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[Biji Kurdistan] Post dinamico
by (((i))) Friday, Apr. 28, 2006 at 8:12 PM mail: italy-editorial[at]lists.indymedia.org

Post dedicato alla raccolta di informazioni, aggiornamenti e approfondimenti


:: leggi la ftr Rivolta popolare e repressione in Kurdistan ::

:: post dinamici - howto ::

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ULTIMI SVILUPPI DELLA SITUAZIONE IN TURCHIA
by uikionlus Saturday, Apr. 29, 2006 at 3:45 PM mail:

ULTIMI SVILUPPI DELLA SITUAZIONE IN TURCHIA
DIHA, 25 aprile 2006


(da http://www.uikionlus.com)


Sono stati formulati e inviati ai tribunali competenti gli atti d’accusa nei confronti di circa 370 persone, che erano state arrestate durante gli scontri avvenuti a Diyarbakir: sono state richieste pene che oscillano da 7 anni e 6 mesi a 15 anni di carcere per la maggior parte degli arrestati. Le accuse riguardano i maggiorenni. Il capo della procura di Diyarbakir ha inviato i fascicoli giudiziari alle sezioni quarta, quinta e sesta dell’Alta Corte Penale della città. Le accuse formulate sono: “Appartenenza a un’organizzazione illegale”, “Attività di propaganda per un’organizzazione illegale”, “Sostegno agli scopi illegali di un’organizzazione” e “Possesso di materiali pericolosi”.


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Congresso Nazionale del Kurdistan: REAGIAMO CONTRO LA GUERRA NEI CONFRONTI DEL KURDISTAN
by Congresso Nazionale del Kurdistan Saturday, Apr. 29, 2006 at 8:58 PM mail:

Congresso Nazionale del Kurdistan: REAGIAMO CONTRO LA GUERRA NEI CONFRONTI DEL KURDISTAN
by Congresso Nazionale del Kurdistan Saturday, Apr. 29, 2006 at 8:57 PM
http://italy.indymedia.org/news/2006/04/1059049.php

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video sul kurdistan
by video Sunday, Apr. 30, 2006 at 2:45 PM mail:

http://www.kurdishuprising.com/Download.htm

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[audio] situazione kurda in turchia e in iraq
by imc ch Wednesday, May. 03, 2006 at 10:57 AM mail:

http://italy.indymedia.org/news/2006/05/1061535.php

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Curdi fra tre fuochi
by peacereporter Saturday, May. 06, 2006 at 7:31 PM mail:

Truppe iraniane bombardano il Kurdistan iracheno e quelle turche si ammassano al confine

http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=5328

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storia del kurdistan nella turchia repubblicana
by giulio gori Monday, May. 08, 2006 at 8:18 PM mail:

