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Spreco Nassiriya
by l'Espresso Wednesday, May. 31, 2006 at 7:12 PM mail:

Cento milioni di spese militari per ogni milione di aiuti. Fondi record al Sismi e alla Croce rossa. Risultato: la missione in Iraq ha inghiottito oltre un miliardo e mezzo di euro

Abbiamo speso più per gli 007 che per gli aiuti. È il paradosso più grande della missione italiana in Iraq, una spedizione nata per favorire la ricostruzione del Paese dopo gli anni della dittatura di Saddam Hussein e soprattutto per dare sollievo alla popolazione stremata da embargo e combattimenti. Doveva essere una missione umanitaria: invece a Nassiriya l'Italia ha investito più negli agenti segreti che nel sostegno agli iracheni. Nei primi sei mesi del 2006 il bilancio approvato dal governo per l'operazione Antica Babilonia prevede 4 milioni di euro di aiuti e ben 7 milioni "per le attività di informazioni e sicurezza della presidenza del Consiglio dei ministri", ossia per gli inviati del Sismi. E la stessa cosa è avvenuta sin dall'inizio: in tre anni l'intelligence ha ottenuto circa 30 milioni di euro mentre per "le esigenze di prima necessità della popolazione locale" ne sono stati stanziati 16. Un divario inspiegabile, che sembra mostrare l'Italia più interessata allo spionaggio che al soccorso di quei bambini per i quali era stata decisa la partenza di un contingente senza precedenti: oltre 3.500 militari con mille veicoli.

Ma a leggere i dati contenuti nella monumentale relazione pubblicata sul sito dello Stato maggiore della Difesa, tutta l'operazione Antica Babilonia appare come una voragine, che inghiotte finanziamenti record distribuendo pochissimi aiuti. O meglio, i conti mettono a nudo la realtà che si vive a Nassiriya: non è una missione di pace, ma una spedizione in zona di guerra. Finora infatti sono stati stanziati 1.534 milioni di euro, poco meno di 3 mila miliardi di vecchie lire, per consegnare alla popolazione della provincia di Dhi-Qar poco più 16 milioni di materiale finanziato dal governo: un rapporto di cento a uno tra il costo del dispositivo militare e i beni distribuiti. In realtà, però, la spesa totale per le forze armate italiane a Nassiriya è addirittura superiore a questa cifra: tra stipendi, mezzi distrutti ed equipaggiamenti logorati dal deserto la cifra globale calcolata da 'L'espresso', consultando alcuni esperti del settore, si avvicina ai 1.900 milioni di euro.

Intelligence a go-go Su tutte le pagine del rapporto dello Stato maggiore Difesa, disponibile sul sito web, è stampata la dicitura: 'Il presente documento può circolare senza restrizioni'. Solo nelle ultime 20 pagine questo timbro non compare. Ed è proprio nella nota finale sugli aspetti finanziari di Antica Babilonia che compaiono le notizie più delicate. A partire dalla voce: 'Attività di informazioni e sicurezza della PCM', ossia della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta dei fondi extra consegnati agli agenti del Sismi che operano in Iraq: non si sa se lo Stato maggiore li abbia indicati per voto di trasparenza, per errore o per una piccola mossa perfida. Di fatto, finora le disponibilità degli 007 erano un mistero, oggetto di grandi illazioni soprattutto per quanto riguarda la gestione dei sequestri di persona. Da anni si discute delle riserve usate dalla nostra intelligence per comprare informatori o per eventuali riscatti pagati durante i rapimenti. Adesso queste cifre permettono di farsi qualche idea del costo dei nostri 007 in azione. Per i primi sei mesi del 2003, purtroppo, lo Stato maggiore non è illuminante: la provvista è mescolata assieme alle spese di telecomunicazioni, quelle dei materiali per la guerra chimica e quella per il trasloco delle truppe. In totale poco meno di 35 milioni. Facendo il confronto con i bilanci dei semestri successivi, si potrebbe ipotizzare che al Sismi siano andati circa 4 milioni di euro. In ogni caso, gli stanziamenti diventano poi espliciti: 9 milioni nel 2004, 10 milioni nel 2005, 7 milioni già disponibili per i primi sei mesi di quest'anno. Una somma compresa tra i 50 e i 60 miliardi di vecchie lire, destinata soltanto a coprire i sovrapprezzi delle missioni top secret in territorio iracheno, a ricompensare gli informatori e, verosimilmente, alla gestione dei sequestri di persona. Quelle operazioni che hanno determinato il ritorno a casa di sei ostaggi, grazie anche al sacrificio del dirigente del Sismi Nicola Calipari. Un ultimo dato: dalla stessa relazione dello Stato maggiore apprendiamo che il Sismi ha avuto altri 23 milioni e mezzo per la missione in Afghanistan. Anche in questo caso, la dote degli 007 supera di gran lunga il valore dei beni distribuiti alla popolazione.

