una
E' quella di Giorgio
Rubolino, uomo chiave nelle prime indagini sull'assassinio di Giancarlo
Siani. Ma anche il personaggio tirato in ballo davanti alla Commissione
Telekom Serbia.
l'altra sul superperito del caso giuliani
LA VERA STORIA DEL SUPERPERITO DI GENOVA PERIZIE KILLER
L'INCHIESTA 2
Colpo di scena per due fra le più sofferte vicende giudiziarie degli ultimi anni. Il Csm apre un procedimento disciplinare per il giudice che ha mandato assolto l'agente di polizia accusato d'aver ucciso il diciassettenne Mario Castellano. Intanto anche sul perito che si é occupato di Carlo Giuliani spuntano clamorose novità. Di Rita Pennarola La notizia, arrivata negli ultimi giorni della calda estate 2003, circola per ora solo a mezza bocca, tra pochi intimi: giusto un anno dopo la clamorosa sentenza pronunciata dalla Corte d'Assise d'appello di Napoli che mandò assolto Tommaso Leone, condannato in primo grado a dieci anni di reclusione per l'assassinio del diciassettenne Mario Castellano, a finire sotto accusa é oggi il presidente della Corte che decise l'assoluzione. Si tratta di Pietro Lignola, anziano ed esperto magistrato che ha affrontato recentemente, fra l'altro, casi scottanti come l'omicidio di don Peppino Diana e il delitto di Franco Imposimato, fratello del giudice di Cassazione ed ex parlamentare diessino Ferdinando Imposimato. Lignola dovrà rispondere davanti al Consiglio Superiore della Magistratura - che sulla vicenda gli ha notificato l'avvio di un provvedimento disciplinare - per non essersi astenuto nel processo all'agente di Polizia, pur essendosi ampiamente soffermato su quel caso di cronaca nella sua veste di opinionista del quotidiano Roma, vicino ad Alleanza Nazionale. Una circostanza che, peraltro, non era sfuggita ai difensori della famiglia Castellano: nel corso del dibattimento d'appello avevano infatti presentato un'istanza di ricusazione del presidente, adducendo alcuni articoli comparsi sul quotidiano nei quali traspariva la netta impronta innocentista di Lignola nei confronti di Leone. La Corte d'Appello aveva respinto quella richiesta e il giudizio era andato avanti fino al verdetto di assoluzione. La stessa Corte presieduta da Lignola, peraltro, a ottobre 2001 aveva rimesso in libertà l'agente, arrestato all'indomani del delitto, decidendo che non sussistevano più le esigenze cautelati a suo carico.La sera del 20 luglio 2000 il giovane Mario, studente all'istituto Nautico di Bagnoli ed incensurato, non si era fermato all'alt della Polizia, che lo aveva fermato perché guidava il motorino senza indossare il casco. Un colpo partito dalla pistola di Tommaso Leone gli trapassò il polmone, uccidendolo sul colpo. Durante il processo di primo grado i difensori della famiglia Castellano, Gaetano Montefusco e Sebastiano Fusco, avevano fatto riaprire il fascicolo esistente alla Procura di Bari e relativo ad un precedente conflitto a fuoco che aveva visto sotto accusa per un episodio analogo lo stesso agente Leone. Una vicenda rapidamente archiviata. Non così l'omicidio di Agnano, per il quale Leone viene giudicato col rito abbreviato e condannato dal gup Alfonso Barbarano a dieci anni di reclusione (il pm Michele Del Prete aveva chiesto la condanna a 16 anni). Poi il giudizio d'appello davanti alla Corte presieduta da Lignola e l'assoluzione. La storia, comunque, non é finita. A parte l'apertura dell'inchiesta al Csm per il presidente Lignola, da registrare infatti altri colpi di scena. Intanto, le fasi del giudizio civile tuttora aperto al tribunale di Napoli per conto del gemello di Mario, Lorenzo Castellano, ad opera del difensore Gaetano Montefusco. E poi la recentissima condanna in primo grado inflitta dal tribunale di Roma a Giampaolo Pansa e all'Espresso per un Bestiario in cui il celebre giornalista, all'indomani dell'omicidio di Agnano, tracciava un quadro assai poco benevolo della personalità di Mario e del suo contesto familiare.
LA STRANE VERITA' DEI PERITI La storia, qualche volta, si ripete. E un procedimento analogo a quello avviato al Csm per il caso Castellano potrebbe aprirsi in margine al "processo senza processo" per l'assassinio di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, durante il G8 di Genova. Mentre infatti la famiglia del giovane, dopo aver rinunciato al ricorso in Cassazione contro il provvedimento che ha scagionato il carabiniere Mario Placanica, intraprende la strada del ricorso alla corte europea per i diritti dell'uomo, viene alla luce nelle ultime settimane un editoriale che Paolo Romanini, il perito balistico che firmò la perizia "assolutoria", aveva scritto un mese dopo i fatti di Genova, a settembre 2001, sulla rivista Tac Armi, di cui é direttore responsabile. Spingendosi ben oltre le argomentazioni pubblicate da Lignola sul Roma in merito alla vicenda Castellano, con perfetta mira Romanini centra il bersaglio: "Carlo Giuliani é stato ucciso da un suo coetaneo terrorizzato e ferito, mentre infieriva con inaudita violenza contro un mezzo dei Carabinieri, cercando con tutto se stesso di arrecare danno e nocumento ai militari". Cinque mesi dopo riceverà l'incarico dal pm Silvio Franz di guidare la task force di periti per il caso Giuliani. Pietro Lignola avrebbe dovuto, secondo l'ipotesi formulata dal Csm, astenersi. E Romanini? Se anche Franz aveva deciso di fidarsi ciecamente di lui, non avrebbe dovuto rinunciare a quell'incarico, dopo aver mandato in stampa una sua versione dei fatti così netta e schierata? Perito ovunque dei principali casi giudiziari italiani (dal delitto Calabresi a Marta Russo, passando attraverso Michele Profeta e perfino il mostro di Firenze), Romanini é in qualche modo l'uomo che fa da trait d'union fra la vicenda Castellano e l'inchiesta sulla morte di Giuliani. Due storie speculari, dal momento che a sedere sul banco degli assassini sono, nel primo caso, la Polizia e, nel secondo, i Carabinieri. Per Castellano Romanini viene nominato nel giudizio di primo grado. Dopo il lavoro svolto a Napoli compila un documento che sovverte la tesi della difesa di Leone: il colpo non sfuggì in maniera accidentale per una caduta, ma fu sparato volontariamente. La polizia finisce KO. A ribaltare quella perizia aveva provveduto, nel giudizio d'appello, il perito scelto dalla Corte di Lignola, l'architetto Pietro Margiotta, titolare nel napoletano di una piccola società dedita alle ristrutturazioni edilizie. Nelle indagini per l'omicidio Giuliani Romanini viene chiamato a coordinare una rosa di periti già passati alla ribalta delle cronache: Nello Balossino, Pietro Benedetti e Carlo Torre. Ma chi é davvero Romanini? E quale fondamento hanno le voci di tribunale che gli attribuiscono "un passato trascorso a farsi le ossa nel Cis di Parma (oggi Ris, ndr), prima di "mettersi in proprio" ed esercitare la libera professione"? Nessun documento é stato trovato, ad oggi, che possa dimostrarlo, anche perché il curriculum dei consulenti é un documento che i magistrati custodiscono - come é loro dovere - con il più rigoroso riserbo. Esistono tuttavia alcune coincidenze che meritano di essere approfondite. Qualche indizio. Paolo Romanini é fra i pochi italiani membri della Forensic Science Society, l'organismo britannico che gli ha rilasciato il diploma internazionale in Firearms Examination (titolo che può essere rinnovato ogni cinque anni, ma solo in base a nuove esperienze accumulate). A convalidare il diploma della Forensic Science Society é l'Università della Strathclyde, l' ateneo scozzese (ha sede a Glasgow) che risulta tra i soci dell'European Network of Forensis Science Institut. Fondatore italiano dell'Enfsi é il Racis dei Carabinieri. Sorto a dicembre del 1955, il Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche fino al '99 era denominato CCIS (Centro Carabinieri Investigazioni Scientifiche), termine ancor oggi usato dagli inquirenti più anziani. In origine il reparto dipendeva dalla linea addestrativa della Scuola Ufficiali Carabinieri poi, sempre dal 1999, é passato alle dipendenze della linea cosiddetta speciale, vale a dire quella della Divisione Carabinieri Polidoro. Roma, Messina e Parma sono le tre centrali operative di punta. In particolare, quella della città emiliana é la direzione competente su tutta l'Italia centro-settentrionale. Proprio per tale attribuzione il Racis di Parma, detto comunemente Ris e guidato dal colonnello Luciano Garofano (uno dei massimi esperti italiani di balistica, come Romanini) indaga sul delitto di Cogne e sui fatti di Genova. Tra gli Istituti Forensi (come l'Enfsi) ed i reparti del Racis esiste "una costante osmosi tecnico-scientifica", si legge nei documenti esplicativi sull'attività del Reparto. Il fine é, naturalmente, quello del reciproco aggiornamento. E proprio per dar vita ad una più stretta sinergia, il Racis e gli specialisti Enfsi (tra i quali figura Paolo Romanini) hanno dato vita da qualche anno ad uno specifico gruppo di lavoro denominato "La scena del crimine". io sparo che me la cavo Quarantanove anni, nato e vissuto a Parma, fin dal 1991 Paolo Romanini aveva messo a frutto la passione per la carta stampata pubblicando con l'editrice Olimpia il volume Cartucce per armi corte. Nel 1994 fa il suo ingresso come consigliere d'amministrazione nella srl Editrice Leone. Prende il posto di Paolo Tagini, altro esperto di coltelli e pistole, che lascia la compagine editoriale probabilmente per dedicarsi alla sua attività di responsabile piemontese della Lega Nord. Tagini, che diventerà poi parlamentare del partito di Bossi (e in questa veste sarà al centro, nel 1996, di un'inchiesta aperta dalla Procura di Roma con le accuse di falso ideologico e sostituzione di persona), é coautore del volume significativamente intitolato Io sparo che me la cavo (Leonardo Facco Editore), nonché attuale vicedirettore della rivista specializzata Armi Magazine. 