali siano i contorni della stessa.
B. Un secondo profilo di meditazione ci viene fornito dal fatto che il legislatore prevede la misura alternativa del lavoro di pubblica utilità, laddove non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena di cui all'art. 163 c.p. (7).
Ci si deve, infatti, domandare cosa abbia voluto intendere la novella legislativa con la locuzione “ non debba concedersi ”.
Vale a dire che, essendo la sospensione della pena causa di estinzione del reato di natura assolutamente discrezionale, posto che il giudice non è affatto tenuto a concedere in maniera automatica il citato beneficio, ci si chiede quali siano i limiti applicativi della norma e se con l'espressione “ non debba concedersi ” si sia fatto riferimento ad alcune specifiche ipotesi quali:
• la sussistenza di una condizione ostativa soggettiva, quale, ad esempio, la circostanza che il soggetto abbia già fruito in precedenza del beneficio,
• la sussistenza di una condizione ostativa oggettiva, quale è l'ipotesi che la pena irrogata non rientri nei limiti sanciti dall'art. 163 c.p.,
• la sussistenza di una valutazione del giudice, il quale ritenga, in forza di una prognosi negativa, l'imputato (che pure potrebbe ottenere la sospensione condizionale della pena) immeritevole di accedere alla causa estintiva.
Pare di poter affermare che il primo quesito debba essere risolto, senza patemi di sorta in senso positivo.
Si tratta di una vera e propria ipotesi di affidamento minore, delibato anticipatamente in sede cognitiva, rispetto alla sede naturale che è quella esecutiva (innanzi al Tribunale di Sorveglianza), in base ad una valutazione complessiva che il giudice deve supportare con adeguata motivazione.
Per quanto concerne il secondo tema, ritiene chi scrive che si debba favorire la tesi dell'applicabilità del beneficio anche a pene superiori a quelle limite per la concessione della sospensione condizionale della pena.
La ragione di tale opinione è assai semplice e logica.
La norma si limita, infatti, a richiamare, da un lato, quale elemento legittimante l'istituto in parola, solo l'ipotesi del novellato comma 5 che prevede una pena che, va da un minimo di 1 anno di reclusione ad un massimo di 6 anni di reclusione.
In pari tempo, sotto altro profilo, il comma 5 bis pone una condizione negativa che consiste nel fatto che, nel caso concreto, non possa concedersi all'imputato la sospensione condizionale, senza, però, esplicitare la ragione di tale diniego e lasciando, pertanto, ampia discrezionalità all'interprete.
C. Altro quesito attiene alla possibilità che il giudice applichi la sanzione alternativa in sostituzione della sospensione condizionale, nel caso non abbia ritenuto l'imputato meritevole del beneficio ed abbia, pertanto, rigettando l'adozione dello stesso.
La rilevanza della questione attiene esclusivamente all'ipotesi del patteggiamento della pena ex art. 444 c.p.p., giacchè in sede di giudizio dibattimentale od abbreviato il giudicante non è vincolato in alcun modo dalle richieste delle parti .
E', infatti, usuale, in sede di definizione di procedimenti penali per il tramite dell'adozione di tale rito alternativo, subordinare – se ve ne siano gli estremi – la pena concordata dalle parti al beneficio ex art. 163 c.p. .
La condizione così apposta è parte integrante e non eventuale del patteggiamento al punto che, il diniego del riconoscimento della causa estintiva del reato – da parte del giudice – inficia in radice il patteggiamento che viene travolto nella sua essenza (8), ai sensi del comma 3 dell'art. 444 c.p.p .
Il rigetto da parte del giudice della richiesta di patteggiamento munita di consenso da parte del P.M. , determina una situazione di incompatibilità del giudicante ex art. 34 c.p.p. (9), sancita dalla Corte cost. con la pronunzia n. 186 del 1992.
E', quindi, possibile per il giudice, che respinga il patteggiamento, non ritenendo possibile la concessione del beneficio della sospensione della pena, a seguito di una propria personale valutazione di meritevolezza del soggetto imputato, concedere – accedendo ad un'ipotesi subordinata formulata ritualmente e tempestivamente dalla parte privata -, invece, la conversione nella misura alternativa in disamina?