La lontananza è cara Le voci trasporti e telecomunicazioni della spedizione hanno importi choc. Per i viaggi avanti e indietro dei reparti, dei rifornimenti e degli equipaggiamenti, sono stati spesi finora 125 milioni di euro. Ogni quattro mesi infatti le brigate impegnate a Nassiriya vengono sostituite: devono tornare in Italia con le loro dotazioni di materiali e armi leggere. Veicoli e scorte invece restano sempre in Iraq, salvo quando il logoramento impone di rimpiazzarli. Sorprendente anche la 'bolletta del telefono': 11 milioni in 18 mesi. Non si tratta delle chiamate a casa dei soldati o dei carabinieri, ma del flusso di telecomunicazioni via satellite per l'attività dei militari: i contatti con l'Italia, quelli con i comandi alleati e molte delle trasmissioni radio sul campo. Pesante pure il capitolo 'Croce rossa italiana': si tratta di oltre 32 milioni di euro. E riguardano il solo ospedale di Nassiriya, quello che fornisce assistenza medica ai nostri militari. Questa struttura ha soltanto come scopo secondario l'attività in favore della popolazione locale: 450 ricoveri in tre anni. Nel 2003 la Croce rossa aveva a Nassiriya 85 persone, poi scese a 70: dall'inizio della missione si tratta di una spesa media per ogni operatore sanitario di oltre 400 mila euro. Perché? La risposta ufficiale chiama in causa le indennità straordinarie e le difficoltà di trasferire medicinali e apparecchiature. L'ospedale da campo creato a Baghdad nel 2003, invece, era finanziato con i fondi del ministero degli Esteri: il costo era ancora più alto, ma i pazienti erano tutti iracheni.

Farnesina tecnologica La quota più consistente dei fondi destinati alla rinascita dell'Iraq viene gestita dalla Farnesina: 103 milioni di euro. La fetta maggiore è stata inghiottita dall'ospedale di Baghdad e dalla difesa dell'ambasciata. Ci sono poi numerose iniziative ad alta tecnologia, tutte realizzate in Italia e alcune di discutibile utilità: 5 milioni per la rete telematica Govnet che dovrebbe connettere i ministeri di Bagdad; 800 mila euro per la ricostruzione virtuale in 3D del museo di Bagdad. I programmi di formazione invece prevedono che il personale iracheno frequenti dei corsi in Italia: una procedura sensata quando si tratta di lezioni per dirigenti o tecnici di alto livello, forse meno quando comporta il trasferimento a Roma di 30 orfani destinati a imparare il mestiere di falegname, barbiere o sarto. Più concreti gli interventi gestiti dal Ministero attraverso la Cooperazione per la ricostruzione dell'agricoltura, del sistema scolastico e di quello ospedaliero: ma nei primi 18 mesi nella regione di Nassiriya erano stati realizzati progetti per soli 3,7 milioni.

Armata ad alto costo Tra aiuti diretti consegnati dai militari e progetti, concreti o virtuali, della Farnesina in tutto sono stati stanziati 119 milioni di euro. Secondo lo Stato maggiore, per il contingente armato finora sono stati messi a disposizione 1.418 milioni di euro. Ma è un stima parziale: non tiene conto del costo degli stipendi, del logoramento dei mezzi, di molte delle parti di ricambio. Non tiene conto dell'elicottero distrutto in missione, dei dieci veicoli Vm90 annientati negli attacchi, delle munizioni esplose, della base dei carabinieri cancellata dall'attentato del 2003. Non tiene conto del terribile bilancio di vite umane: 22 tra carabinieri e soldati caduti e 61 feriti in azione, altri sette morti e sette feriti in incidenti. In più un civile ammazzato nella strage del 12 novembre 2003 e un altro ferito. Un sacrificio giustificato dai risultati? Di sicuro, non si può chiamarla una missione di pace. Nei quattro mesi 'più tranquilli' i parà della Folgore hanno distribuito beni o avviato progetti pari a 4 milioni di euro, finanziati dal governo o da istituzioni e aziende italiane: in più hanno vigilato sulla nascita di iniziative internazionali per altri 6 milioni di dollari. Nella fase di crisi della battaglia dei ponti, invece la brigata Pozzuolo del Friuli si è fermata a meno di 4 milioni di dollari tra attività portate a termine o soltanto avviate. Ormai è difficile anche controllare a che punto sono i lavori nei cantieri: ogni sortita è pericolosa. Per questo il comando di Nassiriya ha ipotizzato di usare gli aerei-spia senza pilota, i Predator, che con le telecamere all'infrarosso possono verificare se i macchinari sono accesi o se i manovali ingaggiati dalla Cooperazione stanno perdendo tempo. Certo, si potrebbe affidare la sorveglianza alle autorità irachene: grazie a un programma della Nato abbiamo addestrato 2.600 soldati e 12 mila poliziotti locali. Eppure tanti uomini in divisa non sono bastati a impedire che un'imboscata venisse messa a segno a pochi metri dal commissariato più importante.