50 mila euro come capitale sociale ed una prestigiosa sede nel cuore di Milano, in piazza San Babila 5, Editrice Leone vede nel suo oggetto sociale le destinazioni normalmente previste per qualsiasi azienda editoriale ("Produzione, pubblicazione e distribuzione di libri e riviste, nonché tutte le attività connesse"). Strano, perciò, che a detenerne il capitale sociale sia un personaggio noto per tutt'altre attività. Si tratta di Carlo Rinaldini, proprietario dell'editrice di Tac Armi sia a titolo personale che attraverso il colosso Iprei, Società Italiana Programmi e Investimenti, con quasi 7 miliardi e mezzo di vecchie lire in dote. 61 anni, mantovano, titolare di Iprei insieme alla cinquantanovenne Maria Luisa Leoni (che insieme a lui controlla anche altre corazzate finanziarie, come la spa bergamasca Prosimet, quasi 4 miliardi di capitale), Rinaldini figura tra i vertici della potente Assoconsulenza in qualità di "presidente della Richard Ginori". Cosa hanno a che vedere le celebri porcellane da tavola con la rivista su polveri da sparo ed armi da fuoco diretta dal superperito Romanini? Il mistero resta, ma qualche dato interessante arriva proprio dalla storia della Richard Ginori. Fondata a fine del secolo scorso, la società nel 1970 passa sotto il controllo della Finanziaria Sviluppo di Michele Sindona, pochi anni prima che il delitto di quest'ultimo diventasse uno dei casi giudiziari più controversi nella storia italiana recente. Nel '73 la Liquigas, amministrata dal finanziere Raffaele Ursini, acquista da Sindona la Richard Ginori, nel '77 la cede al gruppo assicurativo Sai, che pochi anni dopo passa nelle mani di Salvatore Ligresti. Sarà proprio quest'ultimo, nel 1997, a trasferire la Richard Ginori nelle mani di Carlo Rinaldini, che la detiene tuttora. Di questi passaggi si occupa il giornalista milanese Gianni Barbacetto su Società Civile, ricostruendo la personalità di Ligresti: "il suo primo maestro é Michelangelo Virgillito, suo compaesano di Paternò, grande corsaro di Borsa nella Milano del "miracolo economico". Il secondo é Raffaele Ursini, l'uomo che eredita da Virgillito il gruppo Liquigas e lo porta rapidamente al fallimento. Da loro Ligresti impara a muoversi nel mondo degli affari immobiliari e della finanza. Da Michele Sindona rileva la Richard Ginori, da Ursini rileva il primo pacchetto d'azioni Sai". Braccio destro di Rinaldini é Giacomo Falcone, 57 anni, che figura nello staff di vertice tanto in Iprei che nella controllata Cramer srl e nella Editrice Leone, tutte con sede nella canonica piazza San Babila 5 (Iprei si é spostata, ma solo da qualche mese, a Vicenza). 61 anni, nativo di Reggio Calabria, anche Falcone si mostra particolarmente attivo nel settore dei vasellami e degli articoli per la casa. E' infatti proprietario di quote in sigle come Vaserie Venete, Decorazioni di Chieti, Arca Arredo Casa e Tessitura di Cislago, tutte tra Milano, Mantova e Treviso. Nella Editrice Leone Falcone riveste lo strategico ruolo di presidente del cda fin dal 1993. Quello stesso anno il tribunale di Mondovì dichiarò fallita la sua Impredit, una srl da 90 milioni dedita all'edilizia di cui era amministratore unico. Tre dunque, ad oggi, gli amministratori dell'Editrice Leone: Falcone, Romanini e Rinaldini, quest'ultimo anche proprietario dell'intero pacchetto. Appena poche settimane fa, il 28 agosto 2003, é uscito infatti di scena Pierangelo Coviello, 33 anni, presente nel cda fin dal 1999 ed anche lui, come Rinaldini e Leoni, superimpegnato nel settore delle stoviglie, come dimostra la sua presenza nello staff di Casa Italiana e del Gruppo Italiano Tavola, sede a Treviso. SILENZIO, PARLA IL PERITO Mentre porta avanti le consulenze peritali per i casi giudiziari più clamorosi degli ultimi anni (non disdegnando, però, di accettare consulenze su vicende marginali, come quella affidatagli lo scorso giugno sulla pistola di un disoccupato sardo sorpreso dai Carabinieri mentre tentava di sfondare la saracinesca di un piccolo ufficio postale di Arzana con un piede di porco), col suo mensile Tac Armi Romanini sponsorizza ogni anno l'Exa, esposizione internazionale di ordigni organizzata a Brescia, dove ha sede la Valsella, leader mondiale nella produzione di mine antiuomo ed epicentro delle manifestazioni di protesta annualmente inscenate ad opera di associazioni umanitarie in arrivo da ogni continente. Intanto l'esperto balistico parmense non si risparmia, tenendo lezioni presso la Scuola di Medicina Legale all'università di Udine, o - più recentemente - all'ateneo di Bologna, dove insegna alla Scuola di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale, che forma gli iscritti all'albo dei difensori d'ufficio. Altra partecipazione di rilievo é poi quella svolta da Romanini, in qualità di relatore principale, al congresso inaugurale della Mediterranean Association of Forensic Sciences, fondata un anno fa a Reggio Calabria da Aldo Barbaro e presieduta da Said Louhalia dell'università di Casablanca. Tutte presenze destinate ad accrescere fama, onore e parcelle di un luminare della balistica forense come Romanini. Ma quanto guadagna in genere un perito? Le cronache parlano apertamente di due pesi e due misure: quattro soldi ai consulenti semisconosciuti, mai passati agli onori delle cronache e, dall'altra parte, consistenti onorari liquidati da tribunali, procure, imputati e parti civili. Un fatturato, quello per le consulenze peritali, impennatosi da circa dieci anni, dopo l'entrata in vigore del nuovo rito nella celebrazione del processo penale, con l'ampliamento dei poteri d'indagine connessi alla difesa. "Qualcuno sa - protestava per esempio un perito del tribunale torinese, Roberto Testi, all'indomani della riapertura delle indagini sul caso Marta Russo - quanto viene pagato un perito per una consulenza medico legale? A Torino sono 476 mila lire lorde, che al netto diventano poco più di 200 mila". Questo, però "non é certo il caso - aggiungeva Testi - dei professori universitari o dei grossi nomi". Per una consulenza come quella del caso Castellano il tribunale di Napoli liquida in media una parcella che si aggira sui 10 milioni di vecchie lire. "Ma si tratta di cifre - spiega un avvocato - destinate a crescere, e di molto, se si tratta di vicende di grande rilievo nazionale affidate a consulenti di fama". Soprattutto, poi, se a pagare sono privati cittadini che ne hanno le possibilità economiche. Come perito della difesa Paolo Romanini scende in campo, ad esempio, affiancando i legali del serial killer Michele Profeta. La sua consulenza non basterà a scagionare l'autore degli efferati delitti di Padova. La Corte d'Assise d'Appello di Venezia lo condanna infatti all'ergastolo ritenendolo colpevole di due omicidi e di tentata estorsione ai danni dello Stato. Una sentenza basata anche sulla perizia della pubblica accusa (affidata a Luciano Cavenago, docente all'università di Genova) e confermata dalla suprema Corte a febbraio di quest'anno. Dal commissario Calabresi a Profeta e a Marta Russo, fino a Mario Castellano e Carlo Giuliani. Una lunga esperienza, quella di Romanini. Sufficiente a metterlo al riparo dai rischi connessi alla sua professione. In primis quello descritto nell'Enciclopedia delle armi e riferito ai periti che hanno prestato la loro opera presso Carabinieri o forze di Polizia: i giudici dovranno tener presente che essi "possono essere inclini a propendere per le tesi dell'accusa, non in mala fede, ma per una inconscia e umana deformazione professionale o perché influenzati da superiori meno indipendenti di loro". Oppure, aggiungiamo noi, perché già pronunciatosi sui fatti attraverso la stampa, proprio come é accaduto a Paolo Romanini. Un'accusa prontamente rigettata da Romanini. Intervistato dal Manifesto, che aveva portato alla luce l'editoriale di Tac Armi sui fatti di piazza Alimonda, il professionista si chiama fuori ("quando scrivevo l'articolo ero in veste di giornalista, quando ricevo un incarico io assumo una veste tecnica e chiudo la porta a tutto"), senza dimenticare di ribaltare l'accusa sul collega, il sindonologo Carlo Torre: "Il discorso del sasso (quello che avrebbe "deviato" il proiettile sparato in aria dal carabiniere Mario Placanica, uccidendo Giuliani, ndr) é stato Torre a tirarlo fuori, non io, e Balossino ha poi lavorato sulle immagini". Vedremo se ora, dopo che il Csm ha aperto il procedimento disciplinare su Lignola, altri organismi di verifica potranno cominciare a chiedersi come sia stato possibile per la Procura genovese affidare il coordinamento del pool di consulenti a Paolo Romanini, autore di quell'articolo e vicino al Racis di Parma.
