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PERCHE' NON SMETTEREMO DI ESSERE ANTIFASCISTI
by collettivo universitario autonomo - Torino Tuesday, Apr. 25, 2006 at 1:40 PM mail:

Per la liberazione di tutte e tutti gli arrestati dell'11 Marzo a Milano, corteo a Torino da pzza Sabotino, passando sotto casa di Dante Di Nanni e fino al Sacrario del Martinetto ORA E SEMPRE RESISTENZA

PERCHE’ NON SMETTEREMO
DI ESSERE ANTIFASCISTI



“Tocca ai giovani continuare sulla strada maestra, ai giovani continuare la Resistenza”
(Giovanni Pesce)




Come già l’altr’anno, anche quest’anno il collettivo universitario autonomo festeggia il 25 Aprile sotto processo. Il 31 Marzo 14 antifasciste e antifascisti dell’Università di Torino sono stati raggiunti da altrettante denunce con accuse come resistenza a pubblico ufficiale, lesioni, tentato delitto. I fatti contestati sono quelli del 28 ottobre 2004, quando una ventina di esponenti del FUAN, l’organizzazione giovanile di Alleanza Nazionale, tentò di occupare l’atrio di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino, per commemorare il nefasto anniversario della marcia su Roma del 1922.
I neofascisti si presentarono verso le 11 del mattino sulle scalinate di Via S. Ottavio, scortati da decine di poliziotti in assetto antisommossa e da agenti in borghese, intenzionati, su ordine del questore, a farli entrare nonostante l’ingresso fosse presidiato dalle antifasciste e dagli antifascisti.
All’ordine di spostarci abbiamo risposto “i fascisti non entrano”.
La polizia ha caricato immediatamente con violenza, l’urto della carica ha spinto parte del presidio all’interno dell’atrio, mentre gli esponenti del FUAN ne approfittavano per varcare la soglia di qualche metro; per alcuni secondi, i corridoi dell’Università erano percorsi da celerini in divisa che colpivano con i manganelli chiunque sostasse nell’ingresso, e da agenti in borghese letteralmente scatenati che cercavano a più riprese di arrestare i partecipanti al presidio antifascista. In un attimo, però, una barricata eretta nell’atrio impediva ai poliziotti di procedere oltre con le violenze e ai fascisti di percorrere i locali dell’Università.
I minuti seguenti sono stati scanditi dalle urla di centinaia di studentesse e studenti, con la solidarietà anche di alcuni ricercatori e docenti, che da dietro la barricata, sbalorditi dall’accaduto, protestavano contro la polizia, sempre più schiacciata a difesa dei fascisti, che, come loro costume, provocavano gli studenti con saluti romani e urla come “boia chi molla”, “viva il duce”, “sieg Heil”, oltre ai consueti epiteti rivolti in particolare alle donne presenti.
Grazie alla pressione degli studenti, che lentamente ma con determinazione hanno iniziato a portarsi oltre la barricata e ad avvicinarsi alla polizia, dietro la quale continuava il vomitevole show nostalgico, la polizia scortava la teppaglia del FUAN fuori dai locali dell’Università, che ancora una volta erano stati difesi dagli studenti antifascisti, ancora una volta liberati da una provocazione xenofoba.
Rivendichiamo con orgoglio di aver organizzato il presidio antifascista del 28 Ottobre 2004, di aver ottenuto il risultato di evitare, insieme alle centinaia di antifasciste e antifascisti presenti, il prolungarsi di uno spettacolo intollerabile di rievocazioni gestuali e verbali del ventennio più buio della storia italiana.
Accusiamo invece la questura di Torino, per aver difeso 20 fascisti anche a costo di fare violenza su studentesse e studenti e di turbare una tranquilla mattinata di lezioni e regolare studio a Palazzo Nuovo; i giornalisti della stampa locale, per aver riportato notizie false sui giornali dell’indomani, verosimilmente tratte di sana pianta dai resoconti della DIGOS.
Accusiamo inoltre la procura di Torino, per aver mostrato ancora una volta, con questa inchiesta, il chiaro disegno di impedire le attività antifasciste nella città di Torino, medaglia d’oro alla Resistenza, incriminando in maniera assolutamente persecutoria tutte e tutti coloro che in questa città ripropongono quotidianamente e senza tregua le pratiche dell’antifascismo, messe in pratica nei luoghi di lavoro, nelle strade, nei quartieri, nelle scuole, nelle Università, per togliere agibilità fisica e politica a chi si vuole erede dell’Italia fascista.


La determinazione che ci porta a non cedere di un millimetro sul terreno dell’antifascismo, anche quando esso ci obbliga a comparire davanti ai giudici, a comparire quasi quotidianamente di fronte ai detestati Carabinieri, a scontare mesi di detenzione, è la stessa che ci portò, lo scorso Aprile, a rivendicare di fronte al Tribunale di Torino la legittimità della manifestazione del 22 Febbraio 2002 a Torino, convocata per impedire lo svolgimento di un congresso dell’organizzazione neonazista Forza Nuova. Quel giorno, a fronte dell’autorizzazione data dalla questura ai fascisti, le antifasciste e gli antifascisti si radunarono a migliaia in Piazza Statuto, scontrandosi con la polizia. In seguito ai fatti di quella giornata 13 antifascisti sono stati condannati a pene che vanno da 5 ai 14 mesi.
Gli episodi di scontro e tensione a Torino, a causa di tentativi da parte dei fascisti di manifestare pubblicamente le loro rivendicazioni xenofobe e la loro identità basata sui massacri della repubblica di Salò e sulla deportazione di milioni di persone nei campi di sterminio, sono sempre stati frequenti. La nostra città ha un comune sentire antifascista, forte di un passato dove la resistenza al regime e all’occupazione tedesca sono state durissime.
Le torinesi e i torinesi sanno quanto sangue costò, alla città di Torino, l’essere antifascista. Sanno quanti furono i torturati, le stuprate, gli impiccati e i fucilati, quanti furono deportati in Germania, anche soltanto quanti partirono e non tornarono per le guerre volute da Mussolini e da Hitler. Ma sanno anche quante perdite ebbero i militi repubblichini, le camice nere, i soldati della Wehrmacht, le SS e i Carabinieri che facevano loro la guardia grazie all’azione delle antifasciste e degli antifascisti.
Non stupisce che nella nostra città vi siano sempre stati episodi di antifascismo militante, anche dopo la guerra; a Torino i fascisti non hanno mai avuto vita facile, per loro non è mai stato facile organizzarsi, marciare per il centro, diffondere le loro idee, le loro visioni del mondo, le loro frustrazioni insanabili travestite da ideologia.
I tentativi dell’estrema destra di alzare la testa sono sempre stati respinti, anche quando essa è stata tollerata dalle istituzioni cittadine, che hanno sempre dovuto confrontarsi con movimenti antifascisti che fuoriuscivano e fuoriescono dall’alveo istituzionale e dal suo antifascismo di facciata.