articolo pubblicato in AA.VV. "Il paese dei Kurdi, Edizioni DEA, Firenze, 2003

Storia dei Kurdi nella Turchia repubblicana
di Giulio Gori

La prima guerra mondiale segna un tornante fondamentale nella storia del Medio Oriente: il 30 ottobre 1918 l’Impero ottomano, alleato delle potenze centrali, cade definitivamente in mano agli alleati, vincitori della Grande Guerra. Pronti a dividersi le grandi ricchezze a disposizione, Francia, Inghilterra, Italia e Grecia si accordano per la spartizione di un’importante fetta dell’antico impero, comprese le regioni del litorale turco. La delegazione turca a Parigi cerca invano di spiegare che lo smembramento della regione potrebbe portare a dei gravi sconvolgimenti.
Quando il trattato di Sèvres viene firmato, il 10 agosto 1920, l’autorità del Sultano in Turchia è quasi inesistente e il paese è già molto cambiato. Infatti un giovane di nome Mustafa Kemal, divenuto ispettore generale dell’esercito il 15 maggio 1919, solleva il popolo turco affinché si batta contro le forze straniere per affermare l’orgoglio della nazione (turca e kurda). Per questa missione gli stessi “fratelli kurdi” sono invitati a combattere in nome della nazione ottomana e dell’unità religiosa contro gli infedeli. I Kurdi danno un appoggio determinante a Kemal, lottando contro Greci, Armeni e Georgiani. In questo modo perdono l’occasione storica offerta loro dal vuoto politico post-imperiale e dalle concessioni offerte dal trattato di Sèvres: ossia, il riconoscimento di uno stato kurdo indipendente (benché privato dagli inglesi della regione di Mossoul e del suo petrolio).
Intanto, durante la guerra di liberazione della Turchia, i quadri militari turchi già si adoperano per sopprimere ogni attività politica e associativa kurda. Mustafa Kemal aveva parlato di ”uguaglianza”; il primo novembre 1922, il giorno della consacrazione della Repubblica, due anni dopo la vittoria sul Sultano, dichiara: “Lo Stato appena fondato è uno Stato turco”. Il tradimento è consumato. Il Trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, conferma lo stato delle cose e, lasciando alla Turchia la maggior parte del territorio dei Kurdi, non menziona questi ultimi nelle stipulazioni sulla “protezione delle minoranze”, riservata soltanto ai gruppi etnici non mussulmani. Non si citano i Kurdi nel trattato perché (in teoria) da parte delle potenze occidentali vengono ancora considerati sullo stesso piano dei Turchi.
La nuova Repubblica rassicura l’occidente, giacché la rivoluzione kemalista non ha niente a che vedere con quella sovietica, perché è fatta di “modernizzazione” ma anche di “autoritarismo”: lo Stato si fonda su un’intesa economica borghese-feudale, sull’apertura ai capitali stranieri e sul tentativo di modernizzare e laicizzare la Turchia in senso occidentale. Il diritto di sciopero viene proibito, nessuna riforma agraria è prevista. Il 3 marzo 1924 un decreto vieta ogni scuola, associazione o pubblicazione kurda: “Così nello spazio di qualche anno il popolo kurdo di Turchia passa dallo stato di partner uguale e alleato a quello di non esistenza” (Kendal).
Non è difficile a questo punto capire le ragioni che portano il Kurdistan a diventare dal 1925 al 1939 un focolaio di rivolte permanenti. Nel 1925 una grande insurrezione viene condotta da Cheikh Saïd: il Comitato per l’indipendenza kurda già da lungo tempo sta preparando una sollevazione, quando una ribellione popolare spontanea, provocata da eccessi turchi, anticipa tutti; Cheikh Saïd diviene il capo della rivolta e nello spazio di un mese occupa un terzo del Kurdistan turco. Con 8000 uomini impiegati, e l’appoggio della Francia che permette l’utilizzazione delle ferrovie del nord della Siria, la Turchia assedia Diyarbakir e vince i Kurdi. La repressione è durissima: Cheikh Saïd e 52 dei suoi partigiani vengono impiccati; molti leader si rifugiano in Iraq e in Iran; l’esecutivo ottiene i pieni poteri per ristabilire l’ordine; il Partito Repubblicano Progressista viene messo fuori legge e fino alla fine della seconda guerra mondiale la Turchia sarà guidata dal partito unico.
Kemal sostiene che dietro la rivolta kurda, “religiosa e reazionaria”, ci sia l’Inghilterra. Se al di là delle ipotesi la matrice della sollevazione è nazionale (l’obiettivo di Cheikh Saïd è “La creazione di uno stato kurdo indipendente”), senza dubbio c’è una combinazione di molteplici elementi: Hamit Bozarslan (1988) spiega che gli intellettuali kurdi rimangono fino al 1938 in una condizione di subordinazione nei confronti dei capi tribali sperando di poter trasformare una rivolta fondamentalmente tribale in una lotta nazionale; e forse questa “collaborazione, spesso paradossale, tra due forze socialmente nemiche e rivali” è l’elemento che crea “la longevità delle rivolte del 1925, del 1927 e 1930, e del 1936-1938”.