DOPO RUBOLINO - LA VERA STORIA DELLE MORTI ECCELLENTI IN VATICANO
L'INCHIESTA 1
MONSIGNOR MISTERO A venticinque anni dalla scomparsa di Papa Luciani un'altra morte improvvisa mette in fibrillazione le alte sfere vaticane. E' quella di Giorgio Rubolino, uomo chiave nelle prime indagini sull'assassinio di Giancarlo Siani. Ma anche il personaggio tirato in ballo davanti alla Commissione Telekom Serbia. Un uomo che sapeva troppo? Cerchiamo di capirlo, partendo da altri misteri vaticani. di Andrea Cinquegrani Vaticano in fibrillazione. Santa Sede sotto i riflettori. Torna alla ribalta la misteriosa - e mai chiarita - morte di papa Luciani dopo appena 33 giorni di pontificato. Ne parla Giovanni Minoli nella nuova serie di Mixer. Riaffiorano dubbi, incongruenze, versioni contrastanti, una verità ufficiale poco, pochissimo credibile. Un'autopsia mai fatta, rapide perizie nel segreto delle stanze vaticane, un cuore normale che improvvisamente cede; l'incredibile storia delle gocce di cardiotonico ingurgitate in eccesso dal papa, l'altra - invece - a base di una digitalina che non lascia traccia. Morto in piedi, oppure a letto? Mentre leggeva sacre scritture o abbozzava il nuovo organigramma dei vertici pontifici? Oppure cominciava a mettere nero su bianco le nuove regole da impartire a uno Ior recalcitrante davanti a ogni ipotesi di trasparenza, col 'nemico' Marcinkus sempre alacremente all'opera? E poi il sogno di una suora, ricordato in uno scritto da monsignor Balthazar: due ombre si introducono furtive nella camera da letto di Luciani e nel suo bicchiere fanno scorrere il liquido di una misteriosa pozione. Dall'Inghilterra, intanto, lo scrittore-giornalista David Yallop - autore per Tullio Pironti di una celebre ricostruzione di quella 'morte' - continua con pervicacia a sostenere la sua tesi: il papa venne 'suicidato'. Così come venne 'suicidato', sotto il ponte dei frati neri lungo il Tamigi a Londra, il patròn del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi. L'inchiesta è riaperta, la famiglia dopo tanti anni vuole finalmente giustizia. "Il rituale dell'esecuzione - scrive l'avvocato investigativo californiano Jonathan Levy nel volume Tutto quello che sai è falso edito in Italia da Nuovi Mondi Media - è tipicamente massonico, con delle grosse pietre nelle tasche". E la matrice? Levy punta dritto in una direzione: quella dei poteri forti della Chiesa, rappresentati secondo lui dall'Opus Dei, che - scrive - "ha desiderato ardentemente la Banca Vaticana e i cui quartieri generali si trovano casualmente a Londra". La spiegazione, ricavata dalle conversazioni con un grosso banchiere internazionale, viene così sintetizzata: "Mi spiegò che la banca di Calvi era sull'orlo del collasso a causa della sparizione di centinaia di milioni di dollari passati attraverso i flussi finanziari dello Ior che erano collegati al riciclaggio di danaro della mafia. Preso dalla disperazione Calvi si trasferì a Londra per ottenere un pacchetto finanziario di salvataggio proveniente da un rappresentante anziano dell'Opus Dei". L'operazione però, secondo la ricostruzione di Levy, non andò in porto e il corpo di Calvi fu trovato 'appeso' sotto il ponte dei Blackfriars. L'altra pista porta direttamente alla mafia, che si sarebbe vendicata dell'affronto subito da Calvi, il quale non avrebbe restituito un'ingente somma di danaro da 'ripulire' (utilizzato invece per riossigenere le casse dell'Ambrosiano). Sul fronte dell'esecuzione, comunque, fa ancora capolino la pista di camorra: "nei giorni in cui Roberto Calvi era a Londra - ricordano a Scotland Yard - vennero segnalate diverse presenze interessanti: quella di Flavio Carboni e di alcuni camorristi, fra cui Vincenzo Casillo". Luogotenente di Raffaele Cutolo, soprannominato 'o nirone, in contatto con i servizi deviati e in particolare col faccendiere Francesco Pazienza, Casillo due anni dopo saltò per aria a Roma in un'auto imbottita di tritolo. A fine settembre scorso, poi, due botti. A Londra la polizia decide di riaprire le indagini su quella morte, a Roma l'inchiesta portata avanti dai pm Luca Tescaroli (che ha già indagato sulla strage di Capaci) e Maria Monteleone (casi Mitrokin e "spectre" all'italiana) si arricchisce di una verbalizzazione esplosiva: un pentito di mafia, Vincenzo Calcara, per l'omicidio Calvi tira in ballo Giulio Andreotti, elementi deviati dello Stato e dei Servizi, massoneria e ambienti vaticani. E sotto il Cupolone ci porta anche un'altra esistenza - e un'altra fine - avvolta nel mistero: quella di Giorgio Rubolino, morto in piena calura ferragostana, immediata la diagnosi d'infarto che non perdona, niente autopsia, funerali in pompa magna in Vaticano, poi il silenzio. Fino alla decisione dei magistrati romani, dopo neanche un mese, di vederci più chiaro, chiedendo la riesumazione del cadavere per poter effettuare una normale autopsia. Ma chi era Rubolino? UNA VITA VORTICOSA Il suo nome balza alle cronache nazionali per l'omicidio di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso il 23 settembre 1985 (vedi riquadro). Due anni dopo il procuratore generale del tribunale di Napoli, Aldo Vessia, avoca a sé l'inchiesta bollente, fino a quel momento capace solo di racimolare una serie di flop. Vessia vola negli Usa, e interroga Josephine Castelli, un'avvenente bionda al centro di strani giri. Dopo un paio di mesi scattano le manette per il capoclan di Forcella Ciro Giuliano, per un 'gregario', Giuseppe Calcavecchia, e per un insospettabile, il ventiseienne Giorgio Rubolino, intimo di Josephine, una stirpe di magistrati nel pedigree (il padre è stato pretore a Torre Annunziata), già inserito negli ambienti che contano (fra le alte prelature soprattutto) e nella Napoli bene. Per lui inizia il calvario, quattordici mesi nel carcere di Carinola, fino a quando una delle tante toghe che si sono alternate al capezzale di un'inchiesta che non riesce a decifrare colpevoli (esecutori e, soprattutto, mandanti), Guglielmo Palmeri - sorrentino d'origine e in ottimi rapporti con la famiglia Rubolino - lo rimette in libertà (due mesi prima erano stati rilasciati anche Giuliano e Calcavecchia). Cade il teorema Vessia, non regge l'ipotesi di un omicidio eseguito dai Giuliano su ordine dei Gionta di Torre Annunziata. E, soprattutto, sparisce la pista di via Palizzi. La pista che portava alla casa d'appuntamenti, frequentata da giovanissime squillo (tra cui Josephine e la sorella Pandora), e da vip della Napoli che conta: in primis, magistrati e politici. Fra le toghe, spicca il nome di Arcibaldo Miller, per anni pm di punta alla procura di Napoli (sua la maxi istruttoria per il dopo terremoto finita in prescrizione per tutti) e oggi 007 di punta del guardasigilli Castelli. Lo stesso Miller - viene precisato in un documento al vetriolo elaborato dalla camera degli avvocati penali di Napoli nel 1998 - ha subìto un procedimento per "trasferimento d'ufficio" a causa di una serie di fatti, fra cui "l'aver frequentato una casa di appuntamenti gestita da pregiudicati affiliati alla camorra negli anni 1984-1985 in via Palizzi". Lo stesso Miller seguirà il caso Siani: collaborerà proprio con Palmeri per cercare di sbrogliare quel pasticciaccio brutto. Sempre più brutto. E, soprattutto, sempre senza colpevoli. DA ROMA A LONDRA Torniamo a Rubolino. Riacquistata la libertà, non riesce però a ritrovare ancora la serenità. Vessia, infatti, ricorre contro la scarcerazione dei tre. Trascorre un anno e, a dicembre 1989, la Cassazione respinge il ricorso, confermando l'impostazione assolutoria di Palmeri. Il quale, però, non riesce ancora a dare un volto, e tanto meno un nome, ai colpevoli. Né agli esecutori, figurarsi ai mandanti. Ma come era saltato fuori il nome di Rubolino per il caso Siani? Non solo dal filone di via Palazzi, ma anche in seguito alle primissime indagini sulle cooperative di ex detenuti che, proprio a partire dal 1985, a Napoli stavano aggregandosi e iniziando a