Quando, il Giugno scorso, due anarchici della casa occupata Barocchio di Grugliasco sono stati accoltellati e feriti gravemente nella notte da una dozzina di teste rasate di estrema destra, le realtà antifasciste hanno preteso ancora una volta di manifestare in centro la loro rabbia, anche a costo di scontrarsi con la polizia. Quando, in seguito a questi fatti, 7 antifascisti sono stati arrestati e molti altri denunciati, 3000 persone hanno sfilato nella Torino blindata della “tregua olimpica”.
Grazie a questa determinazione, oggi Torino è una città dove l’estrema destra stenta a mettere radici, al contrario di città come Roma e Milano. Questa determinazione non verrà scalfita né dai processi, né dalle condanne; e se un’antifascista o un antifascista finiscono in carcere, ce ne sarà una o uno nuovo per le strade di Torino, forte del suo esempio.
Quando parliamo di antifascismo, ci riferiamo a una molteplicità di modi e possibilità di intervento, che devono diventare pratica e patrimonio di tutte e tutti: occorre opporsi in ogni occasione al razzismo strisciante, alla penetrazione delle teorie revisionistiche sul ventennio e sulla guerra, informarsi e informare, vale a dire vigilare, sui tentativi fascisti di aprire sedi, distribuire giornali, organizzare conferenze. Occorre, soprattutto, scendere in strada puntuali quando si deve ostacolare una marcia fascista: così ha fatto il movimento antifascista milanese l’11 Marzo, così faremo sempre se le istituzioni permetteranno le sfilate fasciste nelle città della Resistenza. La manifestazione di Milano ha avuto un costo alto, con oltre 40 arrestati, 25 dei quali sono ancora in carcere, ma ha ottenuto l’obiettivo di scoraggiare i sindaci di molte città ad autorizzare le marce della Fiamma Tricolore, oltre a quello di portare attenzione pubblica sull’esistenza di un problema, come ha dimostrato l’iniziativa presa da un magistrato milanese, che ha incriminato quel partito per manifestazione fascista.
Infine, la strada più importante da seguire per contrastare i tentativi della destra, più o meno estrema, di radicarsi nella società, è quella del conflitto sociale, vale a dire la creazione, l’assecondamento, l’organizzazione di momenti di contrapposizione tra settori sociali colpiti dalle conseguenze del sistema capitalista e fronte istituzionale e di governo, far crescere le lotte, creare scenari di resistenza e speranza, così da organizzare la rabbia diffusa nell’ambito di un progetto di emancipazione, e togliere alle demagogie e ideologie populiste e neofasciste il terreno stesso su cui tentano di attecchire.


Oggi l’estrema destra è in Italia una realtà piccola e divisa, che raccoglie il voto di circa un elettore su 70.
Tuttavia, al di là dello scarso peso elettorale, i gruppuscoli fascisti hanno intensificato le loro attività illegali, cercando di colpire nelle grandi metropoli i luoghi e le strutture della sinistra, le immigrate e gli immigrati, in alcuni casi i centri sociali.
Il 16 Marzo del 2003 Davide Cesare viene ucciso a Milano da tre balordi fascisti; le sue compagne e i suoi compagni vengono aggrediti poche ore dopo dai Carabinieri all’ospedale dove si trovava il suo corpo, insieme a un altro compagno ferito. Da allora nella città di Milano si sono ripetute aggressioni, ancora un accoltellamento, tentativi di incendio di centri sociali, fatti che si estendono anche a Brescia e Bergamo, a Verona.
Anche a Roma, negli ultimi mesi, si sono moltiplicate le aggressioni a frequentatori di centri sociali e Forza Nuova e la Fiamma Tricolore hanno organizzato diverse marce per le strade della città.
Se in Italia l’estrema destra non ha ancora raggiunto il livello di organizzazione e di consenso che ottiene in altri paesi europei, ciò è dovuto anzitutto alla presenza di Alleanza Nazionale e della Lega Nord, partiti che intercettano la gran parte dell’elettorato xenofobo e nostalgico, traducendolo in politiche caratterizzate da un alone di rispettabilità istituzionale. La Lega Nord intercetta e interpreta un’opinione pubblica violentemente razzista e xenofoba, Alleanza Nazionale si fa portavoce di una politica dell’ordine poliziesco e del tradizionalismo culturale, oltre che del tentativo di riscrivere la storia della resistenza in senso revisionistico. D’altro lato, entrambi i partiti ambiscono al controllo duraturo di settori del potere istituzionale, cosa che li porta, soprattutto nel caso di Alleanza Nazionale, a iniziative clamorose volte a convincere l’opinione pubblica della loro distanza dal fascismo come proposta politica. Le leggi sull’immigrazione, sulla procreazione assistita, la repressione dei movimenti, la difesa del potere ecclesiastico e della famiglia tradizionale, i ripetuti attacchi al diritto all’aborto, insieme alla difesa di una politica estera di guerra, rappresentano lo sfondo reazionario dei due partiti, ma a ben vedere qualcosa che li accomuna a tanti altri partiti italiani, alcuni dei quali inseriti nella coalizione a loro avversaria.
Il ruolo che questi due partiti hanno avuto nella storia recente, più che quello di portare il fascismo nelle istituzioni, cosa che non hanno fatto (tanto le destre che le sinistre italiane, a livello parlamentare, sono infatti democratiche, presupposto che la democrazia come sistema di governo non prevede affatto l’archiviazione di metodi e scopi che sono tipici dei fascismi); è stato semmai, insieme ad altri partiti, quello di dare un forte contributo alla diffusione di una mentalità reazionaria che informa gran parte dell’opinione pubblica in Italia, ponendo le basi per possibili futuri consensi ad altri gruppi, che tentino di interpretarli fino alle loro logiche ed estreme conseguenze politiche.