Infatti l’evacuazione di un milione di persone dal Kurdistan, organizzata dal governo dal 1925 al 1928, non arresta la protesta kurda: nell’agosto del 1927 in Libano si svolge un congresso dove tutte le forze kurde si alleano con gli Armeni, e nel 1929 nella regione del monte Ararat comincia una rivolta che si allarga fino a Van e Bitlis. Nel giugno 1930 le forze turche sono respinte dalla zona sollevata; ma grazie all’appoggio dell’Iran (che aveva promesso il proprio sostegno ai Kurdi) queste possono passare attraverso il territorio straniero, accerchiare i ribelli e in tal modo batterli (fine estate 1930). La violenza della repressione è ancora più terribile di cinque anni prima (basti pensare che gli aerei incendiano i villaggi per diversi mesi), e non si estende soltanto alla zona sollevata, ma a tutto il Kurdistan. Un’amnistia è concessa nel 1939 per coprire i crimini contro i Kurdi. Mahmut Esat Bozhurt, ministro della giustizia dell’epoca dichiara: “Il Turco è il solo signore, il solo padrone di questo paese. Coloro che non sono di pura origine turca non hanno che un solo diritto in questo paese: il diritto di essere servitori, il diritto di essere schiavi” (da Kendal).
Il governo turco fissa in quattro punti un piano di deportazioni e di dispersione dei Kurdi: 1)Aumentare la densità dei Turchi nelle regioni kurde; 2)Deportare i Kurdi nelle regioni turche; 3) Libera occupazione delle terre fertili kurde da parte dei Turchi; 4) Evacuazione delle zone poco accessibili.
Dersim è tra le città destinate ad essere completamente evacuate; qui nel 1935 comincia una nuova guerriglia contro i Turchi; nel 1937 il governo usa inutilmente l’aviazione e i gas tossici; nel 1938 la rivolta viene sedata con tre corpi dell’esercito. La reazione si consuma: molti Kurdi vengono bruciati nelle caverne; inizia un controllo sistematico delle campagne.
Dalla nascita della Repubblica al 1939 i massacri e le deportazioni coinvolgono un milione e mezzo di Kurdi. Fino al 1965 la “Turchia dell’Est” resta territorio proibito agli stranieri. L’uso della lingua kurda è vietato. La stessa parola “Kurdo” non deve più esistere; si può parlare al più di “Turchi di montagna”. Viene scritta una versione ufficiale della storia secondo la quale La Grande Nazione Turca discende dai lupi grigi dell’Asia centrale e i Kurdi non sono altro che dei Turchi che per un “incidente storico” hanno dimenticato la propria lingua madre; “Proclamarsi pubblicamente Kurdo […] era considerato come una grave offesa, un atto di separatismo” (Van Bruinessen, 1989).
L’intimidazione che segue le rivolte ha come effetto quello di far desistere i Kurdi da nuovi progetti di ribellione. Per molti anni la situazione in questa regione resterà calma. Tuttavia le deportazioni e la repressione compiute dai valis (i prefetti) saranno sempre costanti.
L’epoca kemalista si conclude col consolidamento di uno stato che, pur affermando di essere “senza classi e senza privilegi”, di fatto sostiene gli interessi della borghesia e dell’esercito; uno stato che, se da un lato cerca di modernizzarsi, dall’altro lo fa a discapito delle libertà democratiche e che dimentica coscientemente di inserire il 20-25% della popolazione nel quadro del suo sviluppo economico.
La Turchia non partecipa alla seconda guerra mondiale e dichiara la propria neutralità; alla fine del conflitto si avvicina alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti (la Turchia farà parte del Piano Marshall e della NATO) e al tempo stesso opera una parziale liberalizzazione dello stato. Nel 1946 il presidente della Repubblica Ismet Inönü apre al multipartitismo; molti partiti vengono creati. Nel 1950, alle prime elezioni libere ed universali, il Partito Democratico d’Adnan Menderès e di Celal Bayar vince; le ragioni della scelta sono chiare: la popolazione (compresa la borghesia) spossata dal potere assoluto dei militari e dal giogo del kemalismo vuole cambiare rotta.
Il Kurdistan dà il proprio appoggio al nuovo partito, che promette una liberalizzazione e una democratizzazione dello stato. Effettivamente i capi kurdi esiliati possono riguadagnare il paese e per la prima volta nelle province dell’Est vengono realizzate scuole, strade e ospedali. Tuttavia è lo stesso governo Menderès che nel 1955 firma il Patto di Baghdad (che diventerà poi il CENTO), un accordo con le altre potenze regionali del Medio oriente in funzione antisovietica e antikurda. Durante gli anni ’50 il rapporto tra stato e Kurdistan resta equivoco: la liberalizzazione permette ai Kurdi di svilupparsi, avviando l’abbandono delle strutture feudali, e di fondare radio e giornali in lingua kurda (si parla di fenomeno di “Estismo”), ma la repressione di queste manifestazioni è sempre costante.
I militari, esclusi dai giochi politici, vogliono riguadagnare la propria influenza originale e per questo nel 1960, approfittando del malcontento delle classi medie per la corruzione del governo e la crisi dell’economia (la Turchia è alla bancarotta, l’inflazione annua è al 220%), compiono un colpo di stato, organizzando il potere sotto un Comitato d’Unione Nazionale. Contro i Kurdi si torna ai metodi di Kemal: 49 intellettuali sono esiliati, stazioni radiofoniche in lingua turca vengono istallate nell’Est, vengono fatte delle leggi per trasferire le persone pericolose, sono creati dei pensionati regionali per dividere i bambini kurdi dalle proprie famiglie sin dalla più tenera età affinché siano turchizzati.