bussare con forza ai portoni di palazzo San Giacomo. Il Comune - allora retto dal socialista Carlo D'Amato - nell'autunno '85 diede disco verde per l'ingresso fra i ranghi di ben 700 detenuti raggruppati in sei liste ("La carica dei settecento", titolò la Voce in una cover story del dicembre 1985): nei mesi seguenti un putiferio, una fortissima polemica a sinistra, con una Lega delle cooperative alla deriva. "E' in quel contesto che veniva fuori anche il nome di Rubolino - ricordano a palazzo di giustizia - una storia intricata, tra minacce, camorra, affari e promesse. Insomma, una vera giungla". Rubolino, riuscì a cavarsela. "Ma non la smetteva di ficcarsi sempre in storie pericolose, sbagliate, comunque tra soldi, salotti e personaggi poco raccomandabili". Esce con la ossa rotte e il morale a terra, Rubolino, da queste vicende. Si trasferisce a Roma. "Ha cercato di buttarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Ce l'ha messa tutta. Ha fatto anche un sacco di opere di bene, volontariato, assistenza", racconta un amico. "Non c'è riuscito a rompere col passato - aggiunge un operatore finanziario capitolino - aveva perso il pelo ma non il vizio, continuava a frequentare ambienti dai miliardi facili e spesso inesistenti". Due versioni contrastanti. Un perverso destino, comunque, sembra perseguitarlo. Nel 1999 ri-finisce nelle galere, questa volta londinesi, per una presunta truffa da 100 milioni di sterline ai danni di una vera e propria istituzione britannica, la Cattedrale di San Paolo. Il classico 'pacco' organizzato secondo il miglior copione di Totò formato fontana di Trevi: siamo venuti qui (i Magi sono cinque, due italiani, un finlandese, un canadese e un americano) per donarvi la bellezza di 50 milioni di sterline. Unica piccola, microscopica condizione, quella che voi depositiate per dieci giorni, appena dieci giorni, il doppio, ovvero 100 milioni, su un conto svizzero. Nessuno li toccherà quei soldi, assicurano. La truffa non riesce, i cinque finiscono in gattabuia, lui, Rubolino, viene messo in libertà e prosciolto da ogni accusa. Anche la procura di Napoli, che si era accodata con un suo filone investigativo, lo scagiona. E lui avvia un procedimento per ottenere un indennizzo per quella ingiusta detenzione. "Ne aveva raccolti, comunque, di soldi per le denunce fatte contro alcuni giornalisti che lo avevano accusato per Siani - ricorda un amico - soldi che donò in beneficenza". STANLEY & PROMAN Un anno fa la svolta sembra dietro l'angolo. Decide di cominciare a far sul serio l'avvocato e, quindi, di iscriversi al consiglio dell'ordine di Roma. Raccoglie la documentazione, presenta la domanda, altra delusione: c'è ancora una pendenza con la giustizia, per via di un procedimento non ancora chiuso, millantato credito. "Non è cosa - raccontano ancora nel suo entourage - non è cosa, ha pensato. Ed è ripiombato nei suoi problemi, nella sua tristezza di prima, quando subiva accuse e attacchi". La voglia di business, comunque, non lo abbandona: per lui è una seconda pelle, una droga, non può farne a meno. Ed eccolo entrare nei santuari della finanza, acquisire partecipazioni azionarie, frequentare il mercato ristretto e la City. Un bel giorno, diventa il padrone di una misteriosa sigla, Proman. A quel punto, le voci cominciano a rimbalzare. Perché lui risulta "intestatario fiduciario". Di chi, di cosa? Ma vediamo cosa è Proman. A quanto pare si tratta di una società a responsabilità limitata. Nel suo portafoglio spicca una partecipazione di lusso, il 25 per cento delle azioni Stayer, una grossa sigla nel settore elettrico, avamposti a Ferrara e Rovigo, interessi in mezzo mondo. Un'altra consistente fetta di Stayer - pari al 29 per cento del pacchetto azionario - fa capo a Efi, ovvero European Financial Investments, a sua volta controllata da un'altra sigla, Danter. Efi, dal canto suo, naviga in acque agitate, trovandosi in amministrazione controllata, per i problemi finanziari che stanno passando i fratelli Bergamaschi, suoi soci di riferimento, e un pignoramento azionario effettuato da un creditore, la Euroforex. E' per questo motivo che l'assemblea straordinaria di Stayer convocata lo scorso 27 agosto per deliberare l'aumento di capitale a 10 milioni di euro, è saltata. Ma non solo per questo. Ecco cosa scrive, proprio quel giorno, un dispaccio dell'agenzia Reuter: "Il 26 agosto scorso Stayer ha ricevuto una comunicazione dall'intermediario presso cui sono depositati i titoli che informava del decesso di Rubolino e affermava che i diritti sulla partecipazione spettano ai suoi eredi. Stayer - viene aggiunto nel comunicato - non sa se e come Proman intende resistere contro questa posizione dell'intermediario". Resta il mistero Proman. Nei cervelloni Cerved, collegati con tutte le camere di commercio italiane, non v'è traccia di Proman spa. Né si segnala alcuna Proman nel cui carniere figuri una qualsiasi partecipazione azionaria di Stayer. Un bel rebus. Val la pena, comunque, di scorrere la lista dei soci targati Stayer. A parte due medi azionisti (Gianfranco Fagnani e Roberto Scabbia), fanno capolino quattro sigle. A parte un'italiana (BSPEG SGR spa, una società di gestione del risparmio privato, con 140 mila azioni), le altre tre sono estere. Le quote minori fanno capo a Electra Investiment Trust Plc (26 mila azioni) e a Power Tools International (30 mila azioni). A far la parte del leone c'è Ipef Parters Limited (664 mila azioni), sigla londinese. Osserva un operatore finanziario milanese: "Potrebbe esserci la presenza di Ipef nell'azionariato di Proman. Il mistero comunque è fitto". E resta un mistero, per ora, la destinazione finale delle azioni Proman: rimarranno nelle mani delle due sorelle di Rubolino, o che fine faranno? E cosa c'è dietro il reticolo di sigle, incroci azionari, spesso e volentieri giocati oltremanica? Un gioco forse pericoloso? Il 28 luglio scorso, poi, l'infarto. Una vita stroncata a 42 anni, dopo un'inutile corsa all'Aurelia Hospital, "dove però è giunto privo di vita", commenta in un dettagliato reportage il Mattino. L'autopsia - scrive il solerte cronista, Dario Del Porto - "ha chiarito immediatamente la natura del malore". E a scanso di equivoci aggiunge: "Del caso pertanto non è stata neppure interessata la procura di Roma". E ancora, ad abundantiam: "sulle ultime ore dell'uomo non sembrano esserci misteri. Rubolino è stato colpito da un arresto cardiocircolatorio manifestatosi durante la notte nell'abitazione della capitale dove si era trasferito ormai da anni". Altri commenti nel racconto della cerimonia funebre - che si è svolta nella chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, l'unica parrocchia dello Stato Vaticano - per la penna di un vaticanista doc, Alceste Santini. "Si può, quindi, dire che Giorgio Rubolino ha avuto il privilegio di avere avuto la celebrazione delle esequie, non solo in una chiesa ambita da molti nei momenti di gioia o di dolore come nel suo caso, ma in un luogo, qual è lo Stato Città del Vaticano, in cui la penitenza si intreccia con il perdono come sofferente superamento dei peccati e degli atti illeciti commessi nella vita". Equilibrismi logici e sintattici a parte, Santini riesce comunque a porsi qualche interrogativo. Per celebrare in Sant'Anna ci vuole la chiave giusta: "occorre una particolare autorizzazione - scrive Santini - ciò rivela che chi ne ha fatto richiesta aveva ed ha entrature nel mondo vaticano. I parenti? Gli amici? Non è dato saperlo". Avvolti nel dubbio amletico, riusciamo però a sapere che fra le personalità presenti alla cerimonia c'erano "i parenti e gli amici di Giorgio, fra cui il senatore a vita Emilio Colombo e altri esponenti della borghesia napoletana". A officiare la messa funebre il cappellano delle guardie svizzere, Alois Jehle. Caso Siani a senso unico Caso Siani. Chiuso per sentenza. La Cassazione ha ormai inchiodato i colpevoli dei clan torresi che - secondo la ricostruzione del pm Armando