In gran parte dell’Europa questo è già avvenuto. In Germania il Partito Nazionalista Tedesco, la NPD, pur non riuscendo ancora a sedere in parlamento, raccoglie ampi consensi in varie regioni del paese. Dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca, non solo è emerso il problema di una larga parte della popolazione della DDR che si proclamava nazista e aderiva ad associazioni e organizzazioni razziste, ma la stessa ventata di nazionalismo seguita ai fatti dell’ ’89 creò un terreno favorevole alla propaganda nostalgica dei Republikaner, la vecchia destra neonazista della BRD. Gli anni ’90 sono stati in Germania, nonostante i mezzi d’informazione abbiano totalmente oscurato il fenomeno, gli anni della violenta affermazione dei gruppi dell’estrema destra: dal 1990 a oggi circa 160 persone sono morte a causa di questo fenomeno. Le aggressioni a sfondo razziale sono quotidiane in Germania, molto spesso letali. Lo stato ha reagito minimizzando o nascondendo il problema, come fa a tutt’oggi, ma la situazione è estremamente grave: alle elezioni regionali di pochi anni fa la NPD ha raggiunto circa il 20% nella Sassonia e nel Brandeburgo, la regione di Berlino. La capitale stessa è stata teatro di violenze e omicidi negli ultimi anni, di continue marce neonaziste, quasi tutte autorizzate dalla polizia, e addirittura di una manifestazione nazionale dell’estrema destra con 8000 partecipanti il giorno del sessantesimo anniversario della caduta del nazismo, l’8 Maggio 2005. Quartieri come Lichtenberg o Marzahn sono sconsigliati agli stranieri sulle guide turistiche a causa della probabilità di aggressioni a chiunque non parli tedesco; lo stesso quartiere di Friedrichshein, in gran parte abitato da studenti e da una popolazione giovane e di sinistra, è stato teatro negli ultimi mesi di continue aggressioni da parte di fascisti. La NPD ha mantenuto risultati stabili nelle ultime tornate elettorali, ma è riuscita ancora ad aumentare i voti nella regione del Makleburg-Vorpommern alle elezioni di Settembre.
Di analoga gravità è la situazione in Francia. Come noto, il Fronte Nazionale del negazionista Le Pen ha conosciuto, a partire dalla sua fondazione negli anni ’80, una progressiva crescita che lo ha portato ad essere uno dei partiti più votati negli ultimi anni, ottenendo addirittura, in occasione delle ultime elezioni presidenziali, più voti della coalizione di sinistra e sfidando direttamente Chirac per l’Eliseo. Radicato soprattutto presso l’elettorato meridionale e in alcune periferie della capitale, il Fronte Nazionale si presenta come un partito radicalmente diverso e per certi aspetti più moderno della NPD tedesca, essendo un partito di opinione, tutto basato sulla figura del suo leader e sulle sue dichiarazioni pubbliche intrise di sciovinismo, quasi privo di strutture territoriali ma capace di intercettare ampissimi consensi. In occasione delle lotte e degli scioperi contro il governo de Villepen degli ultimi mesi la sezione giovanile del partito, il Front National Jeunesse, ha in più occasioni aggredito studentesse e studenti ai margini delle manifestazioni o nelle facoltà occupate, confermando il suo progetto di porsi come autentico rappresentante dell’opinione pubblica più reazionaria in Francia.
Analoghi movimenti di estrema destra, come noto, esistono in Olanda, in Belgio, in Inghilterra, in Austria dove il neonazista Jorg Haider è stato governatore della Carinzia e ha ottenuto in più occasioni risultati elettorali impressionanti. Ma il bacino di consensi e di attivisti più grande per i nuovi movimenti fascisti è senza dubbio l’Europa dell’est.
Non occorre ricordare le squadre di torturatori e sterminatori in Serbia e Croazia negli anni ’90, le innumerevoli fosse comuni, i campi di concentramento per prigionieri, gli stupri programmati su vasta scala e originati da incredibili idee di proliferazione razziale, le fucilazioni di massa, gli incendi di intere città. A partire dal confine greco e salendo verso nord, una miriade di lingue diverse si intrecciano e si attraversano, raramente seguendo il disegno dei confini nazionali: queste diversità rappresentano oggi il brodo di coltura di infiniti razzismi, che creano un’atmosfera di odio e violenza nelle città dell’est Europa.
Pochi mesi fa il caso dell’omicidio di uno zingaro in Ungheria ha creato una situazione di tensione altissima, in un paese dove è ritenuto normale affermare che i rom “fanno troppi bambini”; nella stessa Russia il fenomeno dell’estrema destra xenofoba, frammisto di richiami alla grandezza del passato nazionale, al tradizionalismo religioso e alla cultura hooligan, è tra i più preoccupanti, come hanno mostrato anche i fatti del Giugno 2002, in occasione dell’eliminazione della Russia dai mondiali di calcio. Poche settimane fa in Polonia, a Varsavia, la manifestazione del Gay Pride è stata occasione per uno dei più impressionanti raduni neonazisti della storia recente: centinaia di donne e uomini hanno dovuto sfilare tra due ali di teste rasate composte da migliaia di individui che li aggredivano e li facevano bersaglio di oggetti e sputi.
L’aspetto preoccupante è legato, oltre alla consistenza numerica e al peso elettorale dell’estrema destra in vari paesi, a quello che si potrebbe chiamare un fascismo diffuso, che non coincide necessariamente con quello concentrato delle organizzazioni specifiche. Esiste un senso comune di ostilità alle idee di sinistra, di solito perché identificate con l’ideologia del socialismo reale, che si lega a una riscoperta di radici linguistiche, costumi tradizionali, identità nazionale. A questo tende ad aggiungersi sempre più spesso il tipico vittimismo venato di revanscismo dove il proprio territorio nazionale viene vissuto come ristretto, mutilato da tragici aventi storici, infestato da presenze straniere che lo guastano e lo deturpano: è il caso dell’Ungheria, della Russia, della stessa Germania (il cancelliere Angela Merkel ha mostrato di nutrire amicizia per le associazioni tedesche dei profughi della seconda guerra mondiale, che non esitano a chiedere la restituzione di territori da parte della Polonia), dei discorsi di Le Pen sugli immigrati e sull’Algeria, della cultura del sangue e della fede nei balcani, delle aggressioni di massa contro stranieri nei paesini del sud della Spagna.
Rispetto a 70 anni fa in Europa non c’è oggi una paragonabile conflittualità sociale, non esiste più il movimento operaio, ma permangono intatte e aggravate le ragioni di insoddisfazione e rabbia che il capitalismo produce. Tutto questo, unito al discredito gettato dall’industria culturale sulle idee internazionaliste, comuniste e cosmopolite e alla cooptazione dei partiti e dei sindacati della sinistra tradizionale nelle dinamiche di mera amministrazione dell’esistente, forniscono un terreno particolarmente adatto alla maturazione di sentimenti fascisti e quindi ai movimenti fascisti.
Oggi la borghesia europea, intesa come l’insieme degli interessi economici materiali legati alla grande industria e alla grande finanza dell’eurozona e dell’Europa orientale, non ha alcun bisogno del fascismo per governare. Le democrazie blindate di Maastricht e di Schengen, dei fili spinati per stranieri e delle torture di Genova sanno fare da sé. In Germania, del resto, l’ascesa della NPD è stata in gran parte ostacolata attraverso l’utilizzo di slogans populisti, nazionalisti e razzisti da parte di tutti gli altri partiti, compresa la sinistra più “radicale”; in Francia l’antidoto a Le Pen viene da molti visto nel più presentabile, altrettanto populista e autoritario, ma democratico, Sarkozy.