La nuova Costituzione del 1961, che apre di nuovo al parlamentarismo, è tuttavia abbastanza liberale: libertà d’opinione, di stampa, di associazione, di riunione, di creazione di sindacati indipendenti, inviolabilità della persona e del suo domicilio privato. Nel 1963 viene ristabilito il diritto di sciopero. Naturalmente, resta ancora vietato creare associazioni regionaliste, miranti ad attentare all’unità della nazione. Il Partito della Giustizia vince le elezioni del 1961.
Gli anni ’60 rappresentano il momento della radicalizzazione e della presa di coscienza del nazionalismo kurdo: le riviste e i giornali (regolarmente soppressi dopo pochi numeri) che parlano di Kurdi e i successi militari ottenuti da Barzani in Iraq svegliano gli animi di molti strati sociali, dagli studenti alla piccola borghesia, e non più soltanto dei vecchi capi feudali e di qualche intellettuale. Ma il fenomeno più importante di questo periodo è il Partito Operaio di Turchia, un movimento democratico e socialista creato nel 1961 per opera di alcuni sindacalisti, dentro il quale si formeranno i quadri rivoluzionari e progressisti turchi. Nel 1963 il senatore Niyazi Agirnalsi aderisce al POT; così i Kurdi attraverso l’intermediazione istituzionale d’Agirnalsi possono domandare alla Corte Costituzionale l’abrogazione delle leggi anticomuniste e antikurde. La Corte non accetta questa richiesta, ma dichiara che “studiare, insegnare, spiegare e pubblicare e fare delle ricerche sull’anarchismo e il comunismo non cade sotto il colpo delle pene previste da queste leggi”. La conseguenza logica è un’esplosione di pubblicazioni di opere di autori comunisti banditi fino a quell’epoca. I licei diventano così una fucina di rivoluzionari.
Alle elezioni del 1965 il POT ottiene 15 seggi parlamentari in un clima sociale sempre più infiammato: la Turchia dimora nell’inflazione, nella disoccupazione, nell’analfabetismo, nella malnutrizione e, è evidente, questi problemi toccano soprattutto le province dell’Est. Le milizie del Partito d’Azione Nazionalista del colonnello Türkes (il MHP) attaccano la gioventù progressista e, a fianco della polizia politica, le sezioni del POT in Kurdistan. Nella seconda parte degli anni ’60, presumibilmente per reazione a queste pressioni, il POT si trasforma in un movimento principalmente socialista (i socialdemocratici confluiscono nel partito Mihri Belli) e i sindacalisti organizzano un cospicuo numero di scioperi. Al tempo stesso nascono gruppi organizzati della gioventù kurda tollerati dallo stato: il più importante è rappresentato dai DDKO, i Circoli Culturali Rivoluzionari dell’Est, che lavorano per avvicinare i giovani al POT.
Nel 1969 le milizie armate del MHP, sostenute dalla polizia, occupano le facoltà rosse e uccidono alcuni militanti. “Dal 1969 al 12 marzo 1971, 35 persone sono assassinate in questo modo senza che contro gli assassini, conosciuti e identificati, venga fatta giustizia” (Kendal). Nell’ottobre del 1970 il POT adotta una risoluzione con la quale riconosce ufficialmente la realtà kurda, e si impegna a battersi per questa causa; questa risoluzione gli costa lo scioglimento. I dirigenti dei DDKO vengono arrestati. La gioventù kurda comincia susseguentemente a credere che solo la lotta armata possa rovesciare il potere.
Ma sono i militari a rovesciare il governo Demirel il 12 marzo 1971 e ad instaurare lo stato d’assedio, sopprimendo il diritto di sciopero e disciogliendo le associazioni progressiste. Migliaia di Kurdi e socialisti sono arrestati e torturati nei centri anti-guerriglia. Gli scrittori sono condannati a sette anni e mezzo di reclusione per ogni libro sovversivo. Da un punto di vista economico, la dittatura blocca i salari e impone dei forti aumenti dei prezzi, a tutto vantaggio della medio-alta borghesia.
La pressione della popolazione porta nel 1973 a delle nuove elezioni, vinte dal Partito Repubblicano del Popolo di Bülent Ecevit, che nel 1974 decreta un’amnistia generale per rappacificare il paese. I partiti di sinistra si ricostituiscono. Ma il governo Ecevit cade sulla questione di Cipro e, con Demirel, in Kurdistan riprendono le operazioni dei commando.
Nel 1974 nasce il Partito Socialista del Kurdistan di Turchia (PSKT), fondato da vecchi dirigenti del POT. Durante gli anni ’70, quando non è ancora molto conosciuto, diffonde le proprie idee marxiste attraverso a rivista Riya Azadî (Ozgürlük Yolu in turco). Il PSKT si propone come un movimento antimperialista, anticolonialista e antifeudale che vuole la libertà e la democrazia per il Kurdistan, ma rinuncia la lotta armata perché reputa che il momento non sia ancora maturo. Vuole raggruppare forze antimperialiste in un unico fronte, comprendendo i movimenti comunisti turchi, coerentemente col fatto che la sua prima istanza è il marxismo e non il nazionalismo.
Così il moto di protesta monta: diverse città kurde, tra cui la capitale simbolica Diyarbakir, eleggono sindaci nazionalisti; nascono due nuovo partiti: il KUK (Liberatori Nazionali del Kurdistan) e il PKK (Partito Operaio del Kurdistan) di Abdullah Apo Öcalan. Il PKK, nato nel 1978, è un’organizzazione marxista-leninista, legata ideologicamente all’Unione Sovietica, con una forte impronta nazionalista, che fa della lotta armata il mezzo per arrivare alla creazione di uno stato kurdo indipendente e comunista. Si pone in una posizione piuttosto isolata nei confronti degli altri partiti crudi poiché non ammette alcun principio riformista; di fatto il PKK (che, al contrario del PSKT, antepone il nazionalismo al marxismo) non accetta che gli altri movimenti kurdi reclamino l’autonomia della regione: l’indipendenza è il suo primo principio. Öcalan e i suoi Apocular compiono atti violenti contro la destra turca e contro i capi feudali kurdi. In alcuni casi tuttavia si registrano violenze contro gli stessi partiti kurdi di sinistra (si parla di “guerra fratricida”).
