di Angelo Petrella
L’immagine delle massime autorità cittadine e regionali che presenziano solennemente ai funerali di Mario Merola sono il simbolo del mancato rinnovamento di una classe dirigente. Ciò che deve destare preoccupazione, a mio avviso, non è tanto la battuta del sindaco Iervolino – in realtà ben riuscita e politicamente sagace – a proposito della “guapparia”, ma piuttosto l’apprezzamento della sceneggiata meroliana e del suo patrimonio culturale. Un patrimonio che culmina nel mito stantio e logoro di una Napoli “pizza e mandolino”, fondata su valori conservatori: la famiglia come unico universo di relazioni concepibile, il paternalismo, la subalternità della donna, il senso dell’onore feudale, l’immutabilità della realtà e la rassegnazione all’esistente.
Merola è il padre di quella napoletanità di discendenza borbonica che resiste ai decenni e ai secoli, non perché naturale – come qualcuno semplicisticamente interpreta – ma perché foraggiata e sostenuta dal ceto dirigente. Isaia Sales, nel suo recente volume dedicato alla camorra, ricorda un episodio ben esemplificativo di un certo comportamento della politica meridionale: in previsione dell’arrivo di Garibaldi a Napoli nel 1860, l’allora prefetto Romano assoldò nella Guardia cittadina numerosi camorristi, per evitare disordini. Con il risultato di delegare la gestione di una bella fetta di potere ai nemici del popolo, che pur provengono dal popolo stesso. Oltre alle autorità, molti politici e intellettuali hanno partecipato commossi al funerale di Merola, esprimendo apprezzamento per la sua arte “interprete dell’anima popolare della città”. In realtà l’errore di questo ragionamento è grande e palese: confondere il populismo con il concetto di nazional-popolare, che è ben altra cosa. Secondo Gramsci, la mancanza di un’arte nazional-popolare capace di interpretare e guidare le esigenze culturali delle masse dipende essenzialmente dal mancato mutamento della Storia, ovvero del contesto di rapporti sociali e produttivi del tessuto civile. In poche parole, affinché muti l’arte deve prima mutare la cultura, ovvero quell’insieme di condizioni strutturali che poi consentano di effettuare un salto di qualità. Questo è il motivo per cui diventa molto pericoloso avallare istituzionalmente valori che non ci appartengono più, come giustamente ha ricordato il filosofo Aldo Masullo. Compito della politica sarebbe quello di guidare il “senso comune” popolare e portarlo a maturazione, non di farsi guidare da esso, anche perché non tutti i prodotti popolari sono per forza genuinamente a favore del popolo. L’esempio classico è quello del fenomeno neomelodico, il cui circuito è interamente gestito dalla camorra e i cui prodotti mirano a corroborare un’ideologia anti-sociale.
In quest’ultimo decennio in qualche modo il tessuto artistico napoletano si è spaccato in due: da un lato l’ufficialità borghese di piazza Plebiscito, dei grandi eventi culturali, del premio Napoli, degli artisti chiamati da tante parti del mondo; dall’altro la cultura sotterranea popolare e folcloristica, subito egemonizzata dalla criminalità. Nessuno è riuscito a scorgere però la generazione di mezzo, quella di tanti artisti e intellettuali che sono cresciuti nell’ombra, al di fuori di logiche partitiche o di interessi immediati, in sordina, e che hanno portato avanti un discorso realmente critico e, questo sì, popolare. Come ha scritto Roberto Saviano pochi giorni fa sulle pagine dell’Espresso: «in tutti questi anni, mentre persino la guerra di Secondigliano non riusciva ad avere la stessa visibilità dei fatti riportati in questi giorni, a Napoli e intorno a Napoli continuava a formarsi e trasformarsi un modo nuovo per raccontare quel che stava accadendo. Come se fosse divenuto un imperativo necessario iniziare a raccontare quel che stava sotto gli occhi». Le parole scomode di questa ondata artistica – i nuovi scrittori, i registi, l’hip hop delle periferie, i fotoreporter – sono quelle che parlano della vera Napoli d’oggi, con le sue fratture e le sue enormi contraddizioni, “dal basso”. È questa generazione rinnovata, priva di interessi partitici, che potrà auspicabilmente riavviare quel processo culturale bloccato e senza guida. La nostalgia per il mondo cantato da Merola illumina proprio la condizione di un popolo abbandonato a sé stesso, che si rifugia nel tradizionalismo pur di trovare un punto di riferimento. Tutto ciò non può tacersi solo per paura dei fantasmi democristiani che ogni tanto cercano spazio per riemergere e purtroppo, anche a causa di una cultura che non si svecchia, ci riescono. Il funerale di Merola segna il tramonto di classe dirigente e, oltre il mero significato culturale, chiude una stagione politica.