Questo non significa che nella situazione di sempre crescente tensione internazionale, di sporadiche ed esplosive rivolte nelle grandi metropoli, di atomizzazione sociale, il futuro non possa mutare rapidamente il quadro, un mutamento che sarebbe propiziato anche da queste tendenze reazionarie e involutive delle democrazie moderne. Non v’è rottura autentica, ai livelli più essenziali del politico, tra fascismo e democrazia rappresentativa. Questi due sistemi di governo sono differenti, assicurano concretamente e realmente differenti modelli di vita individuale e collettiva, ma sono percorsi da importanti analoghe tendenze e rappresentano mezzi di controllo delle tensioni sociali al cambiamento complementari, ma non radicalmente alternative. Entrambi mirano alla conservazione di un sistema sociale basato sulla partecipazione fittizia e sull’esclusione effettiva, entrambi assicurano il mantenimento delle disuguaglianze reali attraverso l’appello alla partecipazione popolare e alla coesione nazionale. Il fascismo è stato, in Italia, in Germania, in altri paesi dell’Europa e del mondo, un sistema di governo basato sull’adesione di larghe masse popolari fanatizzate.
In ogni paese dove si affermò il fascismo, vi fu una parte considerevole della popolazione e della classe dirigente disposta ad accettarlo: questo avvenne in Italia, in Germania, in Spagna, in Francia, nei balcani, in Polonia, negli altri paesi dell’est, come in tante diverse eppure simili esperienze in America Latina. A molti non sembrò vero di poter farla finita con i “rossi”, mentre in molti paesi europei i massacri delle ebree e degli ebrei precedettero, e non seguirono, l’arrivo dei tanks con la croce uncinata.
Il razzismo e la retorica nazionale, la difesa dei valori tradizionali del cristianesimo e della famiglia, uniti allo sdoganamento morale della violenza più brutale, infiammarono gli animi dell’Europa: ovunque fiorirono migliaia di collaborazionisti, si moltiplicarono i pogrom, i militanti di sinistra dovettero guardarsi le spalle ovunque, in tanti furono traditi e consegnati al lager dal migliore amico, dal vicino di casa.
Le fabbriche continuarono a lavorare a pieno regime per la guerra e per il nuovo dominio, i sempre onesti imprenditori continuarono a fare i loro profitti. Gli operai e le operaie continuarono a lavorare, i bambini non ebrei ad andare a scuola, le forze di polizia dei vari paesi a collaborare con i nuovi padroni del mondo.
Quando si dice che occorre non dimenticare Auschwitz, si deve intendere che non si può dimenticare questo. Cioè si deve intendere che per non cambiare, l’Europa è già stata in grado, alcuni anni fa, di cambiare completamente. Non si comprende Auschwitz se non si pensa a tutte le denunce anonime, ai massacri del tutto spontanei nei villaggi rurali, ai discorsi antisemiti dei preti nelle chiese, al conformismo che rese possibile l’impossibile. Non si comprende ciò che fu, e come fu, se non si ricorda il numero di quanti, tra gli ebrei d’Europa, appoggiarono di primo acchito il fascismo, perché esso liberasse l’Europa dai comunisti. La violenza del tutto spontanea che percorse i comportamenti di tanti francesi, tedeschi, slavi, italiani, indirizzata con ferocia contro tutto ciò che veniva indicato come nemico, come diverso, come “debole”, come “inferiore”, non venne dal nulla e, dopo la fine del fascismo, non precipitò nel nulla.


Sono passati molti anni dal 25 Aprile del 1945, giorno dell’insurrezione nazionale antifascista.
Da allora troppo è cambiato, perché il problema del fascismo, in Europa, possa essere affrontato in termini analoghi. Eppure mai sarà cambiato abbastanza, perché non ci si ritenga detentori di un testimone che risale a quegli anni, e ancora più indietro. Percorrere i sentieri della Valle di Lanzo o della Valle di Susa non è indifferente per l’antifascista, così come conoscere i luoghi delle azioni dei GAP, sfilare sotto la casa degli ultimi precisi colpi di Dante di Nanni.
Non è un caso che ogni anno, il 25 Aprile, ci rechiamo, insieme al centro sociale Askatasuna e a tante compagne e compagni, al Sacrario del Martinetto, dove tanti partigiani, a cominciare dal primo comitato militare piemontese del CLN, il 15 Aprile 1944, furono fucilati dalla repubblica di Salò. Non è una mera ricorrenza: è la continuazione di una storia, è sapere da dove si viene, per sapere con certezza, al di là delle differenti sensibilità e storie personali, dove non si vuole più andare. Per questo motivo il 22 Febbraio del 2002 pretendemmo, a costo di gettare nello scompiglio il centro di Torino, di andare a presidiare il Sacrario dalle provocazioni fasciste.
La tradizione dell’antifascismo nella quale ci riconosciamo si dipana dall’esperienza degli arditi del popolo, alle giornate di Parma, alle reti clandestine e dell’esilio, alla partenza delle Brigate Internazionali per la Guerra di Spagna, le battaglie di Madrid e Guadalajara, alle mille resistenze che in Europa e in Africa misero in ginocchio il fascismo, insieme agli alleati e all’Unione Sovietica.
Vero è che a partire dal 25 Aprile 1945 l’antifascismo non è più stato un movimento unitario, e su questo vorremmo con questo documento spendere alcune parole – parole che varranno qualcosa soltanto perché sorgono a seguito di fatti, e sono la promessa di fatti nuovi –, fare alcune considerazioni per chiarire come sia possibile, oggi, che l’antifascismo sia una pratica perseguitata dai giudici e condannata dai partiti, come sia possibile che i repubblichini siano ministri della Repubblica, che la polizia sia disposta a fare violenza per difendere i saluti romani, e che le idee antifasciste vengano usate per giustificare guerre e massacri.
Oggi il tentativo del FUAN di commemorare la marcia su Roma nei locali dell’Università viene difeso con violenza dalla polizia perché Alleanza Nazionale è un partito rispettato, ed è stato difeso con una tale veemenza soprattutto perché, all’epoca, Alleanza Nazionale era partito di governo nell’italietta berlusconiana. Il Rettore cede ovviamente i locali dell’Università perché “ognuno deve poter esprimere pacificamente le proprie idee”, la stessa ragione, verosimilmente, che porta oggi la procura a perseguitare gli antifascisti, colpevoli di andare oltre queste chiacchiere irresponsabili e affermare ciò che chiunque ha potuto vedere con i suoi occhi il 28 Ottobre 2004: una manifestazione fascista, con cori che esaltavano il terzo Reich e saluti romani. Il fatto che Fini abbia apertamente condannato il fascismo, per mettersi in condizione di portare le politiche autoritarie, oscurantiste e razziste ai vertici dello stato, non significa che le (tentate) manifestazioni del FUAN a Palazzo Nuovo non siano in tutta evidenza fasciste. Allora il problema per noi non è che un’organizzazione si chiami Alleanza Nazionale, FUAN, Lega Nord, Fiamma Tricolore, Forza Nuova o Alternativa Sociale: a noi basta che una manifestazione si caratterizzi concretamente in senso fascista e razzista, e ci sentiamo chiamati a impedirla, come si sono sentiti chiamati in quell’occasione a Palazzo Nuovo, e si sentiranno chiamati sempre, tutti i veri antifascisti.


