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Sergio Bologna: Nuove forme di lavoro e classi medie nella società postfordista*
by mick Friday, Nov. 24, 2006 at 12:47 AM mail:

* testo rielaborato da un originale presentato al Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona nell’ambito di un seminario sulla presenza femminile nel mercato del lavoro, il 30 aprile 2005


Nuove forme di lavoro e classi medie nella società postfordista*

La crisi della cosiddetta new economy agli inizi del nuovo Millennio ha messo in difficoltà vasti strati di ceto medio. Il disagio delle classi medie è uno dei grandi temi dei prossimi anni. E’ un argomento, questo, in genere trascurato. Si discute molto di più di deindustrializzazione, di chiusura di fabbriche e di licenziamento di operai. Si discute molto di più della povertà dei paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia, dei paesi dell’ex Unione Sovietica. Indubbiamente sono problemi più gravi, quelli della povertà, ma poiché molto si parla ma ben poco di concreto si fa per eliminarli, può essere utile guardare anche dentro casa nostra, dentro di noi, che apparteniamo in grande maggioranza al ceto medio europeo.
L’Europa infatti, ed in particolare l’Europa occidentale, cioè uno dei luoghi più prosperi del mondo, soffre di questa crisi in maniera particolare per una serie di ragioni che provo ad elencare.

1. La prima ragione è dovuta al progressivo smantellamento dell’impiego pubblico in seguito alla ridotta funzione dello stato in molti settori dove è stato l’unico attore e l’unico datore di lavoro per tutto il Novecento. La privatizzazione di alcuni servizi pubblici, la liberalizzazione del mercato nel campo dell’istruzione, della sanità, dei trasporti, ha creato un mercato concorrenziale, le cui conseguenze si avvertono soprattutto nella progressiva precarizzazione dei rapporti di lavoro. Le operazioni di esternalizzazione di molti servizi, l’assistenza in primo luogo, ma anche la cura dei monumenti e del patrimonio artistico, per esempio, hanno contribuito ad accrescere enormemente il sistema del subcontracting, per cui il funzionario pubblico pian piano ha cominciato a perdere le sue caratteristiche e le sue prerogative sia in termini di sicurezza del posto di lavoro e di progressione di carriera, sia in termini di funzione, trasformandosi spesso da persona con professionalità e ruoli ben precisi dentro la struttura organizzativa dell’amministrazione pubblica a controllore del lavoro altrui. In alcuni paesi inoltre, l’Italia è l’esempio più eclatante, le retribuzioni dei funzionari pubblici, in particolare di quelli dei ruoli medio-bassi, sono rimasti stabili in termini reali da dieci anni a questa parte. Con l’introduzione dell’euro, questo vastissimo universo – che costituisce il nucleo centrale del ceto medio – ha subìto un netto impoverimento.
La seconda ragione è dovuta alla progressiva trasformazione del ruolo dei quadri intermedi all’interno delle imprese, pubbliche o private che siano. I sistemi manageriali adottati dalle imprese, in particolare da quelle di più ampie dimensioni, hanno sottratto ai quadri intermedi alcune sicurezze di cui avevano sempre goduto e li hanno sovraccaricati di responsabilità e di compiti, in modo tale da far pesare grandemente il fattore stress derivante da superlavoro, senza compensarlo adeguatamente in termini di retribuzione e di riconoscimento concreto delle prestazioni. Inoltre, le aziende hanno praticato una politica salariale che prevede un enorme divario tra il ristretto gruppo di manager di alto livello ed il resto degli addetti a mansioni impiegatizie, creando una dinamica di frustrazioni e di accesa concorrenza tra i dipendenti.
Quindi sia il sistema pubblico che il sistema privato hanno contribuito al disagio della classe media, proprio nelle fasce occupazionali più consistenti del lavoro dipendente, del lavoro salariato, del lavoro di tipo tradizionale.