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17 Responses to “L’ultimo guappo” Nunzio Festa Says:
November 24th, 2006 at 10:54 un pezzo condivisibilissimo… anche se non sono napoletano.
b!
Nunzio Festa
mauro baldrati Says:
November 24th, 2006 at 11:46 Sì. Semplice e chiaro. Oggi c’è questa tendenza a bollire tutto in un brodo “nazional popolare” (che ha un significante ben diverso da quello di Gramsci, giustamente richiamato nel pezzo), dove tutti sono belli, buoni e bravi. Baglioni diventa uno dei massimi cantautori italiani, Andreotti un eroe perseguitato, e così via. Io ho una teoriucola, che no so quanto scientifica: forse questo processo di sbrodolamento inizia col cosidetto culto del “trash”, iniziato negli anni ottanta, i cui pionieri firono Chiambretti e Fazio: la contessa de Blank, lo stilista Balestra, e poi Nilla Pizzi, Orietta Berti, Merola, evviva! Grande festa! Forse ha prodotto più danni culturali questa moda di Berlusconi.
Ho solo un dubbio sulla frase di chiusura: “Il funerale di Merola segna il tramonto di classe dirigente e, oltre il mero significato culturale, chiude una stagione politica.” Siamo sicuri che sia al tramonto?
roberto Says:
November 24th, 2006 at 12:13 Sarà pure trash. Ma le migliaia di persone in piazza cos’erano? Vogliamo considerarci migliori di loro? E il ‘nuovismo’ dell’ondata artistica indicato da Petrella rappresenta davvero un’alternativa politica? Facciamo il de prufundis delle vecchie classi dirigenti. Ci mancherebbe altro. Ma le nuove leve dell’hip-hop credete che bastino? Penso all’Iraq. Raccontare non basta più.
LALLONE, UN NAPOLETANO Says:
November 24th, 2006 at 12:35 Trovo una certa acrimonia in queste parole, fastidio verso un (ipotetico ) lumptenproletariat napoletano, un altro da sè da allontanare, per tacitare i fantasmi di una cocienza da PCI organico degli anni’ 50…tra l’altro rappresentano lo stesso pensiero di marcello veneziani ieri sera da santoro sull’ennesima puntata caso napoli(ancora?!)…(tra l’altro anche la padania ha fatto un fondo simile)…illustrata la pericolosità di siffatto ragionamento, capace di seguire la logica degli opposti estremismi faccio notare all’autore che:
- sociologicamente il “tributo” delle istituzioni cittadine può essere anche inquadrato nell’ottica dell’unità sociale in una stagione di anomia (e da comme stamm nguiat a napule nn mi sembra un idea malvagia, fatte le debite proporzioni naturalmente) -richiamare Gramsci e il nazionalpopolare semmai è inutile…il senso dell’onore, il paternalismo, la subordinazione non sono valori scomparsi ma viaggiano paralleli, in quella zona grigia fra atavica rassegnazione e irrinunciabile voglia al mutamento…sono valori umani, deprecabili certamente ma umani…ancora con la storia dei pedagoghi che vogliono “costruire l’uomo nuovo”? -i neomelodici - da aborrire, deprecabilissimi - sono però espressioni di resistenza culturale (che può essere più o meno condivisa); le reti locali sono diventate nei primi anni novanta emuli di MTV, girando i loro video, creando i loro miti al pari di un Ricky Martin. Catapultati nel postmodernismo, i napoletani, che come faceva notare PPPasolini negli anni 60 erano ancora puri,invece di ritirarsi tipo indiani o aborigeni e lasciarsi morire (altra espressione pasoliniana) e delegare all’assenza e al silenzio il loro essere, hanno scelto di agire, immettendo si una cultura olistica ma viva -negli stessi anni la cosidetta “cultura alta” produceva il