La domanda essenziale, per iniziare a fare un po’ di chiarezza, per comprendere le ragioni presenti dell’antifascismo militante, interroga anche tempi lontani: cosa ha significato il fascismo nella storia dell’Italia?
Secondo i benpensanti è stata una drammatica parentesi che si è chiusa, assolutamente estranea a ciò che l’Italia era prima, e a ciò che l’Italia è stata dopo. Questa tesi, però, non è convincente: historia non facit saltus, più ancora della natura.
Il fascismo fu frutto delle contraddizioni sociali insanabili dell’Italia cosiddetta liberale, dove la guerra aveva messo a nudo, come del resto negli altri paesi coinvolti, la natura prettamente criminale della classe dirigente. Allora, dalle insorgenze nelle campagne del nord all’ammutinamento di Ancona, dall’occupazione della Fiat alle riappropriazioni di terre in Sicilia, le classi operaia e contadina si diedero alla rivolta e al saccheggio, alla distruzione non programmata dello stato. La classe dirigente liberale fu incapace di gestire la situazione, vale a dire di assicurare non tanto il benessere, quanto la sopravvivenza di quella borghesia cha aveva così fortemente voluto la guerra, famiglia Agnelli in testa. La soluzione fu fornita da questo movimento di scappati di casa, volgari criminali e avventurieri spostati, guidati da un uomo che possedeva la giusta mediocrità morale e la sufficiente abilità politica per praticare l’alleanza di ferro tra Monarchia, Chiesa e grande borghesia, e per tenere al bavero chi allora popolava l’aula “sordida e grigia” del parlamento italiano.
La resistenza all’affermarsi del fascismo, che procedette a una lenta ma inesorabile presa del potere reale nel paese con i pestaggi, le torture, gli assassinii di cui tutti sanno, fu portata avanti, oltre che da tutte e tutti coloro che ne vivevano quotidianamente la necessità, da un manipolo di militanti di sinistra ostili all’immobilismo suicida del Partito Socialista, tutto preso a condannare i saccheggi e le insurrezioni e a individuare nel parlamento, nell’esercito e nel monarca gli strumenti per fermare l’avanzata di Mussolini.
E’ contro questi geni che nacque l’Italia comunista, è nell’affermazione dell’antifascismo come lotta dura e senza quartiere, quella portata avanti con successo dagli arditi del popolo, che in più occasioni sbaragliarono le squadracce fasciste; è nell’affermazione della dignità di una resistenza che nacque già allora, in ogni episodio di insorgenza e sciopero antifascista, in ogni resistenza ai fascisti e alle istituzioni italiane che li appoggiavano e li avrebbero fatti stato.
Negli stessi mesi, in Germania, i consigli dei soldati e degli operai organizzati dalla Lega di Spartaco affrontavano strada per strada, a Berlino, i maniaci assassini dei Freikorps ingaggiati dal governo socialdemocratico per la repressione del movimento rivoluzionario, difendendo colpo su colpo un sogno che l’incubo della guerra aveva generato. Quella resistenza finì affogata nel sangue, e la socialdemocrazia tedesca poté poi in tutta calma consegnare la Germania a Hitler. Ma anche là, furono gli sforzi di una resistenza al fascismo nascente, oltre alle lotte contro la guerra, il battesimo storico della soggettività comunista.
Il fascismo fu la risposta organizzata, anche se per molti aspetti imprevista, che le borghesie europee contrapposero al movimento operaio, qualunque espressione politica esso avesse trovato, riformista o rivoluzionaria.
Esso non fu la rottura con la società precedente, ma il mantenimento dello status quo attraverso l’instaurazione di un regime di terrore, che incanalava l’odio e l’angoscia di un’epoca tormentata verso la violenza sistematica e su vasta scala, al servizio di progetti folli di creazione della razza pura o a sogni nefasti di nuovi grandi imperi. Il fascismo è stata la risposta della borghesia europea alla crisi politica e sociale causata dalla prima guerra mondiale. Esso abitava in realtà già le menti, le abitudini, le concezioni, le pratiche della classe politica dirigente e della classe economica dominante che avevano commesso i massacri in nome del progresso in Africa e in Asia a cavallo del secolo, e perseguito con tenacia ed esaltazione il grande massacro organizzato del 1914-1918, che trovò condiscendenti le socialdemocrazie di quasi tutta l’Europa.
Il rifiuto radicale della guerra, la pratica della resistenza antifascista militante e la secessione da quella sinistra che si pose a difesa delle istituzioni e arrivò talvolta ad arruolare il fascismo, sono la cifra della nascita del movimento comunista; in quegli anni si sacrificò un’intera generazione di militanti, soprattutto giovani. E’ a tutte e tutti loro che si deve l’intuizione politica di quella separazione dal socialismo bellicista e privo di respiro trasformatore che animava le socialdemocrazie, un’intuizione che nacque nel vivo della guerriglia antifascista, nella resistenza a una barbarie che doveva ancora oscurare l’Europa intera.


Contro il terrore nero sull’Europa iniziò quindi subito la nuova resistenza, che già poteva contare su quella precedente.
Come ci furono gli ufficiali tedeschi nelle strade, essi furono bersaglio di azioni mirate ad ucciderli. Fu una resistenza ben diversa da quella organizzata dell’armata rossa, dalla guerra in campo aperto dei soldati inglesi e statunitensi; quella fu una guerra che combatteva il terrore con il terrore nelle città, con la guerriglia sulle montagne, era una resistenza clandestina, una resistenza di banditi. Quanti di loro morirono? Non si possono contare.
Molti agirono da soli, spesso anche in contrasto con le organizzazioni politiche di cui facevano parte. Fiaccarono gli eserciti occupanti nel morale, alzarono la tensione nelle grandi città europee, costruirono eserciti partigiani sulle Alpi, sabotarono le comunicazioni, colpirono i convogli, giustiziarono i gerarchi, crearono un immaginario che si diffuse e diede speranza, con le ballate, con le canzoni, con le leggende.
Questa resistenza antifascista variegata, in maggioranza rossa, in gran parte donna, subì le torture, le rappresaglie, gli stupri, e con lei la popolazione civile, che già in quella guerra, come nelle guerre di oggi, era parte in causa, volente o nolente, vittima dei bombardamenti come delle fucilazioni di massa e dei massacri nei fienili. Questa resistenza fu anche la resistenza nascosta e silenziosa di coloro che nelle fabbriche sabotarono la produzione militare, di chi fornì cibo e rifugio ai partigiani, di chi indicò i sentieri e segnalò le pattuglie, di chi infuse speranza e rincuorò i combattenti.