D'Alterio - decisero ed eseguirono quell'omicidio. Una volta tanto, la parola fine. Tutto chiaro, allora? Molti dubbi restano in piedi. Vediamo quali. Il movente. Debole. Debolissimo. Un articolo scritto mesi prima. "Per punire lo sgarro", hanno spiegato gli inquirenti. "In quell'articolo Siani faceva capire che i Nuvoletta avrebbero tradito i Gionta. Per mettere le cose a posto e recuperare l'onore, la cosa andava lavata col sangue". Credibile? Possibile che una camorra allora più che mai rampante avesse deciso di tirarsi addosso riflettori, inquirenti, forze dell'ordine? Un articolo non (ancora) scritto è molto più pericoloso di uno già scritto. Non ci vuole la maga per intuirlo, solo un minino di fiuto e buon senso. Quello che non sembra aver smarrito Amato Lamberti, presidente della Provincia di Napoli e a quel tempo (siamo nel 1985) responsabile dell'Osservatorio sulla camorra, avamposto, in quegli anni, per scrutare, capire e radiografare i movimenti, le mutazioni e le infiltrazioni della Camorra spa. Lamberti fu l'ultima persona a sentire Giancarlo, avevano appuntamento per la mattina dopo, ma "lontani dal Mattino", come raccomandava Giancarlo. Un appuntamento andato a vuoto, perché la sera prima l'abusivo e ormai prossimo praticante giornalista veniva freddato a bordo della sua Mehari in piazza San Leonardo al Vomero, a un passo da casa. "Non era particolarmente preoccupato - ricorda Lamberti - però doveva dirmi una cosa che gli premeva. Ed era urgente. Stava lavorando ad un'inchiesta per la rivista dell'Osservatorio sugli intrecci politica-affari-camorra nell'area torrese. Uno dei grossi affari, allora, era rappresentato da un'area, il quadrilatero delle carceri. E lui stava mettendo il naso in quei rapporti, sia sui referenti locali, che su quelli più in su, di imprese e camorristi". A corroborare la tesi di Lamberti, un docente universitario, Alfonso Di Maio, padre di uno dei pm più in vista, oggi, alla procura di Salerno. La Voce lo intervistò dieci anni fa. "Avevo incontrato diverse volte Giancarlo in quegli ultimi mesi - affermava Di Maio - stava lavorando, mi raccontava, a una grossa inchiesta sugli appalti nell'area stabiese. In particolare, voleva capire se dietro al paravento di un'impresa ci fosse lo zampino di qualche politico eccellente e operazioni di riciclaggio della camorra". Il nome dell'impresa era Imec (del gruppo Apreda, poi acquirente addirittura della Buontempo Costruzioni Generali), quello del politico Francesco Patriarca, ras gavianeo della zona, ex sottosegretario alla marina mercantile. Di Maio cercò di raccontare quei fatti alla magistratura. Senza riuscirci. "Mi presentai in procura. Parlai col dottor Arcibaldo Miller. Mi disse che ne avrebbe riferito al dottor Guglielmo Palmeri che seguiva di persona l'indagine. Sono andato due volte in procura, dietro appuntamento, ma non sono stato mai ricevuto. Allora non mi fu data la possibilità di verbalizzare quel che sapevo sulle ultime settimane di Siani". Parole dure come pietre. Mentre decine e decine di testi hanno fatto passerella davanti alla mezza dozzina e passa di toghe che si sono alternate al capezzale di un processo quasi impossibile. Del resto, é lo stesso fratello del cronista, Paolo, pediatra, a rivelare qualche ombra nell'inchiesta, un 'buco nero' rimane ancora oggi lì a lasciare spazio ai dubbi. "Giancarlo lascia la redazione di Castellammare - ricorda - va in cronaca di Napoli, scrive sempre meno di Torre ma si interessa sempre più della ricostruzione post terremoto e dei rapporti camorra-appalti. Stava preparando un libro e i materiali, dopo la sua morte, sono spariti". Una ricostruzione che lega perfettamente con quelle di Lamberti e Di Maio. Altri, però, ancora oggi in procura storcono il naso. "C'era un'altra pista, battuta soltanto in fase iniziale. E solo parzialmente. E' la pista di via Palizzi, la casa di appuntamenti, i suoi segreti forse inconfessabili. Tanti anni fa ne parlò esplicitamente Corrado Augias nel suo Telefono GialloS poi il silenzio più totale". Chissà se il regista Marco Risi, arrivato un paio di volte a settembre a Napoli per completare il copione del film su Giancarlo (ispirato in parte a "L'abusivo", il libro di Antonio Franchini, sceneggiatura dell'esperto di misteri Andrea Purgatori, ex Corsera), riuscirà a vedere oltre i muri di gomma che ancora circondano quella tragica morte. "Emerge - dice Risi alla Voce - un delitto tuttora carico di misteri e interrogativi rimasti senza risposta, nonostante i processi e le sentenze. Questa sarà la chiave del mio film su Giancarlo". Guardie e killer Primavera vaticana '98. Tre morti avvolte nel mistero. Sono le nove di sera e una suora - sulla cui identità verrà sempre mantenuto il più stretto riserbo - entra nell'alloggio di servizio del neo comandante delle Guardie Svizzere, Alois Estermann. Davanti ai suoi occhi una scena raccapricciante: tre corpi, in un mare di sangue, massacrati da revolverate. Quello di Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del vice caporale Cedric Tornay. Ecco come ricostruisce i primi momenti dopo la scoperta Sandro Provvisionato, scrittore e giornalista, nel suo sito Misteri d'Italia. "Tra i primi ad arrivare sul luogo sono il portavoce del papa, Joaquin Navarro Valls, laico di origine spagnola, membro numerario dell'Opus Dei; monsignor Giovanni Battista Re, sostituto delle segreteria vaticana; e monsignor Pedro Lopez Quintana, assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. La scena del delitto non viene sigillata, anzi già alla 21 e 30 sono decine le persone che si aggirano tra i cadaveri. Elementi di prova importanti vengono rimossi o spostati. A differenza di altri episodi avvenuti all'interno del perimetro vaticano, come l'attentato al Papa, nessuna richiesta di collaborazione viene inoltrata alle autorità italiane. Delle indagini si occupa il Corpo di Vigilanza Vaticana. Prima ancora dell'arrivo del magistrato, il Giudice Unico Gianluigi Marrone che arriva sul posto un'ora dopo, mani ignote hanno già provveduto a perquisire non solo l'ufficio, ma anche l'appartamento di Estermann e l'alloggio di Tornay. Quando i corpi verranno rimossi, non sarà adottata alcuna precauzione utile alle indagini. Anche l'autopsia sui tre cadaveri si svolgerà all'interno delle mura vaticane". Detto fatto, non passano nemmeno tre ore - siamo a mezzanotte - e l'infaticabile Navarro Valls può sentenziare: "I dati finora emersi permettono di ipotizzare un raptus di follia del vice-caporale Tornay. E' tutto molto chiaro, non c'è spazio per altre ipotesi". Caso dunque chiuso in 180 minuti, per Valls. Uno 007 perfetto, capace anche di estrarre dal magico cilindro la prova delle prove: una lettera, nientemeno che una lettera d'addio, affidata qualche ora prima (le 19 e 30, precisa Navarro) a un commilitone dal folle vice-caporale con una lacrima e queste parole: "Se mi succede qualcosa, consegnala ai miei genitori". Spiega il portavoce-detective nella rapidissima conferenza stampa, che risolve a tempi di Guinness una matassa altrimenti destinata a intrecciarsi negli anni: la missiva - precisa - è stata consegnata al Giudice Marrone, il quale la darà ai parenti di Tornay in arrivo a Roma. "Spetterà ai familiari del vice caporale - aggiunge Valls - decidere se rendere noto il contenuto della lettera oppure no". Commenta Provvisionato: "Nella fretta l'astuto portavoce della Santa Sede non si rende conto di aver commesso un errore macroscopico. Come si può conciliare un raptus di follia con una lettera scritta almeno un'ora e mezza prima dello stesso raptus? Spesso la fretta è cattiva consiglieraS". Intanto circola già qualche indiscrezione sull'imminente uscita del nuovo libro-choc di Ferdinando Imposimato (autore, con Provvisionato, del volume d'inchiesta sullo scandalo Tav). Al centro, rivelazioni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di una guardia vaticana. Che secondo l'ex magistrato, sarebbe ancora viva.