rinascimento napoletano…cito solo i decadrages di Mario Martone da “l’amore molesto” in cui anna bonaiuto ritorna a napoli…volti, scorci musica e rumori da sottofondo…il passato che resta e resiste…l’arcaico pasoliniano, che turba e affascina e che certo nn si può chiudere, o pensare di averlo chiuso…sempre Martone ne i vesuviani che presenta un bassolino che scala il vesuvio, legge “Che fare?” di Lenin, dialoga con un corvo che stigmatizza ogni suo pensiero… -il tempo non è più lineare…stagioni, tramonti, cicli non significano niente specie a Napoli, probabilmente la capitale d’Italia del postmodernismo…girando per napoli e provincia è come fare un viaggio dalla preistoria alla tardamodernità, incontrando il terzo il secondo il primo mondo nel giro di pochi metri quadri, mentalità fasciste e santità anarchiche, esempi di integrazione razziale e leghismo inverso…
Non esiste la verità e il soggetto e morto ormai da un pezzo. Ma tentare di spacciare una palingenesi non è onesto. Non è onesto scagliarsi solamente contro i napoletani, ça va sans dire, tutti criminali e scansafatiche, che impegnati nella ragnatela dei significati (tessuta da chi?) n si sottomettono all’Autorità dello Stato, alla Legge, al Progresso…Non si tratta, come ha sottolineato Antonio Gramsci (adesso si che va citato), di una lotta tra la tradizione e la modernità, anche se spesso prende apparentemente questa forma, ma di una lotta tra il subalterno/la subalterna e l’egemonia. Non è una questione di realtà separate, ma di costellazioni di poteri: in qualsiasi congiuntura storica alcuni di essi sono egemoni, mentre altri sono subalterni. Napoli ha gli stessi problemi di una qualunque metropoli occidentale: corruzione politica, individualismo eccessivo, criminalità organizzata, gioventù di una mediocrità abnorme…il problema è quando gli egemoni e subalterni condividono la stessa visione, eseguendo il mandato collettivo che porta alla (a)normalità che stiamo vivendo…
mauro baldrati Says:
November 24th, 2006 at 12:36 Né migliori né peggiori, roberto. Però non dobbiamo farci travolgere dal fatto che certi fenomeni (possiamo chiamarli così?) mobilitano grandi masse. Lo fu per Maradona (ero a Napoli per lavoro all’epoca, e i taxisti avevano Maradona come santino nel taxi), lo è stato - pare - per il matrimonio-baraccone di Tom Cruise.
Poi, in effetti, il pezzo è leggermente trinariciuto quando dà per assodato il tramonto della classe dirigente e la nascita del nuovo (della nuova cultura), ma insomma, un certo idealismo mi trova alleato.
tashtego Says:
November 24th, 2006 at 14:45 “Il funerale di Merola segna il tramonto di classe dirigente e, oltre il mero significato culturale, chiude una stagione politica.”. Non riesco a capire su cosa si possa basare una simile affermazione. Esistono veri segnali, al di là delle culture metropolitane minoritarie tipiche di ogni grosso conglomerato umano? Occorrerebbe poi mettersi d’accordo sulla natura essenzialmente culturale della rivoluzione che si auspica, che dovrebbe avvenire non ostante la permanenza di carenze economiche e strutturali gravi. Non la vedo facile né imminente: la fine della nottata è lontana. Tuttavia un segno di una forte presenza dello Stato, che potrebbe portare ad un periodo di “tolleranza zero” di ogni comportamento anche solo di trasgressione lieve, come l’andare in moto senza casco, potrebbe giovare molto proprio in senso culturale. La rivoluzione anti-camorra comincerà dal casco.