La terza ragione, che ha colpito in particolare i nuclei familiari che appartengono a queste categorie, dove in genere sia il marito che la moglie lavorano, è il progressivo degrado dei servizi pubblici e l’elevato costo degli affitti nelle agglomerazioni metropolitane ed in parte anche nelle città medie. La crisi fiscale di molte amministrazioni locali, in seguito alla chiusura o alla delocalizzazione di imprese che contribuivano in maniera determinante al bilancio dell’ente locale, ha portato con sé dei tagli nei servizi di assistenza all’infanzia e nei trasporti in particolare, cioè in due settori importanti per la gestione di un nucleo familiare tradizionale, quello che costituisce l’ossatura della middle class. Un altro problema acuto, proprio del ceto impiegatizio dell’impresa privata, è quello della difficoltà di reinserimento lavorativo di persone di mezza età che hanno perduto il posto di lavoro in seguito a una crisi aziendale o a un processo di fusione e acquisizione da parte di altra azienda. La disoccupazione degli over 50 – ma in realtà l’età media si abbassa e si dovrebbe parlare di disoccupazione degli over 40 - è un problema che investe in massima parte il ceto medio.
Insomma, il nucleo centrale e maggioritario del lavoro salariato, la parte più consistente di nuclei familiari di tipo tradizionale, per ragioni diverse hanno subìto in questi ultimi anni una modificazione delle loro condizioni di lavoro e di vita, tali da creare degli squilibri e delle incertezze sul piano del valore più importante per il ceto medio, il valore dello status sociale.
Contraddittoria invece la condizione del lavoro indipendente, all’interno del quale dobbiamo distinguere subito il lavoro autonomo di tipo tradizionale, tipico dell’agricoltura, del commercio e delle libere professioni protette da Ordini (avvocati, architetti, medici ecc.) da quello “di seconda generazione”, caratterizzato da un numero molto inferiore ma in rapida crescita di “professionisti del lavoro cognitivo” e di addetti ai servizi alla persona. L’introduzione e la rapida diffusione delle tecnologie informatiche hanno consentito la creazione di molte “nuove professioni” ma soprattutto hanno consentito alle persone un accesso al mercato più diretto, incoraggiando in tal modo il lavoro autonomo o il lavoro semi-autonomo di coloro che offrono alle imprese dei servizi esterni. Questo “lavoro autonomo di seconda generazione” ha goduto di un periodo di grande espansione e di euforia durante gli Anni 90 ma poi è stato direttamente e con violenza investito dalla crisi dei settori knowledge intensive agli inizi del nuovo Millennio, andando così a ingrossare le fila di coloro che si trovano in una condizione di disagio, derivante spesso da stili di vita abbastanza costosi che d’improvviso si trovano a dover fronteggiare una situazione di crisi economica e di difficoltà occupazionali. Il problema più grosso che il lavoro indipendente deve affrontare, almeno in un Paese come l’Italia nel quale la percentuale di lavoratori autonomi sul totale della forza lavoro occupata è la più alta d’Europa, raggiungendo i 6 milioni di persone, è quello della mancanza di tutele (pensione di vecchiaia, assistenza sanitaria ecc.). I lavoratori autonomi delle professioni protette da Ordini possono contare su certi istituti di tutela autogestiti, i lavoratori autonomi dell’agricoltura godono di un regime fiscale particolarmente favorevole, i lavoratori autonomi del commercio e di altre occupazioni intermediarie possono nascondere certi redditi nelle pieghe dell’amministrazione, i “lavoratori autonomi di seconda generazione” che appartengono in genere alle fasce occupazionali proprie del lavoro cognitivo, creativo (come l’industria dei media e dell’entertainment), dei servizi finanziari, del design ed in genere dei servizi alle imprese, proprio perché lavorano per aziende o agenzie le quali debbono documentare i loro costi e quindi non possono “lavorare in nero”, hanno un carico fiscale superiore a quello del lavoro dipendente, sono in genere costretti a orari di lavoro molto pesanti, compensati soltanto dalla soddisfazione personale che questi lavoratori trovano nell’esercizio della loro professione, espletando dei lavori non ripetitivi. Appartenendo alla fascia dei “lavoratori non garantiti”, i lavoratori autonomi di seconda generazione hanno subìto in questi anni i fasti e le cadute della new economy, traendone un vantaggio superiore agli altri nei periodi di boom e subendone i contraccolpi peggiori nei periodi di crisi o di stagnazione dell’economia, come quello che stiamo attraversando in Europa oggi, ma in particolare in paesi come l’Italia. La categoria centrale di questi lavoratori, quella dei professionisti, si stima rappresenti in Italia un sesto del lavoro indipendente. Diversa ancora è la condizione dei lavoratori semi-autonomi, circa 800 mila, o “lavoratori a progetto”, sottoposti a una condizione di precariato permanente. Tra questi lavoratori si possono trovare numerose figure di working poors. Sono particolarmente concentrati nelle grandi aree metropolitane, per esempio Milano, dove hanno avuto una crescita consistente sia prima che dopo la crisi della new economy. Sommando gli uni agli altri, abbiamo un universo di circa due milioni di persone, che rappresenta un terzo del lavoro autonomo in Italia ed un decimo circa della forza lavoro occupata complessiva.

