L'odissea degli abitanti di Diego Garcia
HAKIM MALAISE Giornalista, La Réunion Completamente evacuata dai suoi abitanti, la base militare americana di Diego Garcia, isolata nel bel mezzo dell'Oceano Indiano, è un punto di appoggio importante quanto discreto per qualunque intervento diretto verso l'Asia centrale e il Golfo persico. Nel novembre scorso la sua pista aerea ha accolto i pesanti caccia B-52 che, giorno e notte, hanno bombardato a tappeto le linee del fronte in Afghanistan. La base ospita in permanenza depositi di materiali, armi e carburante, e anche decine e decine di edifici «requisiti» dalla marina americana. Quasi quattromila tra militari e impiegati civili lavorano su questo atollo delle Chagos, che serve anche da centro di controllo delle comunicazioni e dello spazio. Negli anni '60 l'arcipelago si era trovato al centro di una riorganizzazione su vasta scala dell'apparato militare anglo-americano nell'Oceano Indiano. Dato che l'impero britannico si preparava a ritirare tutte le sue forze «a est di Aden» e a passare il testimone agli Stati uniti, il Pentagono aveva messo gli occhi su Diego Garcia, l'isola più estesa dell'arcipelago, con una superficie di 44 chilometri quadrati. Si poneva peraltro il problema dello status dell'atollo e delle sessantaquattro isole dell'arcipelago: erano collegate all'isola Mauritius, un territorio anch'esso sotto la corona britannica, ma che si avviava verso l'indipendenza. Naturalmente, gli Stati uniti non volevano assolutamente che le loro installazioni militari potessero un giorno essere rivendicate da un futuro stato indipendente (1). E, come se non bastasse, l'arcipelago era abitato. Fin dal XVIII secolo, i primi coloni europei vi avevano insediato persone originarie dell'Africa e del Madagascar per sfruttare le piantagioni di noce di cocco: era una piccola comunità, pacifica e protetta dal mondo dalle rotondità materne di quegli atolli dalle acque turchesi. Ma l'ammiraglio Elmo Zumwalt, all'epoca capo delle operazioni della US Navy, aveva spiegato che «non voleva che ci fossero abitanti suscettibili all'influenza della propaganda comunista, e che potessero (...) porre problemi politici». La Gran Bretagna si era subito affrettata a soddisfare questa duplice esigenza americana. Nel 1965, tutta la zona era stata separata dal territorio di Mauritius, malgrado l'opposizione delle Nazioni unite, con la costituzione di una nuova colonia: il Territorio britannico dell'Oceano Indiano (Biot), che l'anno successivo venne affittato per cinquanta anni agli Stati uniti. A quel punto i duemila abitanti dell'arcipelago hanno cominciato a essere strappati alla loro terra natia: sono stati offerti loro viaggi di piacere, o per motivi di salute, alla volta di Port-Louis, capitale di Mauritius, distante cinque giorni di navigazione, ma poi il ritorno era stato loro in qualche modo impedito; e i recalcitranti, rimasti sulle isole, erano stati privati gradualmente di tutti i mezzi di comunicazione e di sostentamento... Nel 1971, i primi militari americani sbarcati a Diego Garcia avevano cominciato a costruire le loro installazioni a colpi di bulldozer. La gente delle Chagos era diventata una popolazione invisibile: la loro stessa esistenza veniva negata nelle assise internazionali, come anche al Congresso degli Stati uniti o al Parlamento britannico. I documenti anagrafici che attestavano la realtà di una popolazione autoctona che viveva sulle isole da generazioni e generazioni erano stati distrutti o confiscati. Voci sapientemente centellinate inducevano a temere il peggio. Dopo una intensa «guerra psicologica», gli ultimi occupanti dell'arcipelago erano stati ammucchiati a centinaia manu militari nelle stive di una nave, senza avere neppure la possibilità di portare con sé i propri beni, ed erano stati scaricati alle isole Seychelles e a Mauritius, dopo un'autentica odissea di parecchie settimane. Alla fine questi «isolani», costretti a mendicare, ricacciati nelle bidonville di Port-Louis o di Victoria, hanno rotto la congiura del silenzio. Oltre trenta anni dopo il loro esilio, nel 1997, una serie di articoli a effetto pubblicati dal quotidiano Le Mauricien, basati sui dati degli archivi ufficiali britannici che erano stati desecretati, dimostra che i nativi delle isole Chagos, originari di un territorio ancora dipendente da Londra, erano cittadini britannici! Un'associazione - il gruppo dei rifugiati Chagos (Grc) - si è lanciata senza esitazioni nella vicenda, e la Gran Bretagna si ritrova in stato di accusa, al cospetto dell'Alta Corte di Londra, per aver deportato i suoi stessi cittadini. Il 3 novembre 2000 è stata condannata ad autorizzare il ritorno degli abitanti delle isole Chagos nel loro arcipelago natale. All'indomani del processo di Londra, che ha destato grande scalpore sulla stampa britannica, il governo di Tony Blair aveva promesso di finanziare una visita simbolica dell'arcipelago e aveva lanciato studi di fattibilità per il ritorno definitivo degli abitanti nelle isole Chagos. Ma gli attentati dell'11 settembre a New York e a Washington hanno complicato ancora di più la sorte degli isolani. Sfruttando il pretesto che la base di Diego Garcia serviva per i bombardamenti dell'Afghanistan, gli inglesi hanno annullato il viaggio simbolico previsto per il novembre scorso, e gli «studi» procedono a passo di lumaca. Ancora una volta, a inizio novembre, gli ex abitanti delle isole Chagos hanno dovuto ricorrere allo sciopero della fame e a una serie di manifestazioni per esigere dalla Gran Bretagna l'assunzione immediata di circa mille di loro sulla base di Diego Garcia, e il pagamento di un vitalizio per tutti i nativi dell'arcipelago, a mo' di indennizzo per il loro esilio forzato. Nell'impossibilità di adire le vie legali direttamente contro il governo americano, il Grc, che raggruppa la maggioranza degli ottomila nativi delle isole Chagos e i loro discendenti, ha in animo di intentare un processo contro le aziende che hanno costruito la base militare, come la Brown & Root, un colosso mondiale dei lavori pubblici e dell'ingegneria petrolifera, diretto fino all'anno scorso da Dick Cheney, attuale vice presidente americano. Anche alti responsabili del passato, fra cui gli ex segretari di stato americani Robert NcNamara e Henry Kissinger saranno chiamati a render conto del loro operato in merito alla deportazione degli abitanti delle isole Chagos. Forse i giurati della Corte federale di Washington, stato a maggioranza nera in cui avrà luogo il processo, si mostreranno sensibili alla storia di questi lontani «isolani», sballottati al di là dell'oceano, come era già accaduto agli antenati dei neri d'America...