roberto Says:
November 24th, 2006 at 15:05 hai capito Lallone! bene, bravo, bis.
pinnacolo Says:
November 24th, 2006 at 15:12 …Certo, massimo rispetto per chi come Braucci, Spada, e tutti gli altri che saviano cita nel suo articolo si fanno in quattro ogni giorno per testimoniare, a differenza di qualcuno che caccia la testa fuori dal sacco di tanto in tanto. Ma condivido la critica di lallone, e soprattutto il riferimento a pasolini che sulla napoletanità ci ha visto chiaro, Una collettività che si appoggia al tradizionalismo per trovare un punto di riferimento, mi fa pensare che il problema forse non è tanto il tradizionalismo, ma piuttosto una effettiva mancanza di un punto di riferimento.Da cosa deriva questo svuotamento? Puo’ benissimo essere vista come una forma di resistenza, quell espressione di una cultura sottopopolare ancora esistente, la stessa che crede, come mia nonna, allo scioglimento del sangue di san gennaro, oppure la stessa che si autoflagella durante le processioni… Saviano nell articolo ha anche criticato chi, come giorgio bocca, punta ancora il dito su quella plebe, la stessa che è legata ancora a queste immagini popolari, ad una certa tradizione. questi fenomeni dovrebbero essere osservati piu come esempi per analizzare tutto quell’immaginario collettivo che a napoli ha ancora un certo effetto, un certo potere, che piaccia o no. L’alternativa postmoderna non offre di meglio,
bruno esposito Says:
November 24th, 2006 at 17:12 Un brutto post, devi dire. Un post che non tiene conto della tradizione teatrale napoletana, la più importante d’Europa, da Fiorilli a Petito, da Scarpetta a Viviani, da Eduardo ai contemporanei Martone e Ruccello. Che non tiene conto del personaggio Merola, che va al di là del suo mito plebeo. Enrico Fiore ha scritto giorni fa un articolo in cui ha raccontato una conversazione privata con l’attore : ” ma tu davvero pensi che io creda in quello che recito ? Io lo so benissimo che la Napoli di Bovio non esiste più e forse non è mai esistita ma io rappresento un modello di teatro che non tramonta. Io quando pronuncio quelle parole che sembrano ridicole le rafforzo coi gesti e con le espressioni per dare loro una nuova forza e farle sembrare attuali”. Merola, ex operaio portuale e cantante di sceneggiate, aveva da solo appreso i modelli dell’archetipo teatrale. Come un grande attore. Merola non ha mai avuto grande stima dal teatro colto napoletano, quello “serio” ma il solo Roberto De Simone ne intuì le sue capacità artistiche e lo volle in scena nella “Cantata dei pastori” con due mostri sacri come Peppe e Concetta Barra, e al loro fianco Patrizio Trampetti. Merola sarebbe stato un grande interprete di Viviani ma nessun regista gli ha mai dato questa occasione. No, voler a tutti i costi storicizzare, sociologizzare, o politicizzare il lavoro di Merola è fuorviante e lascia l’arte del teatrante fuori dalla porta. Cerchiamo di non fare lo stesso errore commesso a suo tempo con Totò, seppur le due figure siano lontani anni luce. E poi, anche volendo guardare il fenomeno mediante l’analisi sociologica, non si può trascurare il momento storico della nascita di quel genere popolare che Merola ha rappresentato. Il duo di autori Cafiero e Fumo ha inventato un genere, la sceneggiata appunto, che qualcuno forse troppo audace, ha accostato ai modelli brechtiani di teatro. E la sceneggiata è tramontata non quando la plebe si è rimodellata su valori borghesi ma quando la borghesia ha abbandonato definitivamente i suoi tradizionali valori religiosi, di identificazione territoriale e familiari. Dio, Patria e famiglia,per dirla in breve. Da quando la borghesia imprenditoriale ha sposato come unico valore il profitto la plebe, una volta scomparso il cuscinetto sociale della classe operaia, ha assunto gli stessi valori di riferimento senza però evolversi, senza mutare la sua morfologia. Ed ecco che i pseudo valori borghesi, onore e famiglia, della sceneggiata vengono accantonati come superati, inutili, occludenti. La classe dirigente non c’entra niente in questo processo, fa solo parte dell’osmosi fra plebe e borghesia, ormai non più riconoscibili fra loro. Di tutto questo Merola non è colpevole. Merola,una volta tramontata la sceneggiata, ha ripreso a cantare i classici napoletani, non è più stato un modello per nessuno. Ed era una brava persona, molto generoso, e amava il teatro e la canzone. Io che sono cresciuto a pane e Bennato non lo amavo come artista ma gli riconoscevo talento e personalità, al di là di quello che il suo mito ha rappresentato per quasi venti anni.