2. Quando si parla di nuove forme del lavoro nella società postfordista si pensa immediatamente ai cosiddetti “lavori atipici”. Essi si definiscono per esclusione: tuttociò che non è lavoro standard, cioè occupazione con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, viene chiamato “lavoro atipico” (come il lavoro a part time, il lavoro interinale, a tempo determinato ecc.). Ma questo modo di leggere il lavoro postfordista è sbagliato.
La definizione di “lavoro atipico” è completamente fuorviante: circa l’80% dei nuovi lavori oggi in Italia, cioè la stragrande maggioranza, può essere classificata nella categoria degli “atipici”. Occorre non dimenticare che questo tipo di lavori non si concentrano nelle aree deboli o nelle città periferiche, ma nelle aree forti e nelle regioni metropolitane. Il caso di Milano è un caso esemplare.
Tuttavia non è la forma del contratto che contraddistingue il lavoro postfordista, è la natura giuridica del rapporto che cambia. Nel diritto del lavoro tuttora in vigore in tutti i Paesi ma purtroppo sempre meno corrispondente alla realtà, il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro è sempre concepito come un rapporto diseguale. Il principio del rapporto di forza a favore del datore di lavoro è alla base, tra l’altro, del welfare state. Nel lavoro postfordista il rapporto è concepito come un rapporto commerciale tra due entità che vengono definite entrambe “imprese” e come tali eguali sul piano dei rapporti di forza. Il lavoratore è concepito come un fornitore esterno, egli non riceve un salario, una retribuzione che deve bastare alla sua riproduzione ma un compenso per una prestazione di servizio. Nel modello fordista il lavoratore riceve dopo il primo mese di presenza sul luogo di lavoro la prima retribuzione, affinché possa riprodursi e riprodurre la sua forza lavoro. Nel modello postfordista, e in particolare per i lavoratori autonomi di seconda generazione, tutto il periodo in cui il lavoratore presta la sua opera è a suo carico, cioè deve provvedere lui stesso alla sua riproduzione. Il compenso gli sarà dato mesi dopo la consegna del lavoro finito. Essere pagato dopo l’emissione di una fattura è assai diverso che essere pagato mensilmente con un salario. Il carico della riproduzione della forza lavoro è interamente sulle spalle del lavoratore. Inoltre il lavoratore salariato gode generalmente anche dei vantaggi del sistema previdenziale (pagamento dei giorni di malattia, pagamento parziale delle medicine e del medico, diritto di sospensione del lavoro per maternità a salario intero, pensione a fine carriera lavorativa). Nessuna di queste tutele sociali è riservata al lavoratore indipendente di “seconda generazione” perché la natura giuridica del rapporto di lavoro è diversa. Si comprende perché allora il lavoratore autonomo viene chiamato “impresa individuale”. Il termine stesso è un’assurdità, un non-senso. Com’è possibile applicare il concetto di impresa a un individuo? Tutte le teorie dell’impresa, tutte le teorie del capitale si fondano sul concetto che per fare impresa sono necessari tre fattori, corrispondenti a tre diversi ruoli sociali: il capitale, rappresentato dall’investitore, da quello che mette i soldi per iniziare l’attività (acquistare un terreno, costruire una fabbrica, acquistare i macchinari, installarli, provvedere alle forniture di energia elettrica ecc.), il management, che dirige l’organizzazione del lavoro e gestisce le risorse umane, tecniche e finanziarie, ed infine la forza-lavoro. L’impresa è per definizione un’organizzazione, un microsistema sociale, una forma di cooperazione, la sua ragione d’essere non sta solo nella capacità di produrre merci in grandi quantità ma nel plusvalore creato dalla cooperazione, nel valore aggiunto creato dall’impiego di tecnologie e di intelligenze umane. Come può una “impresa individuale” fare tutto questo? Quindi il termine in sé non ha senso ma corrisponde perfettamente alla diversa natura giuridica del rapporto di lavoro che è stata instaurata dal postfordismo. Affinché il contratto di lavoro diventi un contratto commerciale il lavoratore deve chiamarsi “impresa”.