Il 12 settembre 1980 l’esercito irrompe ancora una volta nella scena politica turca. Un altro colpo di stato si consuma. Tutti i partiti politici e l’Assemblea sono dissolti, la Costituzione è sospesa. Torture ed esecuzioni si moltiplicano. La lingua kurda viene proibita, anche nell’uso orale. La repressione contro i partiti kurdi, e in particolare contro il PKK, è ferocissima: 86 condanne a morte sono pronunciate tra il 1983 e il 1984 contro i suoi militanti; centinaia vengono arrestati. Öcalan ripara all’estero.
Quando i civili tornano al potere, nel 1983, il PKK è appena uscito dal Congresso di Damasco, nel quale decide di prendere definitivamente la strada della lotta armata. Il governo dispone una operazione di pulizia contro le basi del PKK al di là della frontiera irachena. Nel 1984 in Kurdistan comincia la guerriglia. La Turchia reagisce con forza condannando a morte 22 membri del PKK; nel 1987 mette in piedi un’organizzazione di bande tribali conosciute come “Protettori dei villaggi” e nomina un prefetto regionale con poteri straordinari per le undici province del Kurdistan, in cui si dichiara la legge marziale (che sospende le già fragili garanzie del Codice di Procedura Penale in vigore) e lo stato d’emergenza.
Nello stesso anno il Dipartimento di Stato americano menziona per la prima volta il caso dei Kurdi di Turchia, creando un serio imbarazzo ad Ankara.
Quando nel 1988 i Kurdi iracheni scappano dalla follia omicida di Saddam Hussein e dai suoi gas chimici, i partiti politici turchi guardano con diffidenza, per non dire ostilità, alla loro venuta perché temono, con la sola rilevante eccezione del primo ministro Turgut Özal, che “Questi uomini” (non possono esser chiamati né “Kurdi”, né “Rifugiati”) possano rappresentare una minaccia all’unità nazionale.
Nella primavera 1990 il governo regionale del Sud-Est ottiene tramite decreto poteri repressivi considerevoli. Le città kurde esplodono con delle manifestazioni popolari e uno sciopero generale. Il PKK resta ormai il solo partito kurdo influente, gli altri sono definitivamente marginalizzati.
Nel 1991 finalmente, l’ONU con la risoluzione 688 cita i Kurdi; è la prima volta dal Trattato di Sèvres del 1920 che la parola “Kurdo” viene usata in un documento internazionale.
Dopo la guerra del golfo, nella quale la Turchia partecipa attivamente al fianco delle forze occidentali, il presidente Özal accetta di trattare con Barzani e gli altri Kurdi d’Iraq per far trovare la Turchia preparata ad un eventuale cambiamento di guida politica del proprio vicino e per prevenire, nel caso contrario, un’affluenza di rifugiati paragonabile a quella del 1988. Si tratta di un’apertura storica; viene autorizza anche l’uso orale della lingua kurda (proibito dal 1983). Gli Stati Uniti, pressati dall’opinione pubblica mondiale, intervengono a sostegno dei Kurdi d’Iraq, minacciati da Saddam Hussein. La Turchia è “obbligata” a far usare la base aerea d’Incirlik (vicino Adana) dagli aerei americani, per delle azioni di copertura dei Kurdi Iracheni; ma per i Kurdi di Turchia la situazione non cambia, visto che gli Usa fanno buon viso a cattivo gioco e coprono con un silenzio complice quello che s succede al di qua della frontiera. Oltretutto dall’agosto 1991 i militari turchi approfittano della situazione per intervenire contro le basi del PKK in territorio iracheno.
Nel dicembre dello stesso anno, il primo ministro Demirel riconosce, per la prima volta nella storia della Repubblica, “la realtà kurda”.
Tuttavia i festeggiamenti del Newroz (il capodanno kurdo) del 1992 si trasformano in tragedia: cento civili muoiono e il grande esodo kurdo verso le città dell’Ovest comincia. La guerriglia e la repressione dal 1987 al 1997 fanno più di 12.500 morti. Nella sola città di Sirnak 20mila persone su 25mila sono obbligate a fuggire dalle milizie di Stato. Il Kurdistan è sempre più invivibile. Moltissimi villaggi sono distrutti; i Kurdi di montagna scappano verso le grandi città di tutta l’Anatolia: Diyarbakir, Ankara, Istanbul sono affollate di rifugiati, senza casa, senza lavoro, senza documenti e soprattutto senza alcun diritto.
Turgut Özal ammette l’esistenza di 12 milioni di Kurdi sul suolo turco.
La speranza di una soluzione arriva quando Öcalan decide una tregua unilaterale in occasione del Newroz 1993. Il presidente Özal sembra intenzionato ad accettare la proposta di accordo, ma muore improvvisamente il 17 aprile 1993; così la Turchia perde il solo uomo politico che, per quanto spregiudicato e strettamente legato al mondo militare, sia disposto a percorrere la via diplomatica col PKK e che nello stesso tempo sia capace una certa indipendenza nei confronti dell’esercito (a questo proposito è necessario ricordare che i militari, legati ai valori kemalisti e contrari a una soluzione pacifica del problema kurdo, ricoprono la metà dei seggi del Consiglio Nazionale di Sicurezza - MGK (di fatto l’istituzione più importante della Turchia).