DOPO RUBOLINO - LE OMBRE SULLA COMMISSIONE TRANTINO LA TERRA DEL VITO E' un copione popolato da personaggi campani, quello di Telekom Serbia. Non solo il pool di consulenti del presidente, ma soprattutto le decine di nomi tirati in ballo, quasi tutti al centro di inchieste della procura di Napoli. Ecco, dalla A alla Zeta, i protagonisti di una vicenda tutta da chiarire, compreso mister Centomila Alfredo Vito. Di Andrea Cinquegrani Una storia germogliata e sbocciata tutta all'ombra del Vesuvio? Possibile che protagonisti, interpreti e comprimari del copione di Telekom Serbia siano quasi tutti napoletani o comunque che le loro multiformi acrobazie (finanziarie, societarie, massoniche etc.) si siano intrecciate dalle nostre parti? Del resto la Campania - negli ultimi anni - è stata teatro di misteriose operazioni arcimiliardarie (o presunte tali), fra intrighi internazionali, cupole più o meno nascoste, servizi deviati, spioni, 007, faccendieri, alti prelati, finanzieri, camorristi, piduisti e chi più ne ha più ne metta. "A cominciare dall'operazione Adelphi - commentano in Procura - è stato un susseguirsi di inchieste che spesso si sono allargate a dismisura. Forse troppo". Molte, infatti, sono abortite, finite in flop, passate ad altra procura, stralciate oppure archiviate. Insomma, una bella fauna giudiziaria Sulle tracce degli affari e dei riciclaggi arcimiliardari targati munnezza si era mossa, una decina d'anni fa, Adelphi, che partendo da Napoli, via mediatori politici e brasseur, passava nel casertano, tra i feudi di Sandokan, Cicciotto e' mezzanotte & C., per approdare fino a villa Wanda, nell'aretino, magione di Licio Gelli. Lo stesso Venerabile, anni dopo, è stato convocato dai magistrati di Torre Annunziata Paolo Fortuna e Giancarlo Novelli a proposito di un altro intrigo internazionale, l'inchiesta Cheque to cheque, che si diramava fino nella profonda Russia del dopo Gorbaciov, tra cappucci, grembiulini e traffici d'uranio. Simile il copione, del resto, nella parallela indagine Phoney Money, condotta dal procuratore capo di Aosta Anna Maria Bonaudo: uno dei nomi di quel 'copione', Gianmario Ferramonti, leghista della prima ora, fa capolino in quelle carte e si ritrova, oggi, nei faldoni di Telekom Serbia. E ancora, sempre dalla procura di Torre Annunziata (contrassegnata nel frattempo dal maxi scandalo che ha coinvolto l'ex numero uno Alfredo Ormanni e il capo dei cancellieri, abile costruttore di fascicoli e processi fasulli) è partita un'altra indagine-fiume i cui rivoli si sono diramati per tutta Italia, fin nel Trentino: al centro, questa volta, traffici di potentissime armi nucleari, uranio, perfine truppe mercenarie con il coinvolgimento di ambasciatori, industriali, finanzieri; rimbalza anche il nome di Giulio Andreotti (ora tornato prepotentemente alla ribalta con le nuove rivelazioni sul caso Calvi e, prima ancora, con la ormai storica condanna a metà: mafioso fino all'80, poi fiero oppositore delle cosche), immortalato in una foto diplomatica con l'ambasciatore-intrallazzatore. Fino alla spy story che ha catalizzato l'interesse dei media per una decina di giorni a metà 2001: la Spectre di casa nostra, quella sorta di intelligence parallela messa su da faccendieri, ex colonnelli, camorristi & fauna varia per creare dossier falsi a carico di questo o quel nemico di turno. In un vorticare di storie, riciclaggi & miliardi che portano fino alla tigre serba Arkan, ai traffici internazionali di prodotti farmaceutici e anabolizzanti, a commerci di droghe e sigarette lungo l'asse Montenegro-Italia. Per aver divulgato alcuni particolari inediti di quell'inchiesta - peraltro non coperti da alcun segreto istruttorio - la redazione della Voce venne perquisita alle 6 di mattina da uomini dei servizi, che sequestrarono anche tutto il materiale rinvenuto (per 40 giorni), più memorie di computer, floppy disk etc. Anche quell'inchiesta, però, si è persa fra le solite nebbie. Ma passiamo in rapida carrellata, nome per nome, protagonisti & interpreti del copione di Telekom Serbia, sui quali la Voce ha indagato e scritto più volte nell'ultimo decennio.