La Sinistra, anche la Sinistra antagonista, la parte più militante dei sindacati, i Comitati di base, i gruppi che vengono definiti no global ecc., non hanno ancora capito la vera essenza del lavoro postfordista. La loro analisi critica non si spinge oltre il fenomeno della precarizzazione, San Precario è il simbolo del limite estremo della loro analisi. Perciò sono assolutamente impotenti dinanzi al rapido mutamento delle forme in cui il capitale riorganizza l’estrazione di plusvalore. Precarizzazione è il contrario di occupazione stabile. Dunque è un termine che si definisce in negativo rispetto ad un punto di riferimento concettuale unico, quello del lavoro a tempo indeterminato, del “posto fisso” proprio del paradigma fordista, assunto come valore positivo. Questa Sinistra, che pretende di rappresentare l’unica opposizione alle tendenze neo-liberali, non si è ancora staccata dai parametri mentali del fordismo, rappresenta uno sterile (e improbabile, antistorico) ritorno al fordismo.

3. Infatti anche i rapporti di lavoro che rientrano nella categoria dei contratti “a tempo indeterminato” possono essere quanto di più fragile ed instabile si trova sul mercato. L’Italia è forse il paese-guida nelle forme di flessibilizzazione postfordista del lavoro. Negli Anni Ottanta il sistema italiano aveva creato tanti cluster (agglomerazioni) di imprese, concentrati in determinati territori che furono chiamati “distretti industriali”. Erano nate due tipologie di formazione economica, una riferita al territorio e l’altra riferita all’organizzazione dell’impresa. Quest’ultima diventava “un’impresa a rete”. Che cos’è un’impresa a rete? Secondo la definizione di Enzo Rullani è un’impresa “che acquista dall’esterno materiali e servizi prodotti da altri” per importi che possono raggiungere anche l’80% del fatturato (è la media italiana delle PMI di maggior successo). E’ una impresa che “sa sfruttare al meglio il capitale altrui” con il sistema della subfornitura. E chi sono i subfornitori? Possono essere grandi imprese, multinazionali, per la fornitura delle materie prime o dei semilavorati (per esempio le fibre speciali della Bayer per la fabbricazione degli scarponi da sci di Montebelluna, nel Veneto) ma possono essere soprattutto minuscoli laboratori artigiani, costituiti da ex operai ai quali la stessa impresa committente ha fornito i macchinari o i capitali per acquistarli, cioè microimprese con tre, quattro, sette dipendenti. Se dalla manifattura dei distretti industriali passiamo alla grande industria dei media e della comunicazione, se dalle fabbriche di Benetton nel Veneto profondo passiamo al Gruppo Mediaset di Silvio Berlusconi nella grande area metropolitana di Milano, il panorama non cambia. Accanto alla tipografia più grande d’Europa dove si stampano libri e riviste, ci sono le centinaia di studi professionali addetti al trattamento dei testi, alla grafica, alle indagini di mercato, alle traduzioni, alla riproduzione di cartoni animati, all’editing, alla fotografia. Accanto agli studi televisivi dotati delle più sofisticate apparecchiature ci sono le centinaia di agenzie che reclutano e organizzano gli operatori di macchina, gli elettricisti, gli assistenti alla regia, gli autori dei testi, i musicanti e poi le migliaia di “lavoratori creativi” che prestano la loro opera come indipendenti, come “imprese individuali”, un’immensa ragnatela che ha un impatto occupazionale paragonabile a quello di un grande stabilimento Fiat negli Anni Settanta. Si è formata così in Italia, per consentire la riproduzione dell’impresa a rete, non solo una coorte di più di due milioni di “imprese individuali” ma anche una coorte di ottocentomila microimprese da 1 a 9 dipendenti, che non sono tutelati dallo Statuto dei Lavoratori contro i licenziamenti. Essere assunto con un contratto a tempo indeterminato presso una microimpresa non presenta le stesse condizioni di chi è assunto da una grande impresa. Le prospettive di carriera sono limitate, la solidità dell’impresa è affidata all’iniziativa del titolare, l’impresa ha un accesso limitato