L’8 giugno 1993 il PKK rivendica la morte di 30 soldati turchi e annuncia la rottura della tregua. Il governo turco rafforza l’offensiva contro i ribelli. E la guerra ricomincia… La testimonianza del giornalista americano Jonathan J. Randal, a lungo presente sul campo negli anni ’90, è esemplare: la violenza, ben lungi dal diminuire, è di giorno in giorno più spaventosa; ormai 300mila uomini sono impiegati dallo stato contro i 6mila militanti armati del PKK, con delle conseguenze disastrose per l’equilibrio socioeconomico del Kurdistan e di tutta la Turchia.
Nel corso degli anni ’90 l’offensiva turca contro il mondo kurdo non si attenua, ma al contrario sembra trovare nuova linfa: attraverso azioni “legali” la persecuzione si fa sempre più intensa e raggiunge il proprio apice nel 1994: sentenze di messa al bando di partiti filo-kurdi (Hep e Dep) e distruzioni delle loro sedi, minacce agli elettori con carri armati ed elicotteri a presidiare i seggi elettorali, incarcerazione di esponenti politici e di pacifisti. La pena di morte (seppure in vigore) è ufficialmente inutilizzata dal 1984, ma sotto le maglie della tortura sono in molti a perire o scomparire.
Leyla Zana, eletta in Parlamento nel 1992 nelle file dell’Hep, sarà condannata nel 1994 a 15 anni di carcere (assieme ad altri esponenti kurdi) con l’accusa di essersi dichiarata “kurda” e di aver pronunciato in Parlamento una frase vietata: durante l’insediamento, subito dopo aver giurato fedeltà alla Costituzione (scritta dai militari) aggiunge in turco e in kurdo: “Ho giurato in nome della fratellanza dei popoli turco e kurdo”. Viene salvata dalla pena di morte grazie all’intervento provvidenziale di François Mitterand che minaccia gravi sanzioni; mentre Berlusconi, presidente del consiglio italiano in carica, giustifica la Turchia che a suo dire è penalizzata da “cento deputati comunisti” (da Schrader).
Nel 1995 il PKK (per cercare di ottenere un riconoscimento di stato di guerra e per tentare di farsi riconoscere come forza politica legittima, sottolineando la distinzione da gruppi mafiosi di altri paesi che rivendicano strumentalmente il diritto all’indipendenza) aderisce alla Convenzione di Ginevra, che impone di considerare gli avversari catturati come prigionieri di guerra e che impone, quindi, di liberarli. Ma la Turchia non aderisce alla Convenzione e uccide sistematicamente i guerriglieri catturati, dopo averli torturati per carpire informazioni.
Le offensive dello Stato contro il sud-est del paese continuano in modo massiccio e indiscriminato, visto che dal 1980 la repressione non tocca più i soli oppositori politici, ma è diventata una vera e propria guerra contro un’intera area del paese. A questo programma di omicidi, torture, distruzioni di villaggi e rapimenti eccellenti (anche intellettuali e imprenditori iscritti nella “lista rossa” dei sostenitori dei kurdi) partecipano in prima linea i Lupi Grigi, i gruppi paramilitari mafiosi e aguzzini pagati direttamente dal governo, meglio noti come “Guardiani dei villaggi” (che la direttiva 545 adottata dal Consiglio d’Europa nel 1998 chiederà inutilmente di abolire).
Il ruolo dell’Europa in questa fase non è senza dubbio secondario. Se a Washington già a fine anni ’80 era già stato deciso di definire il PKK come un’organizzazione terroristica, in nome dei buoni rapporti diplomatici col regime di Ankara e dei 15 milioni di dollari in armamenti passati dal 1980 dagli USA alla Turchia, la Comunità Europea si mostra spesso favorevole a una soluzione pacifica della questione kurda. Soluzione che viene fortemente caldeggiata dallo stesso PKK, che nel 1999, anche per non ostacolare i soccorsi necessari ad un terribile terremoto che sconvolge il paese, decide per una nuova tregua unilaterale.
Ma è sul caso Öcalan che l’Europa dimostra la propria inconsistenza politica: il 12 dicembre 1998, il leader kurdo arriva in Italia, dopo un breve soggiorno in Russia. Da anni riparato in Siria, Apo è costretto alla fuga per le pressioni che Turchia, Stati Uniti (con la democratica Madeleine Albright) e Israele (che dal 1996 ha stretto alleanza con Ankara) fanno al governo di Damasco. In Italia l’entusiasmo dell’evento coinvolge anche le comunità d’immigrati kurdi provenienti dall’Iraq, storicamente nemici del PKK, in nome di una unità che sembra poter dare speranze politiche concrete. Ma le pressioni internazionali spingono anche il governo di Roma a far partire Öcalan. Dopo un lungo peregrinare il 15 febbraio 1999 il leader kurdo sarà catturato a Nairobi ad opera del MIT (il servizio segreto turco), della Cia e del Mossad.
L’Italia qualche mese dopo concederà il diritto d’asilo politico ad Öcalan, quando ormai questi è rinchiuso nel carcere fortezza di Imrali.
L’Europa cercherà di rilanciare una campagna filo-kurda, invitando ufficialmente nel maggio 2000 un portavoce del PKK al Parlamento di Strasburgo, ma a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001 appiattirà le proprie posizioni su quelle americane, inserendo il PKK nella lista delle organizzazioni terroristiche da persegui(ta)re.