Aiuti oltre i limiti Soldati e carabinieri escono ancora dalla loro base per sostenere la popolazione. Prima della strage del 2003 lo facevano molto di più: fino a quel momento la brigata Sassari aveva percorso un milione e 900 mila chilometri; dopo di loro i bersaglieri della Pozzuolo del Friuli ne hanno macinati solo 460 mila. C'è un dato che fotografa la situazione meglio di ogni altra analisi: poco meno di 2 milioni di chilometri totalizzati dalle colonne dell'Esercito in quattro mesi prima dell'attentato, altrettanti percorsi nei 24 mesi successivi. Eppure, nonostante i rischi altissimi testimoniati dall'attacco costato la vita a due carabinieri e un capitano dell'Esercito, i nostri militari non rinunciano a condurre le attività umanitarie. Cercano di costruire scuole e ambulatori, forniscono macchine ai laboratori artigianali e all'unica raffineria. Per evitare imboscate, lo fanno di sorpresa: arrivano nei villaggi all'improvviso, scaricano doni e materiali, poi ripartono. Se invece c'è qualche cerimonia ufficiale, tutta l'area viene presidiata in anticipo con cecchini e blindati. Insomma: una situazione di guerra. Ma nessuno si sottrae ai pericoli. Anzi, tutti i reparti fanno più del necessario. Prima di partire per l'Iraq, c'è una sorta di questua tra istituzioni locali e aziende della zona dove ha sede la brigata per raccogliere aiuti da distribuire: spesso i reparti mettono insieme una quantità di merci superiore ai fondi governativi. Inoltre in occasioni particolari, ci sono collette tra i soldati per acquistare riso o medicinali. O iniziative straordinarie, come quella della famiglia del maresciallo Coletta, una delle vittime del la strage del novembre 2003, che ha mandato un container di farmaci per un ospedale pediatrico. Ma a tre anni dalla caduta di Saddam ha ancora senso rischiare la vita di 20 militari per consegnare un camion di riso e medicine?

Com'è piccola la Farnesina
di Lucio Caracciolo


Tutti parlano di globalizzazione. Pochi in Italia si interessano del globo. Soprattutto nella classe politica. Qualsiasi governo della cosiddetta Seconda Repubblica parte con questo notevole svantaggio quando si tratta di delineare una strategia di politica estera, che infatti non è oggetto di dibattito né a destra né a sinistra, salvo l'esiguo drappello degli addetti ai lavori.

La priorità di politica estera del governo di centro-sinistra sarà quindi di ridarle quella centralità che le spetta per quanto conta nella vita del paese e di ciascuno di noi. A meno di non immaginare un'Italietta autarchica, sigillata contro ogni influenza esterna, che non è e non può essere. Quando si denuncia la perdita di competitività del nostro paese su scala europea e mondiale, si ammette implicitamente un deficit non solo economico, ma anche politico. Perché l'Italia non ha mai contato di meno al mondo da quando esiste come Stato unitario. Non ha voce nei luoghi dove si decide, né dispone di un sistema di lobby per incidere sulle scelte altrui. Se la politica e la diplomazia vogliono servire i nostri interessi e ridurre il gap competitivo che ci divide da paesi di dimensioni demografiche ed economiche simili alle nostre, di qui converrà ricominciare.