al credito o non ce l’ha affatto, l’equilibrio economico in sostanza è affidato all’intensità del lavoro del titolare e alla sua fantasia, alla sua capacità di trattare con i clienti, di trovarli e di mantenerli, alle doti organizzative ed all’attaccamento all’azienda di qualche suo aiutante, il titolare dell’impresa spesso è un artigiano che deve rispondere in solido di un eventuale fallimento, vive una condizione di permanente insicurezza, talvolta basta una grossa fattura non pagata per mandare in crisi la microimpresa. Se consideriamo i titolari di microimprese come appartenenti al ceto medio, troviamo anche qui possibili situazioni di disagio e d’insicurezza. E’ vero che il clima umano, il livello di collaborazione e di solidarietà è spesso più alto che nella medio-grande impresa, è un clima “familiare”, ma l’immagine del “posto fisso” di fordista memoria all’interno di una microimpresa risulta molto ridimensionata, se non cancellata. Tuttociò avrebbe un’importanza relativa se le microimprese svolgessero un ruolo marginale nell’occupazione. In verità esse svolgono un ruolo fondamentale perché sono al momento attuale le uniche imprese che creano nuovi posti di lavoro. La grande impresa in Italia da più di vent’anni perde il 3% della forza lavoro in media all’anno. Per molto tempo a stimolare l’occupazione è stata la piccolo-media impresa, soprattutto quella dai 50 ai 199 dipendenti. Ora non è più così. La crisi strutturale che ha investito l’Italia negli ultimi anni, la debolezza della sua specializzazione produttiva, caratterizzata da produzioni a basso contenuto di innovazione e di ricerca, facilmente riproducibili in Paesi a basso costo del lavoro, la perdita di competitività dei suoi prodotti sui mercati internazionali, il crollo delle esportazioni, hanno portato ad una situazione nella quale anche le piccole imprese (da 20 a 49 dipendenti e le medie fino a 200 dipendenti) hanno cominciato a distruggere posti di lavoro. In conclusione: solo le microimprese fino a 9 dipendenti trainano l’occupazione negli ultimi tre anni, con l’aggravante che circa il 50% dei nuovi occupati è concentrato nel settore edilizia e costruzioni. Ciò avviene anche in Lombardia dove, secondo le previsioni della domanda di lavoro per il 2005, elaborate e messe a disposizione dall’Unione delle Camere di Commercio, dei 92.470 occupati in più previsti a fine 2005, ben 81.050 sono assunti da microimprese.
Ma fino a che punto è legittimo parlare di microimpresa, per esempio nel caso di un’azienda con due-tre dipendenti? Non è forse meglio parlare di “lavoro autonomo organizzato”?

4. Le forme del lavoro postfordista sono molto più complesse ed articolate di quanto espresso da termini come “lavoro atipico” o “lavoro precario”. La rivoluzione postfordista ha inciso molto profondamente sulla natura giuridica dei rapporti di lavoro, sulle condizioni materiali della prestazione, sulle forme del business, sulla dotazione di capitale umano della forza lavoro. L’incertezza per il futuro, l’insicurezza, lo stress da sovraccarico di lavoro, le condizioni di vita nelle grandi città (congestione, allungamento dei tempi di trasporto), dove maggiormente sono avvertiti la riduzione e il deterioramento dei servizi sociali, la speculazione immobiliare, hanno ridotto le possibilità di gestire con tranquillità un organismo come la famiglia. In una regione come la Lombardia i nuclei familiari composti da marito, moglie e figli rappresentano meno del 40% del totale, i “single” sono il 26% dei nuclei familiari (ma sono costituiti in maggioranza da anziani soli). Le difficoltà a trovare un’occupazione adeguata da parte dei giovani, in particolare dei giovani laureati, il prolungamento di condizioni di lavoro occasionali e precarie, incide sulla difficoltà da parte dei giovani a mettere su famiglia, li riporta nella famiglia d’origine, impedisce o ritarda la scelta della maternità da parte delle donne. Tuttavia non bisogna dimenticare il condizionamento congiunturale di questi fenomeni, una forte ripresa dell’economia potrebbe cambiare le cose e gli atteggiamenti.