Quella resistenza fu un enorme problema per il nazifascismo, fu un imprescindibile aiuto per i sovietici e gli alleati; ma essendo un fenomeno autonomo, popolare, incontrollato, spontaneo, fu un problema politico altrettanto grande per i vincitori, quanto lo era stato per i vinti.
Il nuovo dominatore a stelle e strisce cominciò subito a usare i suoi servizi segreti per schedare i partigiani, possibili e pericolosi rivoluzionari. D’altro canto, a guerra finita, tanto in Italia quanto in Germania, larga parte del personale fascista e nazista fu riammesso ai posti di comando, e ne vennero sacrificati soltanto i vertici.
In Italia la continuità politica tra la monarchia fascista e la repubblica democratica non avrebbe potuto essere più evidente: molti fascisti mantennero posizioni di potere, quasi tutti vennero presto amnistiati dal partito comunista che controllava il ministero degli interni, mentre la chiesa e l’esercito, istituzioni che avevano sostenuto il fascismo, non furono toccati.
Questo non era quello che la resistenza antifascista portava in sé, come significato di rinnovamento e possibile trasformazione dell’esistente. Qui inizia la diaspora dell’antifascismo.
Il partito comunista italiano si incaricò di convincere tutte e tutti che il socialismo sarebbe arrivato per gradi grazie alla democrazia, che ciò che era prioritario era sostenere le ragioni non della sempre più numerosa e forte classe operaia italiana, ma della burocrazia che dominava nell’Unione Sovietica.
Allora, subito dopo il 25 aprile 1945, finisce la storia di un unitario antifascismo comunista, perché finisce la storia di un unitario movimento comunista, di un’impossibile intesa progettuale tra chi concepì la lotta per la trasformazione dell’esistente come asciutta geopolitica e chi lentamente si stava facendo movimento reale.
L’Italia democristiana, frutto della commistione tra borghesia industriale, ancora una volta, gerarchie ecclesiastiche e organizzazioni mafiose, usò da allora i metodi fascisti, e i fascisti stessi, come stampella di fronte all’assalto delle contraddizioni sociali che sempre più affioravano nella nuova Italia industriale.
Chi si stupisce dei discorsi revisionisti della destra e della sinistra sul 25 Aprile, può ascoltare il discorso tenuto dal ministro degli Interni Maurizio Scelba alla radio di stato il 25 aprile del 1955, per la ricorrenza del decennale. L’appello all’unità di tutti gli italiani intorno al valore fondamentale della patria, superando le “tristi” divisioni di cui il 25 Aprile è simbolo, viene proposto con una retorica che non differisce da quella di Mussolini neanche nei dettagli.
Pochi anni dopo la Democrazia Cristiana tenterà di cooptare nuovamente e direttamente i fascisti del Movimento Sociale Italiano alla guida dello stato, data la crisi di consenso dei partiti al governo. La rivolta di Genova del 30 Giugno 1960, che inaugurerà moti insurrezionali in tutta la penisola, costituì uno dei primi momenti di lotta autonoma operaia in Italia. Allora furono i portuali che a Piazza De Ferrari provocarono la celere di Padova e la affrontarono fino a tarda sera nel centro storico, insieme a quei tanti giovani con le magliette a strisce che inaugurarono il protagonismo politico giovanile dopo la resistenza. Allora non fu certo il partito comunista, né il sindacato, a propiziare la rivolta. Anche se oggi molti “sinceri democratici” guardano con ammirazione agli insorti di allora, anche loro venero perseguitati, processati e scontarono gli anni di carcere dispensati dalla magistratura democratica.
Ancora sul terreno dell’antifascismo, dalla sventata insurrezione dopo il ferimento di Togliatti alle giornate del Giugno e Luglio 1960, inizia ad operarsi in Italia una nuova secessione dalla sinistra istituzionale. A partire dal 1967 i movimenti studenteschi e operai porteranno quella secessione sotto gli occhi di tutti: una secessione che non aveva soltanto né principalmente nell’antifascismo le sue cause e le sue ragioni, ma che ha sempre tenuto alta, contrariamente ai partiti, la pratica – e non la retorica – dell’antifascismo. A Roma gli studenti occupano già nel 1966 l’Università, in seguito all’uccisione dello studente Paolo Rossi per mano fascista, il 27 Aprile. Nel 1968 saranno le studentesse e gli studenti a respingere l’assalto fascista all’Università, ad attaccare in massa il presidio fascista alla facoltà di Giurisprudenza, ad avviare un costume di resistenza attiva a tutti gli attacchi, innumerevoli, gli assassini, gli stupri che le squadracce dell’MSI e degli altri gruppi fascisti praticheranno per tutti gli anni ’70. La nuova coscienza antifascista dovette misurarsi con la quantità di stragi fasciste e di stato che hanno insanguinato l’Italia ancora una volta, tra gli anni ’60 e ’80, per impedirne la trasformazione, e contro questo nuovo fascismo democratico lavorare alla distruzione delle certezze, iniziare la battaglia contro il pensiero unico.
Il movimento dell’autonomia, espressione storica e filosofia pratica della secessione antagonista dalle istituzioni e dall’etica del lavoro, frutto di tutto ciò che di irrisolto vi è nella società italiana, ha dovuto sempre confrontarsi con la problematica dell’antifascismo. L’esplosione del 1977 si originò dal ferimento, a colpi di arma da fuoco, di due studenti della Sapienza di Roma ad opera di fascisti. Anche allora, come nel ’19, nel ’43, nel ’60 – come oggi – le istituzioni italiane reagirono reprimendo gli antifascisti. Non importa se allora il governo era retto anche dal partito comunista: l’antifascismo militante, oggi come ieri, è in Italia un problema per chiunque governi, perché chiunque governi deve governare un paese dove, tanto nelle strade quanto nei palazzi del potere, ci sono fascisti, razzisti, xenofobi, poco importa se in doppio petto o con la testa rasata.
Questa pratica autonoma e militante dell’antifascismo, che non aspetta la benedizione di chi porta la toga o di chi ci dovrebbe educare alle conquiste graduali di una vita prossima ventura, alla non violenza sorvegliata dalla polizia, a vincere la destra facendo finta che non esista, è quella che ci appartiene. Ma oggi questa pratica e questa concezione dell’antifascismo, l’unica che può assicurare l’agibilità politica in Europa ai movimenti – e dare la necessaria continuità a un compito che è storico e non pertiene ai tatticismi e alle valutazioni contingenti – possono affermarsi solo comprendendo e avversando la vuota retorica dell’antifascismo che in Italia come in Germania o in Francia, è propria delle istituzioni.