gianni biondillo Says:
November 24th, 2006 at 17:34 Bruno, quello che dici è come l’avessi scritto io. (e prendetemi per pazzo ma io mi commuovo ancora ascoltanto Lacrime napulitane o ‘O zappatore).
bruno esposito Says:
November 24th, 2006 at 17:53 Biondillo, mi creda o no, è un onore.
Gemma Gaetani Says:
November 24th, 2006 at 18:17 Sono d’accordissimo con Bruno Esposito anch’io.
C’è un patrimonio classico, tradizionale, della napoletanità, che non ha proprio niente a che vedere con la pizza e il mandolino del Capitano Corelli. Tra l’hip-hop napoletano di denuncia e Mario Merola è preferibile ascoltare Mario Merola, dato che la mitologia hip-hopparola è, spesso, il vuoto che rappa e si affilia a un’onda musicale che, se mi si permette, se se ne vuole fare una questione di rappresentatività, ci appartiene meno che mai.
Povero Mario Merola. E’ così fastidiosamente snob questo pezzo, dov’è stato pubblicato, sul Manifesto?
Giù si dice: “Non sputa’ in cielo, ché ‘n faccia te torna”: ecco.
RELIC HUNTER Says:
November 24th, 2006 at 18:23 Riporto dal blog di Angelo Petrella:
Dico io: ma veramente state facendo?
Dico io: ma veramente state facendo? Mario Merola un grande artista. Ora: a parte il rispetto per la vita umana che è sacrosanto. Ma era opportuno fare tutto questo poco? Con le autorità che quasi quasi si mettevano a piangere, la Iervolino e Bassolino davanti a tutti, a stringere la mano a Gigi D’Alessio (di cui tutti conosciamo la storia e che, per di più, è stato testimonial e quasi candidato con Forza Italia)? Quando ero piccolo e giocavo a calcio, quando qualcuno fingeva di farsi male dopo un fallo inesistente e magari si gettava a terra imprecando per il dolore, tutti dicevano: “Vai Mario!” intendendo “Vai, ché sei bravo a fare la sceneggiata come Mario Merola”. La sceneggiata: l’impasto più nefando di un’ideologia anti-popolare mirata a imporre dis-valori del passato come paura dei più forti, misoginia, senso dell’onore feudale, culto del fatalismo secondo cui esistono leggi immutabili nella natura e se sei nato proletario devi per forza diventare criminale, odio per l’infame o per il nemico che “sgarra”, mammonismo familistico etc. E la Iervolino grida che “bisogna riportare in auge la sceneggiata”. Dico io: ma la state recitando in questo momento, la sceneggiata? Va bene il gusto del trash, di cui io sono cultore, va bene qualsiasi cosa, ma a ’sto punto facciamo Alvaro Vitali sindaco, facciamo adottare nelle scuole al posto di Dante “Va dove ti porta il cuore” e lasciamo scrivere gli editoriali de La Repubblica a Gigi e Andrea. E poi arrestano Wanna Marchi. Almeno Wanna Marchi ti prendeva per il culo e te lo diceva in faccia. Ti diceva: guarda, io sono qua per rubarti i soldi, e se sei così coglione da provare, chiama al numero sovraimpresso ché ti faccio ricordare ’sta giornata per quanti giorni ti restano da campare. La cosa peggiore è sentire poi i presunti intellettuali dire: “Eh, però era un artista!”. Avete mai dato un’occhiata ai milioni di artisti disoccupati e sconosciuti a Napoli? Ne sono tanti, alcuni sono geniali, ma nessuno gli dà spazio. E non sono stati inclusi né nel cosiddetto Rinascimento napoletano né nel calderone neomelodico-sceneggiata-trash. Eppure continuano a fare il loro lavoro con impegno e dedizione. Nessuno di quelli che inneggiano a Merola come se fosse Gianbattista Basile si è mai fatto un viaggio nel mondo (questo sì veramente underground) della cultura metropolitana di Napoli?