Chi scrive ritiene motivatamente di si.
La parte privata che formuli istanza di patteggiamento, prevedendo in tale atto un'ipotesi alternativa, infatti, si prefigura ed accetta preventivamente, la possibilità che il giudicante possa non ratificare il negozio processuale sulla pena nella sua globalità.
Viene, così, offerta dalla parte al giudice un'opzione alternativa, cioè la possibilità di esaminare, contestualmente una prospettazione del modo di definizione del procedimento, parzialmente diversa e che attiene esclusivamente al profilo dell'esecuzione eventuale della pena, ferma la conferma della adeguatezza retributiva della stessa così come suggerita dalle parti.
L'esercizio di una siffatta valutazione non pare, quindi, integrare estremi dell'incompatibilità, in quanto non viene inciso né l'an, né, tantomeno, il quantum poenae e l'implicita responsabilità penale dell'imputato (non si dimentichi che la sentenza resa ai sensi dell'art. 444 è equiparata a quella di condanna).
L'esercizio della descritta delibazione, come detto, involge, quindi, solamente l'adempimento della sanzione proposta ed accettata, presupponendo una globale valutazione in ordine alla pericolosità sociale ed alla prognosi futura dell'imputato.
La prescrizione della conversione della pena in quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, in sostanza impedisce al soggetto l'accesso al carcere e, come tale, pur ponendosi in posizione gradata rispetto alla sospensione condizionale della pena, deve reputarsi, comunque, misura assolutamente favorevole all'imputato.
Per quanto concerne la effettiva applicazione del disposto dell'art. 54 d.l.vo 28 agosto 2000, n. 274 (10), non sorgono particolari problemi interpretativi.
Unica deroga al disposto della citata norma è quella per cui, nel caso che ci occupa, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata, a fronte di un usuale regime che da un minimo di 10 giorni ad un massimo di sei mesi.
Viene sancita, poi, la possibilità che la misura venga adempiuta anche nelle strutture iscritte nell'albo di cui all'articolo 116, previo consenso delle stesse.
E' stata, inoltre, introdotta l'ipotesi di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.
Tale situazione legittima la richiesta del P.M., oppure l'intervento d'ufficio del giudice competente ex art. 279 c.p.p., nella fase cognitiva o del giudice dell'esecuzione, se la sentenza è passata in cosa giudicata, con le formalità dell'incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p., a fini di revoca.
Prima dell'eventuale ripristino della pena oggetto di conversione, il giudice, come detto in contraddittorio, dovrà valutare sia l'entità dei motivi, sia le circostanze della violazione.
Il provvedimento di revoca è ricorribile per Cassazione, ma l'impugnazione non ha effetto sospensivo.
Viene, inoltre, posto un limite all'accesso alla misura alternativa nel senso che la pena non può venire sostituita dal lavoro di pubblica utilità può per non più di due volte.
GLI ILLECITI AMMINISTRATIVI PREVISTI DALL'ART. 75 E DALL'ART. 75 BIS.
LE DISPOSIZIONI DI CUI ALL'ART. 75.
La recentissima riforma ha rivalutato e conferito una posizione di spiccata importanza alle disposizioni di cui all'art. 75 (11).
La norma ripropone al comma 1° sanzioni già contenute in precedenza, stabilendo, un lasso di tempo che va da un minimo di un mese ad un massimo di un anno.
Le cd. sanzioni amministrative previste si compendiano nella:
a) sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla (in proposito va ricordato che il comma 3° descrive le modalità del possibile immediato ritiro del documento e prevede, altresì, la possibilità dell'ulteriore fermo amministrativo di motoveicoli per un periodo non superiore a 30 giorni);
b) sospensione della licenza di porto d'armi o divieto di conseguirla;
c) sospensione del passaporto e di ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli;
d) sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o divieto di conseguirlo se cittadino extracomunitario.
Va segnalato, inoltre, che il legislatore ha solo aggiunto alla vera e propria sospensione di documenti autorizzativi già rilasciati, il divieto, di natura preventiva, di ottenere gli stessi nel periodo di interdizione.