Come tutti i poteri, anche quello rappresentato dalla nuova repubblica sorta “dalle ceneri del fascismo”, abbisogna di un mito di fondazione. Questo mito di fondazione è la Resistenza. Questo potere si è dotato di tutti i mezzi necessari per la diffusione di questo mito e per la sua difesa dottrinale: scuole, istituti, ricorrenze, associazioni.
Come tutti i miti, anche il mito ufficiale italiano della resistenza contiene del vero, e ha prodotto immaginario e coscienza, ma come tutti i miti in parte mente.
La prima menzogna è costituita dalla teoria secondo cui l’azione della resistenza, unita all’aiuto alleato, avrebbe rinnovato in profondità le istituzioni italiane. Questo non è vero, perché l’aiuto veniva da un alleato che voleva sconfiggere il fascismo, ma non rinnovare l’Italia. La resistenza ha rappresentato una rottura politica inestimabile, è stata la scuola alla quale si è formata una nuova consapevolezza politica, ma non ha tradotto queste tensioni in potere politico effettivo, perché avversari troppo forti avevano un interesse contrario.
La seconda menzogna sta nel raffigurare le istituzioni repubblicane come conseguenza diretta di ciò che fu la resistenza. In realtà le istituzioni repubblicane si originano dall’invito e dall’ordine a tutte le partigiane e ai partigiani di consegnare le armi. Quelli che non lo hanno fatto, realmente o a livello simbolico, non lo hanno fatto nonostante la repubblica. Come potrebbe la repubblica di Andreotti, di Scelba, di Craxi e Berlusconi, delle stragi di stato e mafiose, dei tentati golpe, dello sfruttamento e del paternalismo, del clericalismo oscurantista, essere frutto diretto della resistenza? La resistenza ha pervaso parte delle istituzioni di una tensione rinnovatrice che ha evitato il peggio, ha impedito finora che questo paese ripiombasse nell’oscurità assoluta, ma la resistenza fu ben altro; è ben altro.
Un’altra menzogna consiste nell’asserire che la resistenza fu una lotta esclusivamente patriottica, una lotta tra italiani buoni e tedeschi cattivi. Indubbiamente l’arroganza e la brutalità dell’occupante tedesco fece montare la rivolta. Ma la rivolta fu antifascista. Molti dei partigiani erano già stati stranieri combattenti in Spagna, a combattere contro italiani fascisti a Guadalajara e sulle piane di Aragona. L’antifascismo si autocomprese da subito come internazionalista, i confini non gli sono mai appartenuti. Non era d’altronde anche quella alleata, un’invasione territoriale dell’Italia? Ma i partigiani sapevano perfettamente da che parte stare, perché quella era una resistenza eminentemente politica.
E’ assurdo ridurre la resistenza a patriottismo, perché quella fu la risposta alla soluzione fascista delle tensioni all’emancipazione che lo sviluppo del capitalismo e le guerre avevano portato in Europa. Il 25 Aprile 1945 la maggior parte dei tedeschi non uscì dalle caserme, e la lotta fu tra italiani. I partigiani e la popolazione civile sapevano chi era il nemico in Italia, e le camice nere, i repubblichini e i loro collaboratori – chiunque fossero – furono giustiziati pubblicamente. La resistenza non fu pacifista, non fu non violenta, non fu un pranzo di gala. Soprattutto, oltre a lotta armata contro l’invasore, fu una rivolta contro il fascismo italiano e contro i fascisti italiani, e portò in sé molto spesso il sogno della fine stessa del capitalismo, di regolare i conti con chi aveva portato Mussolini ai vertici dello stato.
Contro tutto questo, lo stalinismo di Togliatti si impadronì del mito, e la resistenza divenne il paravento morale di istituzioni corrotte e autoritarie. Nonostante questo, in Italia la resistenza è sempre rimasta una realtà viva e fertile nella memoria collettiva, e nello stesso partito comunista venne compresa e percepita sempre diversamente rispetto alla rigida ortodossia dei quadri dirigenti. Furono sempre in tanti, in Italia, a non considerare la resistenza come qualcosa di finito, ma come un compito, e a concepire la resistenza italiana come parte di una resistenza molto più ampia e senza confini nazionali, portatrice di un respiro che va ben al di là di essi.
Nulla è più distante da questo respiro, del tono che il presidente della repubblica Ciampi usa ad ogni 25 Aprile al Quirinale, dove tutta la storia della penisola italiana, resistenza antifascista compresa, viene letta in chiave nazionale e patriottica, esaltando valori senili ed escludenti, spesso frutto di vere e proprie forzature storiografiche. Oggi non c’è bisogno di un orgoglio di essere italiani, di amore per una patria in guerra, ma dell’amicizia e della complicità verso chi in Italia non è italiana o italiano, dell’affermazione cosmopolita di una perdita consapevole e matura dell’identità nazionale, su cui proprio i fascismi hanno tanto insistito, in favore di sensi di appartenenza che maturino semmai nella mischia delle lotte per la trasformazione dell’esistente.
Forse proprio il carattere ambivalente del fenomeno storico resistente, come del mito, in bilico tra successo e fallimento, tra carattere nazionale e di guerra civile, tra scontro aperto e azione solitaria, tra rottura e continuità, tra lotta di classe e patriottismo, tra difesa della terra e assalto al cielo, ne preserva una certa vitalità simbolica, la riottosità ad essere vissuta solo come memoria, soltanto come inizio o soltanto come fine di qualcosa.
Chi non si è mai chiesto in cuor suo: ma infine, che cosa è stata la resistenza?
Questa fuggevolezza al concetto è la sua grande forza, ciò che ci permette di vivere in suo nome ancora oggi.
Nei racconti dei partigiani di montagna, dalla Val di Susa al cuneese, vive sempre il riferimento alla libertà che si respirava tra i monti, al silenzio delle vallate, al rumore dei ruscelli; lo stesso silenzio carico di memoria e di promessa che Jean-Marie Straub e Danielle Huillet hanno voluto filmare sull’Appennino tosco-emiliano per il film Fortini-Cani, in una lunghissima sequenza in omaggio alle cadute e ai caduti dell’occupazione nazista, che Franco Fortini lesse come la testimonianza e l’espressione dell’esigenza stessa del comunismo.
Non importa, dopotutto, fare la conta di quanti, tra i partigiani, fossero garibaldini: ciò che traspare dalle testimonianze di tanti di loro è qualcosa di incomunicabile, una tensione indistinta, impronunciabile, impronunciabile come lo è il comunismo, che vive e sopravvive della sua stessa assenza, è qualcosa che non è presente, uno spettro che si aggira.