Una visione puramente pessimistica e catastrofista del postfordismo non solo non ci aiuta ma non ci fa nemmeno capire perché le persone continuano a difendere certi stili di vita e certi comportamenti, né ci fa capire come possiamo uscire da questa situazione. Il primo punto da mettere in discussione è proprio quello del “posto fisso”, dell’occupazione a vita, dell’accettazione di un sistema gerarchico, di un’organizzazione del tempo e dello spazio secondo criteri definiti da una volontà superiore, al tempo stesso dispotica e protettiva. Pensare che sia possibile un ritorno a questo tipo di organizzazione sociale significa davvero peccare di ingenuità. Prima di tutto perchè gli organismi che avevano garantito e strutturato questo tipo di forma del lavoro oggi o non esistono più o hanno cambiato talmente i loro metodi di gestione da rendere la condizione umana e sociale di un lavoro a tempo pieno (con contratto a tempo indeterminato) presso queste strutture una cosa assai diversa da quella di vent’anni fa. La filosofia dell’impresa oggi è una filosofia finanziaria, non produttiva. I “capitani d’industria” di un tempo sono stati sostituiti da investitori istituzionali che affidano a manager spregiudicati il rendimento a breve del business per poter rivendere l’impresa dopo un certo periodo. La mentalità dell’imprenditore che voleva legare il suo nome a un progetto sociale, a un prodotto o a una serie di prodotti, che voleva creare una cultura aziendale, che voleva imprimere un segno nel territorio, che intendeva costruire qualcosa di solido e di stabile per il futuro dei suoi figli, è stata sostituita da una mentalità caratterizzata dal breve periodo. Soltanto nelle PMI era ancora possibile trovare, in particolare nei distretti industriali italiani, una mentalità ed una cultura del prodotto. Oggi il cambio generazionale e la crisi congiunturale, unite alle delocalizzazioni, stanno modificando radicalmente il panorama anche presso le PMI. E’ il momento atteso dal business del Private Banking. Secondo informazioni provenienti dal mondo finanziario, 5,5 miliardi di euro sarebbero pronti ad essere investiti dai fondi nelle PMI italiane. Quando c’è questo forte spostamento nelle filosofie di gestione, nella concezione stessa dell’impresa, quando si passa da una mentalità imprenditoriale a una mentalità finanziaria, anche la gestione del personale cambia di conseguenza. Non è più una gestione a lungo termine, attenta a far crescere ed a conservare determinati know how e determinati talenti, è una gestione fondata sulla flessibilità, il modo di lavorare non resta lo stesso, i fattori umani e psicologici vengono valutati in maniera diversa, insomma è un’altra vita – anche se il contratto di lavoro è a tempo indeterminato, anche se formalmente il lavoratore e la lavoratrice hanno “il posto fisso”.
La seconda ragione per cui è da ingenui pensare ad un ritorno al fordismo riguarda proprio la mentalità e gli stili di vita del ceto medio. Non è affatto scontato che gli europei del nuovo Millennio vogliano tornare ad una situazione caratterizzata da lavori stabili, a vita. La new economy non è stata soltanto una “controrivoluzione”, come viene rappresentata da una certa Sinistra, quasi si fosse trattato di un grande complotto universale contro il lavoro. Al contrario, è stata una vera rivoluzione capitalistica nel senso che Marx attribuiva a questo termine, una grande rivoluzione che ha mobilitato risorse in maniera non paragonabile con le epoche precedenti, instaurando al tempo stesso le condizioni per un forte aumento della produttività del lavoro e della redditività del capitale, una rivoluzione che ha permesso a una larga parte della popolazione dei paesi europei non solo un tenore di vita e uno stile di consumi più “abbondante” ma anche un accesso ad opportunità di lavoro e progetti di vita molto più ampi, grazie alla connettività consentita dalle nuove tecnologie, alla nascita di nuovi mestieri, alla circolazione delle idee e delle informazioni, alla mobilità delle persone. Una visione del postfordismo come un modello che produce solo “perdenti” è una visione falsa. E’ una visione che produce solo protesta e nessuna iniziativa, che non sa approfittare delle risorse mobilitate dalla new economy stessa per imporre valori diversi. E’ una visione che ricorre necessariamente, per riequilibrare la situazione, ad atti di regolazione, a misure legislative, ad un intervento della mano pubblica (per esempio l’introduzione del reddito minimo di sussistenza). In effetti è molto difficile sottrarsi alla tentazione di rovesciare sullo stato l’intero onere del riequilibrio delle situazioni di disagio. D’altronde è sempre più improbabile che la società postfordista possa trovare degli aggiustamenti mediante lo strumento della rivendicazione sindacale. I sindacati non hanno ancora intrapreso la strada di una trasformazione interna dei loro modi di operare, dei loro linguaggi, in modo da essere delle istituzioni adeguate ai problemi della società postfordista o del lavoro flessibile o del lavoro autonomo di seconda generazione. Si limitano a difendere gli iscritti, che appartengono in stragrande maggioranza alle categorie dell’impiego pubblico e delle grandi aziende o alla categoria dei pensionati (che sono la maggioranza degli iscritti al più grande sindacato italiano, la CGIL).