Alle sanzioni principali sin qui indicate, la norma affianca, con il 2° comma, anche l'eventuale invito a seguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo, o, comunque, un programma ad personam di recupero.
Il procedimento amministrativo è di competenza prefettizia.
Si ritiene che, in clima di riforme, che meglio sarebbe stato conferire l'incarico di definire le vicende non penalmente sanzionabili ad un organo giudiziario, quale il giudice di pace, ad esempio.
E', infatti, fondata la considerazione che simili vicende, che comportano una sanzione, che necessitano, comunque, un contraddittorio, al fine di permettere all'interessato l‘esercizio del diritto di difesa, che postulano una decisione (archiviazione o inflizione di sanzione), la quale presenta rilevanti analogie con il procedimento giurisdizionale, che involgono delicate problematiche di fatto e diritto rispetto alle quali il giudice è indubbiamente soggetto qualificato e specificatamente preparato, ben avrebbero dovuto (e potuto) essere delegate alla Magistratura.
Sarebbe stato, pertanto, sufficiente qualificare le cd. sanzioni amministrative come misure interdittiva accessorie, stabilendo in principalità la sanzionabilità dei comportamenti in questione per il tramite di una pena pecuniaria, per potere dare corso ad un procedimento, rapido, serio e rispettoso dei diritti dell'interessato.
Anzi, sarebbe stato sufficiente mutuare la procedura dell'art. 13 comma 5 bis del d.l.vo 286/98, in materia di espulsione del cittadino extracomunitario, se non, addirittura, ispirarsi a quella sancita dall'art. 391 c.p.p. (12) (in tema di convalida dell'arresto e del fermo dell'indagato) per poter coniugare speditezza del procedimento, tutela della collettività e garanzie per l'interessato.
Sarebbe stato sufficiente stabilire che il provvedimento reso dal Giudice di Pace all'esito dell'udienza di convalida e di applicazione delle misure è ricorribile per Cassazione (con effetto sospensivo del ricorso) per costruire un iter procedimentale scevro da bizantinismi di sorta e veramente efficace.
La struttura e lo sviluppo del procedimento, quindi, non pare proprio informato a criteri di rapidità e snellezza.
Per fare un primo evidente esempio, i termini per la convocazione della persona e l'inizio del procedimento in contraddittorio, che avviene con notifica di ordinanza ad hoc sono stati, infatti, allungati, in quanto si è passati, dai 5 giorni del comma 6° della precedente formulazione, agli attuali 40 giorni, decorrenti dalla ricezione della segnalazione da parte degli organi di polizia.
Non si comprende, inoltre, se il Prefetto nell'ordinanza possa (o debba) preventivamente indicare all'interessato con la notifica della convocazione gli eventuali termini e la ipotizzata durata della sanzione che si intende irrogare, si da poter favorire una di lui difesa anche in relazione all'an ed al quantum della sanzione e non solo rispetto all'infrazione.
Viene, indi, riconosciuto all'interessato l'esercizio della facoltà di inviare scritti e memorie difensive (ai sensi dell'art. 18 L . 689/81), a sostegno, o in vece della vera e propria presentazione personale.
Entro 150 giorni dalla ricezione degli scritti o dalla comparizione personale dell'interessato, l'autorità, nel caso in cui si reputi di dover irrogare sanzioni, in forza del giudizio di fondatezza dell'accertamento, escludendosi, così, il ricorso all'archiviazione del procedimento, emette una nuova ordinanza di convocazione, cui segue, in caso di mancata comparizione l'inflizione delle sanzioni di cui al 1° comma.
I provvedimenti di convalida dell'accertamento e di ulteriore convocazione innanzi all'autorità prefettizia si assumono impugnabili di fronte al Giudice di Pace, oppure, in caso di persona minore di età dinanzi al Tribunale dei Minori, competente per territorio in relazione al criterio sancito dall'art. 13 (luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio dell'interessato e, ove questi siano sconosciuti, luogo ove e` stato commesso il fatto).
