In queste settimane, sui media di sinistra si sta svolgendo un dibattito sulle strategie di opposizione alla precarietà. C'e' chi vuole rimettere al centro il posto fisso, e chi chiede un nuovo welfare. Un contributo perché il dibattito non si riduca ad un duello ideologico tra lobby.
Sin dalla campagna elettorale, la sinistra parlamentare e confederale ha promesso di restituire centralità al lavoro a tempo indeterminato contro la precarietà dilagante. In parte, basterebbe applicare l'attuale legislazione sul lavoro per realizzare tale obiettivo: persino la legge 30, se applicata, impedirebbe l'abuso dei contratti a progetto, come mostra il risultato dell'Ispettorato che ha visitato il call center di Atesia e dichiarato illegittimi 3800 contratti precari su 4000 addetti. Andando nella direzione indicata dal governo Zapatero, poi, si farebbe sfracelli, smascherando e riconoscendo diritti perduti ad un'altra parte importante di lavoro subordinato travestito dall'intermittenza. Tutto senza spendere una lira di bilancio pubblico (mentre il ministro Damiano propone di detassare chi impiega lavoro a tempo indeterminato, come se della continuità del lavoro non approfittassero le stesse aziende).
Però non basta. Com'è noto, il precariato attuale è composto di due tipologie di lavoro. La prima è rappresentata dai lavoratori "precarizzati": dopo l'ondata di esternalizzazioni e di sconfitte sindacali, mansioni paragonabili a quelle della generazione precedente vengono oggi svolte in condizioni contrattuali più deboli. Basti pensare ai lavoratori delle cooperative di pulizie o, di nuovo, agli operatori di call center: per loro, la conquista di diritti passa per la stabilizzazione, visto che spesso si trovano a svolgere la stessa funzione per molti anni attraverso mille escamotage e all'inventiva contrattuale dei responsabili delle risorse umane. Se tutto il lavoro precario fosse così, e dunque la prospettiva del posto fisso e della piena occupazione fosse ancora realistica, sarebbe assennato limitare alle tradizionali contrattazioni sindacali la difesa dei lavoratori.
Ma una parte sempre più importante del precariato è rappresentata da lavoro autonomo cosiddetto "di seconda generazione": sono quelle figure professionali nate con la terziarizzazione dell'economia, che sulla flessibilità costruiscono la propria ragion d'essere. Costoro non possono aspirare ad alcuna stabilizzazione: quale ente o azienda dovrebbe assumere un programmatore, un grafico a partita IVA, un cervello in fuga, un "free lance" di qualsiasi settore? Tali funzioni sono essenziali nella società attuale proprio in virtù della loro capacità creativa, dell'adattabilità ad un contesto cangiante, della permanente auto-formazione. Obbligare il sistema produttivo a fare a meno di tali figure è ormai impossibile, pena l'impoverimento complessivo del sistema stesso (il temuto declino). Né, d'altro canto, esiste un sindacato in grado di difenderne i diritti. Sulla carta si tratta di "artigiani", ma rispetto ai predecessori di un secolo fa hanno perduto il loro potere contrattuale basato sul monopolio delle competenze o sulle corporazioni, tradizionale organizzazione del lavoro autonomo di cui non si sente la mancanza. Privi di diritti sociali quali maternità, reddito minimo o pensione, conoscono solo la contrattazione individuale (cioè la ricattabilità) e di conflitto organizzato sul lavoro non vogliono proprio sentir parlare (perché dovrebbero, se i colleghi solo esclusivamente concorrenti?).
E' tempo di prendere atto che tale seconda specie di precariato non potrà essere assorbita nemmeno nel "posto fisso" tornato al centro grazie al migliore dei governi possibili: se si vuole evitare che l'attuale lavoro autonomo di seconda generazione diventi il termine di paragone continuo (al ribasso) per la classe dei lavoratori "garantiti" e da esempio per i "precarizzati", occorre inserire anche l'emergente precariato di seconda generazione in una cornice di diritti sociali da conquistare e poi magari da difendere insieme. A questo puntano i movimenti che chiedono un "reddito di cittadinanza" o la "continuità di reddito", incondizionati dalla condizione di lavoro o disoccupazione. Si tratta di mobilitazioni spesso embrionali, che solo nella MayDay ogni anno trovano rappresentazione pubblica: ma come potrebbero far di meglio, se neppure dai sindacati più conflittuali giunge loro un riconoscimento, e ci si ostina a trattarli da anomalia superabile?
Ciò non si oppone alla critica alla legge 30, o alla rivendicazione del "posto fisso". Ma dividersi ideologicamente tra lavoristi e non- conduce ad una sconfitta comune: da un lato, chi tifa per il lavoro finisce per difendere un settore della produzione in perenne erosione ed esclude un settore sociale crescente; dall'altra, chi aspira ad un reddito di cittadinanza occupa una nicchia del mercato politico tendenzialmente dominante ma rimane inascoltato, osteggiato dalla sinistra radicale nel discorso pubblico. In altre parole, difendendo i diritti dei soli lavoratori si pecca di corporativismo, ma reclamando reddito si fatica ad aggregare un settore sociale frammentato come il precariato, avendo contro persino FIOM e Manifesto. Per cominciare, dunque, non regaliamo altri soldi alle imprese: basteranno gli ispettori a far rispettare ciò che verrà dopo la legge Biagi, se ci sarà la volontà e se si scriverà una buona legge sul lavoro. E con il denaro risparmiato si inizi a costruire il nuovo welfare su misura di precari@.
28 giugno - P.o.P. Parade @ Roma
|