BOBBIO Luigi - Tra i fedelissimi di Agostino Cordova ai tempi del lavoro come pm a Napoli, prima dello sbarco a palazzo Madama tra le fila di An. Per anni ha fatto parte del pool antidroga in compagnia di Paola Ambrosio (anche lei per un paio d'anni 'prestata' alla politica, forzitaliota, presidente del consiglio regionale sotto la giunta Rastrelli). Fiero oppositore dello sciopero in magistratura, è per la figura della giudice-macchina, mero esecutore di leggi: insomma, la toga-computer. Come senatore, fa parte della commissione su Telekom Serbia. BOCCHINO Italo - Per un anno circa commissario di An a Napoli, rampante fra i duri del partito di Fini. Al timone editoriale del quotidiano di destra il Roma - l'ex foglio laurino - supportato dall'afragolese Antonio Pezzella, pezzo grosso nei business targati Poste Italiane. E' genero di Eugenio Buontempo, il costruttore-faccendiere della sinistra ferroviaria (per anni compagno di Paola Ambrosio), socio d'affari di Francesco Pacini Battaglia, protagonista della Tangentopoli partenopea con la chicca della flotta Lauro acquistata per un pugno di soldi. Il nome di Bocchino fa capolino fra le carte della maxi inchiesta su Alta Velocità & dintorni portata avanti dalla procura di Roma e che già vide, a maggio '99, finire in galera - o ai domiciliari - parecchi uomini di An (Antonio Rastrelli, Marcello Taglialatela, Domenico Zuccarone). Fra i soci dell'editrice del Roma figura anche la moglie di Massimo Buonanno, al timone con Agostino Di Falco (anche lui in galera per l'inchiesta romana sulla Tav) dell'Icla, l'acchiappatutto del dopo terremoto cara a Paolo Cirino Pomicino e a Vincenzo Maria Greco. Fa parte della commissione Telekom Serbia. D'ANDRIA Renato - I magistrati napoletani e romani (l'inchiesta sulla Spectre è passata da una procura all'altra) lo accusano di essere il co-regista (insieme a Sica) della creazione di un'intelligence parallela, finalizzata all'attività di dossieraggio. Il suo nome rimbalza sulle cronache locali e nazionali per un ventennio. Rampante imprenditore a inizio anni ottanta, presidente della Confapi Campania, investe a 360 gradi: dall'editoria (rileva da Leonardo Di Donna, un tempo dominus craxiano all'Eni, il quotidiano il Globo; poi, sempre dal garofano, il Giornale di Napoli), alle acque minerali (acquista l'Appia), alle lane (Borgosesia), alle finanziarie (la Tecfinance diventa il suo scrigno). Poi, la buccia di banana sarda, un fallimento (quello del gruppo alimentare Casar, vedi riquadro) che lo porta agli arresti. Controlla l'emittente campana Canale 10. Suo avvocato di fiducia, fino al 2000, Carlo Taormina. DEIANA Pio Maria - Ha fatto affari con lo smaltimento dei rifiuti tossici, lavorando in subappalto anche per il parastato (gruppo Ansaldo in particolare). Ex socio di Antonio Volpe (vedi) nella Janua Dei (oggi la sigla è controllata da Pio Maria e dal figlio Roberto, mentre con la moglie Francesca Genise è in sella alla Società Progetto Cina, sempre dedita alle problematiche 'ambientali'), ha intessuto rapporti anche con Francesco Pazienza (vedi), che poi lo scarica. Ed é lo stesso faccendiere a 'costruire' la storia dei rapporti fra Prodi e Deiana, proprio per una affare in Cina. DINACCI Filippo - Fa parte del pool di avvocati del premier Berlusconi. Una carriera folgorante, la sua. Una dozzina d'anni fa era un avvocaticchio senza né arte né parte in quel di Santa Maria Capua Vetere, dove per sbarcare il lunario patrocinava cause perse: come una a suo stesso favore, per un cacciavite volato da un balcone sul tetto della sua Opel, graffiandola. Prende carta, bolli & penna, Dinacci junior, e cita in giudizio presso il tribunale civile di Napoli il lanciatore: vuole due milioni di vecchie lire, l'assicurazione della controparte offre solo 450mila lireS Come sarà poi andata a finire? Male, sicuramente male, qualche anno dopo la sua corsa verso il Parlamento, sotto le insegne dc, gavianeo doc. Nel '94 si presenta per la destra. Suo padre, Ugo, è salito alla ribalta delle cronache, nel '96, come capo degli ispettori ministeriali al tempo di Alfredo Biondi ministro di grazia e giustizia (nella formazione odierna milita oggi Arcibaldo Miller, ex pm a Napoli e poi a Santa Maria Capua Vetere). Un ispettore un po' troppo zelante, Dinacci senior, tanto da essere messo sotto inchiesta dai magistrati bresciani con l'accusa di aver esercitato pressioni su Antonio Di Pietro, a tal punto da costringerlo ad abbandonare la toga. Il successivo guardasigilli, Vincenzo Caianiello, lo rimosse dal suo incarico di capo degli 007 di via Arenula (rinnovando il team al completo). Da quelle accuse uscì scagionato; ma dei reali motivi che condussero Di Pietro a lasciare la magistratura non è mai stato accertato nulla. Un altro dei misteri italiciS LONGO Guido - Ex capo centro della Direzione investigativa antimafia a Napoli. In passato, ha condotto indagini su Antonio Volpe (vedi) ed ha lavorato su parecchi casi per conto della procura di Napoli: in particolare, le inchieste sugli affari della massoneria deviata (Spinello & C., vedi), e sulla Spectre partenopea (Sica & C., vedi). Oggi si rimbocca le maniche per il ministero degli Interni e svolge un'azione di coordinamento tra il Dipartimento di pubblica sicurezza che fa capo al Viminale e la stessa commissione parlamentare che indaga sull'affare Telekom Serbia. MARINI Igor - Il numero uno, il superpentito, la gola profonda della commissione Trantino. Fresco di nozze, un anno fa, con una misteriosa donna napoletana. La felice sposa viene ritratta, come nei migliori copioni stile Dinasty, svolazzante in piazza del Plebiscito, sullo sfondo la basilica di San Paolo. Sono lontani i giorni - pure da poco trascorsi - del facchinaggio al mercato ortofrutticolo di Brescia. PASCUCCI Vittore - Avvocato, brasseur d'affari, originario di San Bartolomeo in Galdo, terzo contribuente a Roma nell'85, Pascucci fa capolino in un'infinità di operazioni finanziarie, a livello nazionale e internazionale: sempre in compagnia di personaggi poco raccomandabili. Sulla stampa economica, il suo nome compare per la prima volta, a inizio anni novanta, a proposito di un misterioso istituto di credito estero, Eurotrust Bank, con sede ad Anguilla, nelle Antille olandesi. Suo socio era l'ex playboy romano Pierluigi Torri, titolare del celebre Number One, arrestato nel 1977 a Londra per una storia di droga, fuggito dalle galere britanniche, tornato in Italia e uscito indenne dai vari iter giudiziari. Una "instant bank", Eurotrust - secondo la colorita descrizione degli analisti finanziari - capace di compiere le più incredibili operazioni di lavaggio di danaro, titoli, azioni e quant'altro in un battibaleno: per la serie, dal riciclatore al consumatore (evidentemente gabbato). Il pallino di Pascucci, però, sono le assicurazioni: il suo gioiello è Pan.Ass., che proprio sulla piazza napoletana fa la sua fortuna a metà anni ottanta. Un portafoglio - ricordano ancora oggi i broker partenopei - pieno di patate bollenti e di affari poco chiari. La compagnia viene commissariata, il Tar del Lazio, però, gli dà ragione. La compagnia, comunque, passa sotto il controllo di MultiAss, collegata alla finanziaria di salvataggio Sofigea. Risalgono a quegli anni i rapporti d'affari con Paolo Viscione, altro acrobata nel campo delle polizze, allora a sua volta in ottimi rapporti col re delle assicurazioni a go go, Ninì Grappone, anni più tardi - invece - vicino al gruppo Themis dell'avvocato Lucio Varriale. Nel pedigree di amicizie, comunque, spiccano nomi di ben altro rango. Come Pasquale Galasso, il boss di Poggiomarino, e il suo riciclatore doc Giuseppe Cillari, protagonista della scalata al famoso Kursaal di Montecatini. E poi, Giuseppe Jaquinta, l'ennesimo avvocato-faccendiere, lo "sceicco di Baronissi", fermato dieci anni fa a Chiasso con la 'valigia del tesoro': miliardi in titoli falsi, danari da riciclare, progetti per faraonici progetti in Medio Oriente e chi più ne ha più ne metta. Jacquinta, a sua volta, era legato a doppio filo con Marco Cordasco, altro riciclatore in guanti bianchi del clan Galasso, inizi di carriera alla Imec di Torre Annunziata del gruppo Apreda. PAZIENZA Francesco - Un nome, una storia. Sinonimo di servi deviati, P2, spioni e depistatori; di riciclaggi & affari. Di sangue e misteri eccellenti, da Sindona a Calvi. Uno dei suoi capolavori per i Servizi è la gestione del rapimento Cirillo, dove riesce ad ottenere la legittimazione per la Camorra spa, allora rappresentata dalla Nco di Cutolo ma già pronta a cambiare pelle nella Nuova Famiglia imprenditrice. E' il 'regista' occulto dell'affare-prefabbricati nell'Irpinia nel dopo terremoto. Nella trattativa per la liberazione di Cirillo, ad esempio, Pazienza individuò nel costruttore irpino Sergio Marinelli il terminale per una sfilza di subappalti. "Quando venne sequestrato