Pare, quindi, di poter sostenere che proprio tale passaggio procedimentale, renda particolarmente farraginosa e macchinosa la procedura, posto che questo ricorso al Giudice di Pace avrà ad oggetto solo la convalida e l'invito a comparire.
Si tratta, quindi, di una procedura giurisdizionale affatto diversa e distinta da quella riportata al successivo comma 9, dove viene, invece, prevista la facoltà di proporre opposizione entro il termine di dieci giorni dalla notifica stessa, davanti al Giudice di Pace, e nel caso di minorenne al Tribunale per i Minorenni, competente in relazione al luogo come determinato in prosieguo, avverso il decreto con il quale il prefetto irroga le sanzioni di cui al comma 1 e eventualmente formula l'invito di cui al comma 2,
Appare evidente, onde permettere il corretto espletamento della facoltà di impugnare, che il provvedimento amministrativo impositivo la misura (o le misure) dovrà constare della precisa indicazione della o delle sanzioni che il Prefetto ritiene dover infliggere all'esito del contraddittorio instaurato e che è certamente obbligo dell'ente amministrativo, quello di munire l'atto di una motivazione adeguata e congrua, necessaria in ipotesi un così grave provvedimento, il quale incide (e non poco) nella sfera del cittadino.
Con i commi 6 e 7 dell'art. 75 vengono sanciti due principi attinenti al diritto di difesa della parte privata.
Da un lato,si circoscrive l'ambito di utilizzabilità degli accertamenti svolti al solo procedimento amministrativo, dall'altro si riconosce il diritto del cittadino ad accedere alla visione ed estrazione di copia degli atti che lo riguardino.
Meritevole di segnalazione è il comma 8, che riguarda il caso in cui la violazione sia stata compiuta dallo straniero maggiorenne e che prevede la comunicazione al questore territorialmente competente.
Le sanzioni inflitte possono essere revocate prima della loro naturale espiazione, ove venga fornita la prova che l'interessato si sia sottoposto, con esito positivo, al programma di cui al comma 2.
In proposito non si comprende la necessità che tale decisione venga comunicata al questore ed al Giudice di Pace, organi che possono intervenire solo eventualmente.
Più comprensibile sarebbe stato precisare con gli opportuni distinguo che i due organi vengono avvertiti se investiti del problema (il primo in caso di cittadino straniero, il secondo se fosse stata proposta opposizione).
Il procedimento, oltre che con un provvedimento di archiviazione (ove si dimostri l'infondatezza dell'addebito amministrativo mosso) può concludersi con esito favorevole al cittadino, ai sensi dell'art. 14, in ipotesi di particolare tenuità della violazione, essendo la prima volta, vengano a ricorrere elementi tali da far presumere che la persona si asterrà, per il futuro, dal commetterli nuovamente.
In tal caso, quindi, in luogo della sanzione, verrà inflitto un formale invito al soggetto affinchè non faccia più uso delle sostanze stupefacenti.
I PROVVEDIMENTI PREVISTI DALL'ART. 75 BIS.
La norma in questione (13) introduce un regime di misure ulteriori che si applicano alla persona, oggetto dei provvedimenti di cui all'art. 75, che sia stata già condannata, anche con sentenza non definitiva per reati di varia natura (persona, patrimonio, stupefacenti, circolazione stradale) o sottoposto a misura di sicurezza o prevenzione, per un tempo non superiore a due anni.
La norma appare, pertanto, caratterizzata da una propria peculiarità essendo destinata ad personam, cioè a soggetti specificatamente individuati sulla base di una particolare situazione soggettiva (l'essere stati condannati o destinatari di provvedimenti di sicurezza).
Le sanzioni in questioni si differiscono da quelle indicate nel precedente art. 75, per il loro carattere maggiormente affittivo e coercitivo, che - come detto – ricalca chiaramente quello delle misure cautelari personali di natura codicistica.
Si tratta, pertanto, senza dubbio, di vere e proprie misure cautelari, poiché è evidente il loro carattere coattivo e limitativo della libertà personale, nonostante esse vengano applicate dal Questore, sono, però, soggette alla convalida da parte del Giudice di Pace, entro un termine massimo di 96 ore dalla loro esecuzione, che avviene con notifica all'interessato.