Mi chiedo chi abbia invitato questo figuro su N.I….una miopia così mai vista…collaboratore di Repubblica?…la mediocrità è nelle vene ormai…allibito…letto cose così solo ai tempi del giornalino del liceo…brrr…
UN LETTORE Says:
November 24th, 2006 at 18:28 …il manifesto? ma sta scherzando?…ma il manifesto ha dedicato un fondo dignitoso a Merola, inquadrandolo e contestualizzandolo…questo e’ il “nuovo” intellettuale liberalchic da futura minoranza del partito democratico…(ALIAS del manifesto dedicò tempo fa un ottima inchiesta sulla sceneggiata…procuratevelo e fatene salute)…. P.S. ma qualcuno ganzo di Nazione vuol replicare a queste fandonie???
bruno esposito Says:
November 24th, 2006 at 18:34 L’ultimo post è di una disinformazione di uno snobismo da ignoranti allucinante. Una serie di luoghi comuni radical chic da bestiario del terzo millennio. E notare che conosce tutti i nomi del peggio del peggio, da Alvaro Vitali a Wanna Marchi. Questo è uno che campa davanti alla tv e in un teatro non c’è mai stato.
ZAZIE Says:
November 24th, 2006 at 18:47 L’ULTIMO POSTO VERAMENTE PROVIENE DAL BLOG DI ANGELO PETRELLA…HO CONTROLLATO…A NAPOLI SI DIREBBE “MA STAJE NGUAIAT FORT CUMPA’…”
Gemma Gaetani Says:
November 24th, 2006 at 19:00 Petrella, sul serio, ma cosa dici? Premesso che in te Mario Merola può suscitare ciò che più ti pare, la tua tesi fa acqua da tutte le parti. Wanna Marchi e Mario Merola non sono in alcun modo comparabili! A discapito, poi, di Mario Merola… Wanna Marchi non faceva arte, faceva reati. E ora, semmai, sta facendo la sceneggiata napoletana nel senso più dispregiativo che possiamo conferire a quest’espressione. Al posto tuo me la prenderei con Gigi D’Alessio se proprio dovessi cercare un colpevole di mitopoiesi falsificante: Merola, come Claudio Villa a Roma, rappresenta di fatto una società che non c’è più, ma c’è stata eccome. Un’altra cosa che non capisco è questa: apprezziamo tanto il nazionalpopolare altrui, ci commuoviamo a guardare i film di Kaurismaki e quelli di Ken Loach, che a quello rimandano, e poi il nostro ci deve far schifo. Perché? Puoi abiurare, ma in quanto italiano SEI figlio pure di Mario Merola, e nelle generazioni passate di gente che mangiava “pane e pane” sotto “‘o sole mio”, ché di suo c’aveva soltanto quello, ce n’era, eccome se ce n’era. Alvaro Vitali, per dirne un’altra, e lo sanno tutti, esordì con Federico Fellini… Boh, senza polemica, ti invito a riflettere. E’ intellettualismo puro e pure snob accettare il popolare, o pure il subpopolare, soltanto in quanto trash. Per me.
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