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ANDREA SALTINI chi fa di se stesso una bestia si sbarazza della pena di essere un uomo (um | ||
by festival filosofia 2006 Friday, Sep. 08, 2006 at 11:24 AM | mail: | |
andrea saltini: L’INCREDIBILE AVVENTURA DEL BAMBINO CHE GIOCAVA CON I MOSTRI OVVERO TUTTO QUELLO CHE BISOGNA FARE PER DIMENTICARE UNA MALATTIA IN ATTESA DELLA FINE
serie_cose_che_volano_1il_sottobosco.jpg, image/jpeg, 100x53 Andrea Saltini ha fatto esattamente tutto ciò che è necessario fare per dimenticare una malattia che ti distrugge, costringendoti ad una sorta di prigionia forzata. Ha dialogato con la sofferenza senza tentare di rimuoverla a tutti i costi, sfruttandone al contrario l’enorme potenziale poetico. Elevandola e riscattandola. Ed è tornato alla passione che da tempo aveva tralasciato, quella del disegno. E’ così che nasce la scelta poetica di questa esposizione. Saltini ha trovato nella convalescenza la spinta per disegnare tutto ciò che resta di una malattia durata quasi un anno. E di un ricovero in ospedale che ha permesso - nella sua ineluttabilità - di sviscerare un’intera umanità non soltanto artistica. Perché come scrive il pittore l’unico modo per vincere la tristezza è consumarla. E così è stato. Andrea Saltini è tornato al disegno. E’ tornato piccolo (anche nel narrato, accanto ad una voce adulta se ne sente una fanciulla) divertendosi a giocare con i mostri della sua fervida immaginazione. Le opere in mostra sono proprio il significante di ciò che resta della degenza. L’immaginario fantastico della sua fantasia di fanciullo mai cresciuto tornato prepotentemente a galla, un gioco-espediente che si è rivelato utile per censurare il dramma, per eludere la sofferenza e il tormento. L’ispirazione ai concetti del testo immaginifico di Roussel – che si ritrova sia nella pittura che nel racconto - diviene allora pretesto per raccontare gli incubi del quotidiano, anche se l’ibridazione uomo-bestia assume in questo caso un’impronta prettamente psicologica rispetto alla meccanica metamorfica del testo a cui il pittore s’ispira. Tre sono le serie, bambini, uomini e animali i soggetti, mentre il filo conduttore di tutto è il bosco. Poiché ogni situazione - o quasi - si svolge comunque in mezzo alla natura. Non ci sono città, né paesi di contorno protettivo. Nella serie Locus Solus mon amour si trovano le cose che volano, quelle a cui aggrapparsi, da tenere ben strette, da conservare – o intrappolare dentro ad una scatola – e preservare in vista di un’imminente tragedia o catastrofe. Dove su carta incerata, in dimensioni variabili, il pittore si sfoga col nero dell’inchiostro. Rappresentazioni a tecnica mista, dal taglio grafico all’apparenza, non prive di elementi fiabeschi e surreali, sui quali interviene col pennello e costruisce spessore con sovrapposizioni e doppi strati, vernici, gommalacca e pastello ad olio o veline che appena s’intravedono sotto l’inceratura. Disegni a volte ruvidi altre volte scivolosi, ibridi come quello che raccontano, finiti come quadri, lucidi per l’inceratura che contribuisce a sottolineare l’idea della conservazione, foreste cupe e terribili che si trasformano in cimiteri della mente, figure malate per un mondo che è guerra infinita e tormento. Schizzi di paesaggio d’ambientazione (una chiesetta, piccoli alberi che s’incendiano), persone che conservano cose, ma anche la malattia, l’infanzia, bambini che sorreggono il mondo, che volano sulla scopa, o ancora bambini-cervi, che tengono in bocca un cavallo. Saltini raccoglie tutto ciò che potrebbe o dovrebbe rimanere. Prigioniero del male che lo ammorba - che incatena e che diventa a poco a poco certezza – apparentemente annichilito, scatena una fantasia che diviene ben presto passione viscerale, nella mistura attenta dei colori e nel calibrare la scala dei grigi con quel gusto della scoperta che hanno solo i piccoli e quella maestria raffinata della linea che hanno solo i talentuosi. Un metodo c’è e sta nel non avere un metodo, nell’andare emotivamente a ruota libera, di testa sì ma anche di pancia. Con le sue serie il pittore crea così il “Romanzo totale in stile Ottocento” che ha sempre auspicato, come scrive nel racconto semi-autobiografico, che va di pari passo col disegno, nato come una sorta di scrittura visiva. Essere un uomo è una pena e la malattia trasforma in bestie, acuisce le sensazioni. Andrea Saltini disegna la fonte terribile del suo Buio. Un Buio di morte, velenoso come lo è l’umano. E forse per questo gli riesce così bene, perché lo ha vissuto sulla pelle, fin nelle viscere, come una dannazione. Ecco perché c’è la fine. La fine. E’ da qui che tutto comincia, ed è qui che tutto (o quasi) finisce, scrive. Nella seconda serie, quella delle cose portate dal mare, quadretti più piccoli di una cartolina, è ben evidente. La fine che si porta via tutto, oggetti, ibridi uomo-animale, e persone, come la morte che ti fa passare davanti tutti i momenti della tua vita. La fine è il mare che invade tutto e sbiadisce le cose, cancellandole in parte. La fine sono disegni piccolissimi, lavorati con olio, cera, elementi strani e lasciati volutamente non finiti tramite cancellature che lasciano appena intravedere l’abbozzo raffinato. Soggetti profondamente letterari, che se pur legati al racconto hanno contenuto in se stessi, ciambelle di salvataggio, strani mostri verdi, bracconieri dentro a piscine gonfiabili, demoni, sedie a rotelle. Opere eseguite con molti passaggi, che hanno la freschezza dello schizzo e la completezza del dipinto. La fine viene dunque mostrata col non finire. Nel racconto la voce adulta parla di come sia ostico scrivere un libro sull’umanità, interrogandosi su numerose cose, nel tentativo estetico, alla Roussel, di sublimare la poesia. Ma la poesia è già dentro. L’umanità di Andrea Saltini non ha una guida all’uso. Poiché è impossibile riuscire a decifrare cosa di fatto sia. La sua umanità coincide semplicemente con l’essere se stesso in modo così spiazzante, con nitida limpidezza, surreale nudità e anche crudezza intellettuale. Lui stesso è umanità. Insieme ai suoi disegni. E nient’altro. |
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