Turchia e Kurdistan turco: attualità e prospettive

La Turchia ha quasi 60 milioni d’abitanti. Si stima che i Kurdi siano 12 milioni. Ma “disporre di una netta maggioranza demografica, etnica o confessionale, non basta a mettere la Turchia […] al riparo dai conflitti interni. […] Per acquisire una solida legittimità, lo Stato deve rappresentare l’autorità incontestata dell’insieme delle sue popolazioni” (Bozarslan, 1997). La Costituzione e la legislazione in vigore vietano la propaganda e la creazione di movimenti che mirino “ad annientare o a indebolire i sentimenti nazionali” (artt. 141 e 142 Cost.) e inoltre impediscono ai partiti politici di cercare di promuovere una cultura o una lingua non ufficiale (legge 2820 del 1983). E si arriva i limiti della paranoia quando, ad esempio, una équipe di Médicins sans frontières è rimasta cinque mesi in carcere per detenzione di una cassetta in kurdo e di un documento in francese sui Kurdi.
I diritti culturali kurdi non esistono; tra l’altro, per l’impossibilità di studiare la lingua madre (che resta ancora l’unica parlata da tanti “Turchi di montagna”) e di poterla utilizzare nei rapporti con l’amministrazione, i Kurdi sono svantaggiati e discriminati anche dal sistema scolastico: nel 1980 in Kurdistan c’era un tasso d’analfabetismo del 70%, mentre nel resto della Turchia era del 40%.
Anche nel settore sanitario c’è una forte disparità, visto che nell’Est ci sono pochissimi dottori e ospedali. Lo stesso vale per il settore delle comunicazioni, poiché scarseggiano strade e ferrovie.
Ma è sul piano economico che si presenta una delle sfide fondamentali del prossimo futuro. La Turchia possiede un’industria sviluppata e diversificata avendo approfittato dei crediti del Piano Marshall; tuttavia il Kurdistan non conosce l’industrializzazione. Per di più, “La forte crescita demografica, accoppiata alle difficoltà a trovare dei mercati esteri […] fa sì che il paese conosca, da una trentina d’anni, una crisi economica cronica. Malgrado la persistenza di un forte tasso di crescita annuo (che oscilla tra il 5 e l’8%), esso non riesce a soffocare l’inflazione (più del 70% all’anno), né a stabilizzare la moneta (costantemente svalutata dal 1959), né ad assorbire la manodopera, né, soprattutto, a integrarsi pienamente col Mercato comune Europeo” (Bozarslan, 1997).
La guerra nel Kurdistan ha delle gravi conseguenze sull’economia turca: nel 1994 la Turchia aveva un debito estero di 70 miliardi di dollari; ma dal 1984 al 1993 ha speso 95 milioni di marchi tedeschi per sostenere l’azione militare contro il PKK. Lo stato, lontanissimo dal realizzare una concreta redistribuzione delle risorse, sostiene le spese militari con delle imposte straordinarie, fomentando ancor più le tensioni sociali.
Il Kurdistan di Turchia possiede alcune ricchezze e risorse: i minerali, l’agricoltura, l’allevamento e soprattutto l’acqua. L’economia è però sottosviluppata perché manca quasi totalmente di infrastrutture e in particolare perché non è più isolata del mercato aperto (dalla concorrenza). Le distruzioni e le deportazioni dovute a ottant’anni di repressione hanno accresciuto le problematiche di questa regione, le cui città non sono abbastanza sviluppate per dare lavoro a tutti quelli che sono fuggiti dai pericoli della guerriglia e dell’oppressione delle campagne. Ma il sottosviluppo resta anzitutto una scelta politica ereditata da Atatürk, visto che ancora oggi molti politici turchi credono che il solo modo per battere il nazionalismo kurdo sia umiliarlo e non cercano l’integrazione economica delle province dell’Est.
I dati sono chiari: se la popolazione kurda che abita ancora nel Sud-Est rappresenta l’11% degli abitanti della Turchia (e il territorio kurdo è un terzo dello stato), non riceve che il 4% degli investimenti. Hamit Bozarslan (1997) ci spiega molto chiaramente le disparità tra le due parti del paese quando ci ricorda che in Kurdistan c’è soltanto il 3,6% delle industrie e che il rapporto operai/abitanti è di 1/52.054 in Kurdistan e di 1/8.410 nel resto della Turchia, con una media nazionale di 1/10.004!
Una delle rare eccezioni è rappresentata dal GAP. Il GAP è il più importante e ambizioso tra i progetti di dighe sul Tigri e l’Eufrate, ma non è stato ancora terminato perché non ci sono sufficienti risorse. Malgrado ciò, anche se fosse realizzato, non sarebbe una fonte di lavoro per i Kurdi che non dispongono della necessaria manodopera specializzata e, comunque, circa 200mila kurdi sono stati cacciati dalle proprie case in vista della sua costruzione.
Assimilare la minoranza kurda è sempre stato un obbiettivo primario dello stato kemalista. Kendal sostiene che se alla nascita della Repubblica le motivazioni erano di ordine pubblico (la costruzione di un “Grande Stato turco”), dopo è piuttosto perché il Kurdistan è una grande colonia in cui si trovano in abbondanza e a basso prezzo materie prime e manodopera, e che costituisce una “riserva di caccia” per i prodotti turchi. In realtà oggi (Kendal scriveva nel 1981) la borghesia, gli uomini della Borsa e, più in generale, il patronato economico hanno capito che la guerra in Kurdistan è un peso troppo grave per la debole economia nazionale e hanno a più riprese invitato i partiti a cambiare completamente la loro politica. Ma i politici, condizionati da un esercito e da una polizia spesso corrotti dalla mafia e alleati ai movimenti fascisti (Martin A. Lee, “Les liaisons dangereuses de la police turque”, Le monde diplomatique, marzo 1997), non sono così lungimiranti e preferiscono negare ancora l’esistenza stessa di una legittima causa kurda.
A questa minoranza hanno negato i diritti politici, culturali, economici e fisici fondamentali e in tal modo hanno provocato esattamente ciò che volevano evitare: la radicalizzazione del nazionalismo kurdo. Ed anche oggi che a quel nazionalismo si è sostituito un percorso politico fondato sul principio di fratellanza tra i popoli turco e kurdo (e il Kadek, la nuova formazione comunista nata dalle ceneri del PKK, ne è la prova tangibile) il regime di Ankara è disposto a concedere soltanto inutili garanzie formali (come l’abolizione della pena di morte).
La soluzione del problema non è facile e soprattutto non appare all’orizzonte: da parte turca, essa dovrebbe comunque partire dall’abrogazione di tutta quella legislazione che opera una discriminazione contro il mondo kurdo e dall’allontanamento della sfera militare dal ruolo di arbitro della vita governativa, parlamentare e sociale del paese. Ma per farlo servirebbe una chiara volontà politica, e non sembra che l’abbia il nuovo governo islamico, vicino alle grandi istituzione economiche internazionali, e incapace di sfuggire al controllo delle alte gerarchie militari.