Che fare allora? Se gli strumenti della protesta e della rivendicazione sindacale sono spuntati, se vogliamo evitare al tempo stesso la giuridizzazione dei rapporti di lavoro, se cioè vogliamo evitare che il ricorso alla magistratura sia l’unico sistema con il quale un lavoratore postfordista può riequilibrare i rapporti di forza con il committente/datore di lavoro, l’unica strada è quella di contare solo sulle proprie forze e sulla capacità di costruzione di legami individuali tra persone che sono coinvolte dalle medesime esperienze di lavoro.
In primo luogo bisogna dare spazio, liberare la narrazione. Mancando una rappresentanza sindacale, di categoria, del lavoro postfordista, manca anche un’opinione comune, una cultura in grado di riconoscere i veri problemi.
L’esperienza che le donne (alcuni gruppi) stanno portando avanti è preziosa proprio perché non parte da assunti teorico-ideologici ma dal vissuto. Occorre ancora una profonda ricerca per mettere a fuoco il mutamento antropologico che le nuove forme del lavoro hanno prodotto. La donna è la grande protagonista del lavoro postfordista. Il tasso di occupazione femminile è aumentato in maniera costante negli ultimi anni, i saldi occupazionali, se sono attivi, lo sono esclusivamente per la partecipazione delle donne, le forme di lavoro “atipiche” sono in prevalenza femminili, i metodi di flessibilizzazione del lavoro sono sempre più costruiti tenendo conto della psicologia femminile, l’intensità del lavoro, il prolungamento della giornata lavorativa, lo stress da sovraccarico di lavoro, colpiscono soprattutto le donne, la discriminazione sul piano delle retribuzioni penalizza le donne, il mancato riconoscimento del miglioramento delle prestazioni riguarda in particolare le donne, la rinuncia alla “genitorialità” è un problema femminile e via dicendo. Non è un caso che i pochi libri che hanno colto nel segno il mutamento dei tempi siano stati scritti da sociologhe.
Occorre dunque un lavoro propedeutico in profondità, che ci liberi poco a poco dagli schemi mentali acquisiti durante il fordismo e riprodotti all’infinito, come una litania, dalla Sinistra. Occorre capire la vera natura del lavoro postfordista, occorre capire che cosa significa “economia della conoscenza” e trarne le conseguenze, distinguere il mito dalla realtà. Occorre distinguere l’imbonimento ideologico dalla concreta possibilità di trovare, nella condizione di lavoratore postfordista, gli elementi di liberazione o almeno di autotutela.











Tabella 1
I primi 20 mestieri negli Stati Uniti (2005)


















Fonte: US Bureau of Labor Statistics, 2005


Tabella 2









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Titolo Autore Data
ahahaha spam confartigianato Saturday, Nov. 25, 2006 at 10:00 PM
no alla propaganda neoliberista "redditisti" senza reddito Saturday, Nov. 25, 2006 at 10:07 AM
No al PRECARIATO! basta propaganda neoliberista Friday, Nov. 24, 2006 at 10:28 PM
bologna andrebbe licenziato Friday, Nov. 24, 2006 at 12:57 PM
Dai Sergio, ancora uno sforzo! controguerra Friday, Nov. 24, 2006 at 11:38 AM
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