Cirillo - dichiarò agli inquirenti il 'pentito' Giovanni Auriemma - i servizi segreti sembrarono impazzire, poi Pazienza e i suoi uomini ci contattarono a più riprese. Volevano che ci adoperassimo per la sua liberazione. Ci proposero, oltre a una somma del riscatto, favori processuali e la strada spianata per gli appalti della ricostruzione". In più, Pazienza promise ai capi della Nco - la trattativa fu con Vincenzo Casillo, 'o nirone - il 5 per cento sull'importo dei lavori che le aziende del Nord avrebbero ricevuto per il post terremoto. "Lui ci fece i nomi di grosse ditte che ci avrebbero garantito i subappalti - verbalizzò ancora Auriemma - noi gli demmo i nominativi di alcune società di nostra fiducia. Venivamo informati in anticipo degli stanziamenti per i più importanti appalti della regione. Il ricavato degli affari doveva poi essere diviso tra noi della camorra e l'ala dei servizi legata a Pazienza". Fra i grandi 'amici' di Pazienza il superlatitante della Nco il cui destino è ancora avvolto nel più fitto dei misteri, Pasquale Scotti. "Lui e gli altri capi della Nco - erano le parole di Auriemma - s'incontravano con Pazienza in continuazione a Roma, ma anche a Napoli, Avellino, Acerra. Una volta andarono insieme sullo yacht con Alvaro Giardili, il socio di Pazienza, e alcune bellissime ragazze. E quella volta Scotti mi disse che il generale Santovito cominciava a dare fastidio". E Santovito, dopo qualche mese, passò a miglior vita. PINTUS Curio - Finanziere d'assalto di origine sarda. Per la prima volta il suo nome compare tra i fascicoli di un'inchiesta aperta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze a fine anni novanta. Un maxi giro di titoli e danaro - per una valore stimato in circa 1200 miliardi di vecchie lire, secondo alcuni invece solo virtuale - transitati per istituti e sportelli bancari di mezza Europa, soprattutto tramite libretti al portatore (fu la stessa tecnica, per fare un solo esempio, utilizzata dal commercialista faccendiere Vincenzo Pinzarrone per dare la scalata al Napoli Calcio nel '97). Uno dei transiti più frequentati delle acrobatiche operazioni architettate da Pintus e C. (tra cui svariati campani, come Giuseppe Di Cristofaro, Ernesto Ludando, Martino Passananti e Carmelo Russo) è proprio una piccola banca salernitana, la Cassa di Serre, a quel tempo diretta da Passananti. Nei vorticosi giri - descriveva la Voce nel giugno 1999 - si cimentano parecchi partners, "mafia russa e siciliana, Cia, servizi segreti, massoneria, uomini del Vaticano, faccendieri che lungo l'asse La Spezia-San Marino-Napoli-Salerno fino agli Usa falsificano, importano, esportano capitali, libretti di deposito, valuta interna ed estera. La stessa gang - veniva precisato - che ha cercato di dare la scalata alla Banca di Sarajevo". Titolare di Soliman Finance, un vero e proprio forziere di partecipazioni societarie, Pintus fa poi capolino nel Gruppo Zeta, capace di spaziare fra Italia, Olanda, Germania e Centroamerica, impegnato soprattutto nell'import-export di prodotti tessili. Proprietaria di Zeta è un'altra misteriosa sigla, Sidema, che fa capo a Donatella Zingone, consorte dell'ex ministro degli Esteri Lamberto Dini, e ad uno spezzino, Oreste Lauretti, socio d'affari di Pintus (il quale, a sua volta, ha tentato addirittura la scalata alla Roma calcio in compagnia dell'ex leone ruggente da Perugia Giancarlo Parretti, sfortunato acquirente del colosso Metro Goldwin Mayer). Altri giri, altri affari. Eccoci a Città di Castello, dove Pintus & C., a bordo di Soliman, sbarcano per comprare tutto: dal complesso settecentesco della Montesca, alle squadre di calcio e pallavolo. Per approdare in Calabria e al feeling col capo della 'ndrangheta di Africo Leo Talia, una poltrona nella commissione di Cosa nostra: un affiatato tandem per riciclare a tutto spiano in Italia e all'estero, meta prediletta l'Argentina. ROBELO Alvaro - Ex ambasciatore del Nicaragua in Vaticano. Nel suo paese si candida addirittura per le presidenziali, senza successo, con la liste "Arriba Nicaragua" (Forza Nicaragua). Massone, il suo nome compare - storpiato in Ropledo - fra i velenosi dossier della commissione Trantino. Un nome che aveva fanno capolino anche nell'inchiesta Phoney Money, in combutta con il brasseur leghista Ferramonti. RUBOLINO Giorgio - Il suo nome rimbalza nei dossier nella commissione Telekom Serbia. E' uno dei vari nomi che Trantino sottopone al vaglio dell'avvocato d'affari romano Fabrizio Paoletti, con la domandina di rito: "Conosceva tizio?". Chi ha suggerito il suo nome? E' uno degli interrogativi più inquietanti (vedi l'inchiesta di apertura della Voce). SICA Pietro - Ex colonnello dei carabinieri (come il fratello Raffaele, che aveva per obiettivo una poltrona ai vertici alla Dia di Napoli), accusato, nell'inchiesta sulla Spectre partenopea, di essere molto abile nel tirar fuori dal suo cilindro dossier fasulli a carico di 'nemici' dei suoi committenti, fra cui Renato D'Andria (vedi). Un uomo, Sica, dal "micidiale grado di attività criminale", viene descritto dai pm. Nel suo pedigree, comunque, figurano svariati capi d'imputazione: dal concorso nel reato di 416 bis finalizzato al contrabbando; al traffico di valori per un'ottantina di miliardi; fino alla bancarotta fraudolenta e al falso in bilancio. Come contorno, truffe alle assicurazioni, all'amministrazione militare, all'Aima; e ancora, carte d'identità false, traffici di sostanze anabolizzanti. Per finire con la chicca: l'aver agevolato il clan Alfieri attraverso "illecite rivelazioni sulle verbalizzazioni dei pentiti". Fra i suoi amici del cuore, Melchiorre Romano, quarantacinquenne originario di Torre Annunziata e trapiantato in via Capo Le Case, nel cuore della Roma bene, a un passo da piazza di Spagna: secondo gli inquirenti, Romano rappresenta il trait d'union con le cosce del Montenegro, e in particolare con la gang della tigre Arkan. Non è finita: perché l'ex colonnello Sica ha frequentato anche ambienti ministeriali eccellenti, in particolare quelli del Tesoro: qui, infatti, faceva frequenti visite all'eminenza grigia di quel dicastero, Vincenzo Chianese, napoletano, presidente del collegio sindacale della TAV spa fino al suo arresto, avvenuto nel 1999, per ordine della procura di Roma che indaga sul maxi business dell'Alta velocità e di altri mega appalti arcimiliardari. SPINELLO Nicola - Figlio di Salvatore (vedi). E' coinvolto nella stessa inchiesta su affari, mafia & massoneria. SPINELLO Salvatore - Siciliano d'origine, napoletano d'adozione. Uno che di mafie & massonerie se ne intende, Spinello, indagato dalla procura di Napoli (il fascicolo è stato trasmesso anche al pm capitolino Luca Tescaroli) per una serie di inquietanti episodi: a curare quell'inchiesta, i pm napoletani Antonio D'Amato (oggi fra i consulenti togati del presidente della commissione Telekom Serbia Trantino) e Arcibaldo Miller, nel pool degli ispettori ministeriali nominati dal guardasigilli Castelli. Agli atti, numerose conversazioni fra Spinello e Angelo Siino, il 'ministro dei lavori pubblici' di Totò Riina. Parlano un po' di tutto, i due. Di salotti romani, di incontri ministeriali, di uomini in grembiulino e cappuccio. Perfino di Giovanni Falcone, e dei suoi incarichi prima di essere ucciso. Ma soprattutto, i due, parlano di affari. Nei paesi d'oltrecortina (soprattutto traffici di uranio coi paesi dell'est) e anche a casa nostra; e uno dei temi preferiti è la Tav, l'Alta velocità, alla quale sono interessate parecchie imprese 'amiche' (di cui si fanno anche i nomi). Saranno quelle contenute nell'informativa elaborata dai Ros a fine 1990 e finita sul tavolo di Falcone qualche mese prima saltare in aria a Capaci con moglie e scorta? Uno che sembra conoscere a memoria segreti & intrighi dei palazzi, le vie d'accesso agli appalti miliardari, i giusti mediatori e gli apripista ad hoc. Un nome fino a quel momento - siamo a inizio 2000 - in pratica sconosciuto, piomba fra le cronache giudiziarie. Per poi tornare subito nell'ombra. Ora, rieccolo con l'affare Telekom. Ma che fine avrà mai fatto quell'inchiesta massonica? Un'altra sparizione annunciata nei porti delle nebbie? TAORMINA Carlo - Il burattinaio? L'amico del burattinaio? O che? Lui - alla Rivaldo - proclama le dimissioni dal parlamento. Per fare mezza marcia indietro il giorno dopo. E' il legale di Giovanni Fimiani (vedi riquadro) e di Anna Maria Franzoni, la mamma di Cogne. Il delitto senza colpevole, senza motivo, senza pietà. Senza soluzione. Un tunnel senza fine. Poche certezze. Una su tutte. La famiglia Franzoni dopo alcuni mesi, improvvisamente, senza un plausibile motivo, cambia di 180 gradi strategia difensiva. E, soprattutto, il difensore. Si passa da un cattedratico doc, un principe del foro come Federico Grosso, padre di codic
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