Nel caso l'interessato sia minorenne, ai sensi del comma 7, è competente a provvedere agli adempimenti concernenti la convalida il Tribunale per i minorenni, individuato in relazione al luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio.
Resta, però, il convincimento che sia decisione assai opinabile quella del legislatore di affidare ad un organo di polizia (il questore) il compito di applicare, con valutazione discrezionale, una o più tra le misure previste.
Si tratta di un'invasione notevole, di discutibile ammissibilità e costituzionalità, nel campo del potere giudiziario.
Il controllo giurisdizionale da parte del giudice terzo appare, se non altro, passaggio procedimentale doveroso e condivisibile, a fronte di una simile inquietante delegazione di poteri giudiziari alla polizia.
Il Giudice di Pace è, così, chiamato ad operare con grande attenzione una forma di penetrante controllo sia sulla effettiva sussistenza della condizioni legittimanti il provvedimento, sia su quell'obbligo motivazionale, che il 2° comma dell'art. 75 bis impone al questore.
Tale controllo appare ancor più importante sol che si pensi alla circostanza che egli deve anche valutare se la prognosi di pericolosità presunta operata dagli organi di polizia trovi conforto in atti, soprattutto, in relazione a persone che siano state condannate con sentenze non definitive.
Sorge, però, il dubbio che una fase delicata ed importante quale risulta, nella fattispecie, la convalida del provvedimento coercitivo, emesso motu proprio dal questore, possa intervenire inaudita altera parte, cioè che il Giudice possa decidere in assenza di un vero contraddittorio fra le parti, con ciò limitando la possibilità espositiva delle ragioni di opposizione del singolo.
Chi scrive ritiene che un'interpretazione intelligente della norma in oggetto non possa prescindere dal fatto che si verte in ambito di verifica della legittimità e fondatezza di una misura che incide sulla libertà personale del cittadino, diritto costituzionalmente tutelato, la quale nella maniera del tutto atipica sopra evidenziata, viene applicata direttamente ed in maniera assai anomala da un organo di polizia e, solo in una fase successiva, sottoposta al vaglio del giudice.
Deriva, quindi, che laddove si dovesse rilevare nella fase di applicazione del procedimento l'adesione ad una procedura decisoria di convalida de plano, cioè priva di un'auspicabile e necessaria fase ricognitiva diretta che ponga il giudice in diretto rapporto gnoseologico con il soggetto passivo della procedura, permettendo a questi di difendersi in concreto, si dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma – del tutto irragionevole – per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. .
Il Giudice di Pace mantiene il controllo della situazione de libertate, così concretatasi – nell'ipotesi di applicazione della misura – in quanto in progresso di tempo egli può modificare o revocare la stessa su istanza della parte.
Parimenti può essere chiamato a decidere su una richiesta di aggravamento, avanzata dal questore.
Se nel primo caso la decisione (allo stesso modo delle misure previste dal codice di procedura penale) avviene de plano, nel secondo, intervenendo una istanza che contiene un'ulteriore compressione del diritto del cittadino, questi ne deve essere avvisato, onde svolgere le facoltà a lui riconosciute al comma 2.
In quest'ultimo caso si ripropongono nella loro attualità tutti i dubbi e le questioni esaminate in relazione al giudizio di convalida.
L'unico caso in cui non vi devono essere formalità di sorta è quello preveduto al comma 4°, che consiste nella revoca di provvedimenti applicati ai sensi dell'art. 75.
In tale circostanza, che si può verificare, dice la legge, “…quando l'interessato risulta essersi sottoposto con esito positivo al programma di cui al comma 2 dell'articolo 75… ”, vi sarà un effetto di consequenzialità che comporterà in capo al Giudice l'obbligo di revocare la misura adottata, con ordinanza de plano.
Le decisioni del Giudice di Pace, in ordine alla revoca o modifica della misura originariamente adottata, sono – a mente del comma 3 – ricorribili per Cassazione, sicchè sia la parte pubblica, che quella privata possa adire il Supremo Collegio, anche se l'impugnazione non produce effetto sospensivo.