Oggi si vorrebbe riabilitare la memoria di chi si arruolò nella repubblica di Salò, di chi difese il potere declinante di Mussolini e di Hitler. Oggi si vorrebbe affermare che la vita è difficile e qualcuno sbaglia, e poi si deve perdonare; che dopotutto anche la scelta della camicia nera, tutta intenta a guadagnarsi il saluto del camerata delle SS con le sue torture, era una scelta nobile, una scelta “per la patria”; che il male e il bene sono distribuiti equamente nella storia, e che dunque per ogni malefatta nazifascista, ve ne sarà stata una partigiana; che tanto tempo è passato, che il mondo è cambiato, che occorre riconciliarsi con i reduci e con gli eredi del fascismo.
Noi abbiamo un’altra idea. Noi ci chiamiamo fuori da questo valzer senza dignità, messo in scena da uomini e istituzioni senza dignità.
Noi non permettiamo i saluti romani a Palazzo Nuovo, non permettiamo le commemorazioni della marcia su Roma nella nostra Università.
La coscienza storica ci impone di rendere onore alla memoria partigiana, di non perdere la strada maestra, di continuare la resistenza. Le parole, l’azione e l’esempio di Dante Di Nanni e di Nuto Revelli, il monito e il sacrificio silenzioso di Primo Levi, il silenzio dei morti delle Fosse Ardeatine, delle vittime di guerra, delle vittime dei campi di sterminio, dei soldati alleati o sovietici caduti nello sbarco in Normandia o nella battaglia di Berlino, ci impongono di non fare passi indietro.
Il dovere della memoria è dovere della storia, compito scientifico in continuo farsi, di una storiografia che, in quanto ricerca verace, sia sempre revisionista, sia sempre revisione metodica degli assunti e delle fonti, per accrescere la conoscenza su ciò che accadde in quegli anni di guerra. E’ così che la pratica scientifica diviene anche sforzo militante per la dignità della storia come scienza, contro la quantità di pubblicazioni giornalistiche e provocazioni prezzolate che non possono non essere prive di qualsiasi rigore metodologico e di qualsiasi acribia, frutto unicamente dello sforzo di cancellare il passato per propiziare sempre nuove involuzioni nel presente.
Le ragioni della memoria e di questo compito resistente si connettono inoltre alla lucidità di constatare che questo mondo non è cambiato, che conserva l’espropriazione della fatica e dell’intelligenza, la guerra, il razzismo, la possibilità del fascismo.
In un’epoca dove lo sforzo di chi combatté la barbarie estrema viene usato per giustificare ancora barbarie, per animare l’odio contro popolazioni lontane e i progetti di dominio mondiale, abbiamo il dovere di custodire l’eredità di un rifiuto che si oppose al principio stesso della pedagogia armata sulle popolazioni. Alla teoria della superiorità della razza si sostituisce il principio, di lunga e sanguinaria tradizione, della superiorità politica di una parte di mondo sull’altra, della missione civilizzatrice, del manifest destiny. Ma non è già insito razzismo, in questo aiuto umanitario? Non è sempre presente una superiorità misteriosa, sempre e comunque bianca? I massacri al fosforo, la distruzione delle città, i bombardamenti, la prigionia selvaggia e la tortura ripetono la tragedia della negazione dell’altrui diritto a organizzare e praticare la propria emancipazione, creando al contrario fanatismi privi di lumi, sempre più egemoni nel condurre la legittima battaglia contro l’ennesima alfabetizzazione democratica.
Le potenze democratiche instaurano nel mondo dittature di fatto basate sul potere tribale e sull’ossequio alle più reazionarie ideologie religiose, rendendo manifesto che la lotta non è per l’emancipazione ma per l’accumulazione. Gli eredi della resistenza sono chiamati ancora una volta all’opposizione alla guerra. Le immagini di Abu Ghraib restituiscono come sempre la realtà terribile delle conseguenze di un razzismo non dichiarato, dove la supremazia prende la forma dell’umiliazione del torturato attraverso l’infinita umiliazione del torturatore, e con esso dei governi e delle classi dominanti in guerra.


Questa ennesima persecuzione giudiziaria dell’antifascismo torinese è giunta al termine di un Marzo che ha visto i movimenti antifascisti europei andare all’attacco dell’estrema destra.
L’11 Marzo centinaia di antifasciste e antifascisti sfilavano per il centro di Milano, concesso dalle autorità cittadine al gruppo neonazista della Fiamma Tricolore, dove si sono organizzati negli ultimi anni svariate bande di balordi come il gruppo romano di “Base Autonoma” e quello veneto del “Fronte Skinhead”. Nonostante la repressione di polizia e Carabinieri il movimento antifascista ha percorso il centro della città, chiudendo una sede fascista. A seguito di quella giornata oltre 40 persone sono state arrestate, 25 delle quali sono tutt’ora in carcere. Sfileremo in questo 25 Aprile per le vie di Torino, attraverso Via Dante Di Nanni fino al Sacrario del Martinetto, per chiederne l’immediata liberazione.
Il 16 Marzo a Parigi, al termine di un’imponente manifestazione studentesca, centinaia di studenti si dirigevano verso il Quartiere Latino, affrontando i fascisti del Fronte Nazionale che percorrevano il centro per praticare aggressioni. In quella giornata centinaia sono stati gli arresti da parte della polizia di Sarkozy. Di tutte e tutti coloro che ancora scontano in carcere la repressione di quei giorni e delle giornate di Novembre, che furono giornate di rivolta alle politiche autoritarie e razziste in Francia, chiediamo l’immediata liberazione.
Il 18 Marzo 2000 antifasciste e antifascisti partivano in corteo a Berlino da Frankfurter Tor, attraversando le strade di Friedrichshein fino alla roccaforte della NPD a Lichtenberg, dove le case e i locali dei nazisti venivano fatte oggetto di dileggio pubblico e lanci di petardi e fumogeni.
Questo Marzo ha mostrato che il movimento antifascista europeo non teme un nemico vigliacco per tradizione, che è determinato a opporsi alle politiche di tolleranza dei governi, a negare ai fascisti ogni spazio e ogni agibilità.
In questo 25 aprile non intendiamo dunque soltanto opporci alla persecuzione delle antifasciste e degli antifascisti dell’Università, rivendicando la legittimità della giornata del 28 Ottobre 2004 a Palazzo Nuovo, ma opporci all’inquisizione di chi a Roma manifestò contro Haider nel 2000, di chi a Torino ha affrontato la repressione di stato dell’antifascismo militante la scorsa estate, di chi a Milano lo ha fatto l’11 Marzo, e riaffermare la legittimità di tutta la resistenza antifascista passata, presente e futura, in tutta l’Europa.



Torino, 25 Aprile 2006
COLLETTIVO UNIVERSITARIO AUTONOMO







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Antifascismo e antirazzismo militante ! stop camice verdi ! Wednesday, Apr. 26, 2006 at 11:53 PM
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