L'altra premessa indispensabile a riacquistare influenza nel mondo è la ricerca di un approccio bipartisan alle grandi scelte internazionali, specie quando si tratta di pace o di guerra. Non per nascondere le divergenze, ma per evitare che sui temi strategici, che investono frontalmente gli interessi fondamentali della nazione, la politique politicienne prevalga su ogni altra considerazione. Producendo una cacofonia devastante per la nostra stessa credibilità. Nel concreto, la politica estera del governo Prodi si qualificherà previdibilmente su due scacchiere: Europa e Medio Oriente. Vediamo come.

Il centro-sinistra e Prodi personalmente esibiscono un pedigree europeista. Oggi che l'europeismo è in crisi profonda, se non terminale, sarà comunque inevitabile rivedere il nostro modo di stare in Europa. Non perché l'Italia debba rinunciare all'obiettivo dell'unità europea. Al contrario, perché lo deve perseguire. E nel contesto attuale questo significa invertire la rotta attuale in seno all'Unione europea riassumibile nel motto ognuno per sé e nessuno per tutti.

Se vogliamo che il global player europeo su cui ha sempre insistito Prodi diventi realtà, dobbiamo renderci protagonisti di una nuova iniziativa che miri a questo scopo, insieme ai nostri partner più stretti, a cominciare da Germania e Francia. Altrimenti l'alternativa sarà tra la progressiva disintegrazione e un Euronucleo senza di noi.
Questa è fra l'altro la via maestra per pesare di più nei rapporti con l'America. Contrariamente a ciò che pensa Berlusconi, la diplomazia personale serve a poco. Soprattutto se non esprime una strategia nazionale. Continuando a presentarci a Washington in ordine sparso, noi europei non abbiamo poi alcuna possibilità di dare corpo a un effettivo rapporto transatlantico, essendosi ormai consumato quello fondato per quasi mezzo secolo sulla paura di Mosca.

Più immediate le scelte sullo scacchiere mediorientale. Qui le emergenze sono tre: Iraq, Iran e Palestina. Tre facce dello stesso problema, ossia che cosa fare della regione dopo che la campagna americana contro Saddam ne ha definitivamente minato gli equilibri. Qui ci scontriamo con un doppio limite: la storica ininfluenza dell'Europa, malgrado i soldi investiti in programmi più o meno commendevoli; e la più recente mancanza di una strategia americana, particolarmente grave in un paese leader che ha deciso di reagire all'11 settembre rovesciando i regimi nemici o comunque infidi nel mondo islamico. Ma senza sapere bene come sostituirli con regimi più democratici e contemporaneamente più filoamericani.

Sull'Iraq esiste un consenso di fondo fra gli schieramenti politici sulla necessità di riportare a casa i soldati entro l'anno. Non è di per sé una strategia, ma almeno è una scelta. Ma il diavolo sta nel dettaglio. Sarà solo un cambio di cappello fra una missione militare e una civile, con una copertura militare comunque non indifferente? Quando toccherà esaminare questo capitolo, probabilmente le differenze in seno al centro-sinistra riesploderanno. Sarebbe utile prevenire una simile crisi, definendo pubblicamente che cosa esattamente stiamo a fare in Iraq e con quali mezzi - anche finanziari - intendiamo sostenere i nostri obiettivi.

Quanto all'Iran, siamo brillantemente riusciti ad autoescluderci dalla pattuglia europea abilitata a trattare con Teheran. Per un paese che intrattiene notevoli, storici rapporti energetici e commerciali con i persiani, è un autogol. Oggi potremmo usare la nostra residua influenza in Europa e in America per spingere a favore di negoziati diretti irano-americani, sola alternativa praticabile e forse efficace all'avventura bellica.

Infine la Palestina. La demonizzazione del nuovo governo palestinese, dopo che abbiamo giustamente insistito sulla necessità di lasciar esprimere quel popolo alle urne, è particolarmente miope. Perché la vittoria di Hamas è soprattutto la sconfitta di una vecchia, corrotta nomenklatura - quella arafattiana - che non poteva in nessun modo essere un interlocutore negoziale perché non rappresentava davvero il suo popolo. Se eviteremo di metterlo all'angolo, scopriremo che il governo attuale è molto meno radicale e molto più pragmatico di quanto non appaia a una lettura superficiale del voto palestinese, espresso fra l'altro da quelle stesse persone che l'anno prima avevano scelto Abu Mazen.

Dopo l'esperienza piuttosto deprimente degli ultimi anni forse è troppo ottimistico sperare che l'Italia si riprofili nella competizione internazionale in modo così netto e autorevole. Ma il tempo lavora contro di noi. Perché recuperare una credibilità perduta sarà forse l'opera di due o tre generazioni. E qualcuno dovrà pur cominciare.

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