La violazione di una delle disposizioni del comma 1 dell'art. 75 bis, costituisce reato contravvenzionale ed e`punitacon l'arresto da tre a diciotto mesi.
IL NUOVO ART. 89 DPR 309/90.
E' l'arresto domiciliare il fulcro del nuovo regime dell'art 89.
Tale misura va applicata in favore di chi dovrebbe essere attinto da un provvedimento sancente la custodia in carcere, che sia una persona tossicodipendente o alcooldipendente ed abbia già in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell'ambito di una struttura privata autorizzata ai sensi dell'articolo 116.
Viene, così ristretto il precedente sistema che permetteva una radicale revoca della misura della custodia in carcere, o, comunque, l'accesso dell'inquisito anche ad un regime di maggior favore, quale quello previsto dalle misure di cui agli artt. 281, 282 e 283 c.p.p. .
Per il legislatore importanza decisiva riveste il timore che la possibile l'interruzione del programma possa pregiudicare il recupero dell'imputato.
In buona sostanza, se, con la formulazione precedente, l'art. 89 poneva al comma 1° (14), ora sostituito, un evidente, quanto chiaro, limite all'uso della custodia cautelare in carcere, (forma estrema di privazione della libertà individuale) ribadendo il principio che l'uso di tale misura custodiale deve essere giustificato da ragioni di eccezionalità, rimanendo essa una scelta a carattere estremo, in armonia al disposto dell'art. 273/3 prima parte, che recita testualmente “ la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata ” e lasciando ampia libertà al giudice che poteva discrezionalmente valutare la necessità di altra misura meno gravosa, o, addirittura, porre in libertà l'inquisito, ora tale prospettiva viene maggiormente e fortemente circoscritta, atteso che viene posta una sola chiara alternativa al carcere, la quale consiste nell'arresto domiciliare (15).
Rimane, per vero, intatto il limite negativo della sussistenza di cautele eccezionali, condizione che assume un carattere di assoluta prevalenza rispetto ad ogni altra circostanza e che, pertanto, non può subire alcun bilanciamento, spiegando efficacia assoluta.
Anche se in termini maggiormente angusti ed indubbiamente meno soddisfacenti, residua una previsione che si concilia con il più generale disposto dell'art. 275 comma 4° e seguenti del codice di procedura penale (16), in tema di divieto della custodia in carcere ed individuazione e scelta delle misure in relazione al caso concreto.
Dal tenore letterale della norma si deve rilevare, poi, che la misura dell'arresto domiciliare può essere eseguita sia presso il domicilio dell'inquisito, che potrà seguire un piano terapeutico nelle forme del day-hospital, sia con l'accesso ad una struttura residenziale, ove ilo tossicodipendente dimori stabilmente.
Unica deroga viene prevista, ove la persona interessata sia indagata od imputata per uno fra i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, c.p. e nell'ipotesi in cui, senza raggiungere un livello di eccezionalità, possano sussistere particolari esigenze cautelari, l'arresto domiciliare presuppone necessariamente (“è subordinato”) che il programma terapeutico venga svolto in una struttura residenziale.
E', così, previsto, il potere per il giudice di stabilire all'atto della sostituzione della misura o successivamente, eventuali forme di controllo necessarie per accertare che il soggetto adempia al programma di recupero, potendo, inoltre, indicare orari e giorni nei quali lo stesso possa assentarsi per l'attuazione del programma.
Va segnalato che il novellato comma 1° usa la locuzione “persona imputata”.
Nonostante la palese differenza giuridica fra indagato ed imputato, pare di poter dire che l'imperfezione terminologica del legislatore non possa valere ad escludere dal campo di applicazione della norma i soggetti indagati.
Una soluzione opposta restringere abnormemente la fase processuale di intervento della disposizione legislativa, escludendo dalla stessa immotivatamente (ed ingiustamente) la fase delle indagini preliminari e riservando le possibilità previste solo in favore di chi fosse in fase dibattimentale o di udienza preliminare.
La norma perderebbe, così, gran parte della propria significatività.