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La vera storia: i comunisti contro il separatismo curdo!
by G.J. Wednesday, May. 17, 2006 at 10:36 PM mail:

Una volta c'era il PKK che aveva organizzato una guerriglia contro le forze armate turche. Una guerriglia che aveva sempre ridicolizzato i metodi guevaristi e cercava goffamente di applicare quelli maoisti. Quando Ocalan e i suoi gerarchi hanno capito che la sinistra sia istituzionale sia extraparlamentare non stava con loro e che i curdi continuavano a partecipare alle lotte del proletariato turco, iniziarono a usare la violenza e la repressione. I comunisti curdi che collaboravano coi comunisti turchi venivano assassinati, le organizzazioni comuniste inter-etniche venivano costrette a scindersi su base etnica per ordine di Ocalan che da sempre ha avuto contatti buoni con i servizi segreti greci e americani. La popolazione civile curda non ha mai appoggiato la guerriglia, mai! Tanto è vero che le assemblee dei villaggi curdi convinse il governo turco a organizzare delle milizie curde contro il PKK per difendere i villaggi curdi dalle incursioni delle brigate di Ocalan, le quali ricevevano armi e finanziamenti dai servizi segreti occidentali. Il PKK iniziò per ordine del suo CC ad applicare leggi marziali draconiane: i civili curdi che rimanevano neutrali e non si schieravano con la guerriglia venivano fucilati e i loro figli, anche neonati, venivano giustiziati perché la tradizione curda impone al figlio di vendicare il padre ucciso. poi sono passati a bruciare ospedali, scuole e uffici postali, spesso gli unici servizi pubblici presenti nelle regioni del sud-est della Turchia, poverissime e in cui spesso e volentieri lo Stato centrale non arrivava. Intanto i congressi del PKK anno dopo anno cambiava gli obiettivi dell'organizzazione: prima era maoista, poi stalinista, poi leninista e basta, poi socialdemocratica, poi hanno preso caratteri nazionalisti piccolo-borghesi, poi sono ancora tornati a comunismo... a dipendenza da dove arrivavano i soldi e le armi. Qualche giorno fa hanno attaccato uno scuolabus ferendo dei bambini... dalla guerriglia si è passati al terrorismo individuale, pratica condannata in saggi teorici sia da Engles sia da Trockij.
15'000 persone perlopiù curde hanno manifestato oggi contro il separatismo curdo che si traduce in violenza cieca contro i bambini. I sindacati da quelli di destra a quelli di sinistra minacciano lo sciopero generale se il governo non intensificherà la lotta contro il PKK (che è stata allentata a seguito delle pressioni dell'UE). Un partito maoista ha chiesto addirittura di riapplicare subito la pena di morte e impiccare Ocalan, mentre tutta la Sinistra chiede che il governo non accetti le proposte di grazia a Ocalan avanzate dall'UE.
E noi dai nostri salotti bene continuiamo a sostenere la cosiddetta "autodeterminazione". Nemmeno Lenin l'avrebbe tollerato un' "autodeterminazione" del genere!
G.J.

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