Si è, così, giunti ad elaborare un testo normativo che ha sancito due condizioni ostative alla custodia in carcere ed autorizzative o la custodia domestica od il trattamento residenziale in struttura riabilitativo pubblica o privata.
Da un lato, si rileva l'effettiva sussistenza di un programma terapeutico di recupero tramite una struttura organizzata.
Dall'altro, si sottolinea il timore che l'interruzione del programma stesso possa pregiudicare il buon esito del progetto.
Analogamente, il comma 2° dell'art. 89 prevede, sempre in favore delle persone già indicate al comma precedente che si trovino sottoposti alla misura custodiale estrema, la possibilità di ottenere la sostituzione della misura – in assenza di esigenze cautelari di natura eccezionale -, a condizione che l'interessato intenda sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura privata autorizzata.
Anche in questo caso l'elemento di novità che si rinviene consiste nella riduzione delle opzioni de libertate, le quali si riducono ai soli arresti domiciliari; puntuale conferma deriva dalla sostituzione della parola “revoca” (della misura cautelare) con la parola “sostituzione”, scelta che significa la permanenza di un vincolo in capo all'interessato.
Viene, poi, riconosciuto anche alle strutture private accreditate ai sensi dell'art. 116 il potere, in precedenza conferito solo ai SERT, di attestare lo stato di tossicodipendenza del soggetto, mentre il tipo di documentazione da produrre non ha subito particolari modifiche.
Vige anche in questa ulteriore ipotesi il vincolo, già esposto e collegato ad una presunzione di pericolosità del soggetto, a che l'inquisito accusato per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, c.p. e, sempre, in situazioni in cui sussistano particolari esigenze cautelari, debba necessariamente essere inserito in una struttura residenziale, elemento che subordina l'accoglimento dell'istanza.
L'insieme di previsioni di cui ai commi 1 e 2 novellati dell'art. 89 incontra, però, un limite nel disposto del successivo comma 4° (anch'esso novellato) (17), il quale oppone alla possibilità di derogare al regime carcerario estremo, la pendenza – a carico della persona che astrattamente possa fruire dell'accesso ai trattamenti terapeutici descritti – di un procedimento avente ad oggetto uno dei delitti di cui all'art. 4- bis L. 26.7.1975 n. 354 18, fatta eccezione di quelli di cui agli articoli 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale purche´non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalita` organizzata od eversiva.
Viene sostituita la previsione precedentemente vigente e che prendeva a parametro i reati ricompresi nell'art. 407 comma 2 lett. a), nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 c.p. p. .
In tale elencazione rientravano :
1) delitti di cui agli artt. 285, 286, 416 bis e 422 del codice penale;
2) delitti consumati o tentati di cui agli artt. 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 dello stesso codice penale;
3) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;
4) delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonche' delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 270-bis, secondo comma, e 306, secondo comma, del codice penale;
5) delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall'art. 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 11;
6) delitti di cui agli artt. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 80, comma 2, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni.
Rispetto a tali previsioni l'art. 4 –bis citato prevede, inoltre i delitti di cui
a) agli articoli 600, 601, 602 e 630 del codice penale,
b) all'articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43.
Si tratta in tutta evidenza di ipotesi di reato di particolare gra vità e tali da suscitare un allarme sociale così rilevante, da giustificare l'ablazione e la compressione massima del diritto del singolo, anche a fronte di un status di tossicodipendenza in capo all'indagato.
La spiccata particolarità della situazione, descritta dai commi 1 e 2 dell'art. 89, è tale e palese al punto che – come si ricava dal disposto del comma 3° - in caso di interruzione dell'esecuzione del programma (o, in alternativa laddove il soggetto mantenga un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione, o quando accerta che la persona non ha collaborato alla definizione del programma o ne ha rifiutato l'esecuzione), può essere disposto il ripristino della custodia cautelare o l'adozione della stessa. Si tratta di una previsione che è rimasta immune ad ogni tipo di modifica o censura e che si è perpetuata anche con l'entrata in vigore del d.l. n. 6927.
Del

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ASSURDO! Elle Thursday, Feb. 09, 2006 at 7:03 PM
giusto bravo Thursday, Feb. 09, 2006 at 6:44 PM
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