note:
(1) Si legga Charles Zorgbibe, «L'affaire Diego Garcia», Le Monde diplomatique, maggio 1980. (Traduzione di R. I.)
Diego Garcia, pulizia etnica all'inglese La principale isola dell'arcipelago delle Chagos è oggi la più importante base militare Usa nell'oceano Indiano. Ma fino al `66 era inglese. Che la svendettero agli americani. Ma doveva essere prima ripulita dai nativi, gli ilois. Ecco come avvenne ANGELA PASCUCCI «Dobbiamo mostrarci assolutamente irremovibili a questo proposito. Nessuna popolazione indigena sarà tollerata, al di fuori dei gabbiani, che ancora non si sono riuniti in comitato. Purtroppo, oltre agli uccelli, c'è qualche Tarzan e alcuni Venerdì, dalle origini oscure, che dovremmo poter spedire sull'isola Mauritius». Corre l'anno 1966 quando, con questo «parere» grondante tradizione Union Jack, Patrick Wright , membro emerito del ministero delle colonie di Sua Maestà britannica, cancella dalla storia e dalla carta geografica gli abitanti di Diego Garcia, al tempo 1.500 persone. Di lingua creola, progenie di schiavi deportati nel XVIII secolo dai coloni europei sull'isola dal Madagascar, dal Mozambico, da Mauritius, dall'India per coltivare la noce di cocco, gli «ilois», abitanti dell'arcipelago delle Chagos, pensavano di poter essere considerati ormai una comunità a tutti gli effetti e si ritrovano invece a essere etichettati dal governo inglese come «migranti» che diventano un ingombro per i progetti dell'alleanza anglo-americana di fare dell'atollo più grande dell'arcipelago delle Chagos una base militare Usa, oggi la più grande e la più importante.
Prologo a Mr. Wright. Sono gli anni della crisi di Cuba, delle prime decolonizzazioni. I paesi dell'Africa orientale sono in rotta di avvicinamento all'Unione sovietica, i francesi allignano in Madagascar. Mosca non nasconde la sua ambizione di apririsi una rotta verso i mari caldi. «Bagneremo i nostri stivali nell'oceano Indiano», si ripromettono i generali dell'Armata rossa e gli Usa intensificano le ricerche di un ancoraggio sicuro in quello stesso oceano per controllare la regione.
L'arcipelago delle Chagos, 64 fra isole e atolli sgranati sulla rotta fra le coste dell'Africa orientale e l'Asia sud-occidentale, sotto sovranità inglese, ha una rilevanza strategica eccezionale e chi le controlla, controlla l'oceano Indiano. L'impero britannico è in ritiro progressivo dai territori «a est di Aden». Pressoché inevitabile l'intesa fra i cugini anglo-sassoni. Nel `64, il primo ministro inglese Harold Wilson e il presidente Lyndon Johnson avviano colloqui segreti e l'affare è presto fatto. I militari americani avranno Diego Garcia, svuotata dei suoi abitanti, non altrettanto necessari. In cambio Londra avrà un mega sconto, circa 14 milioni di dollari, sull'acquisto di missili Polaris per i suoi sottomarini atomici. Incluso nel prezzo, il «lavoro sporco» a tutti i livelli.
I lavori sporchi
Il primo, preliminare, consiste nel sottrarre l'arcipelago delle Chagos alla sovranità delle Mauritius, che potrebbero un giorno più o meno lontano, divenute indipendenti, accampare diritti e dire la loro. Nessun problema, per sua Maestà britannica. Londra include la cessione di sovranità fra le condizioni imposte per accedere all'indipendenza (che arriva nel marzo del `68), insieme a 3 milioni di sterine per accogliere i rifugiati. Con i territori sottratti si crea una nuova colonia, il Territorio britannico dell'Oceano indiano (Biot) che sarà poi «affittato» agli Stati uniti per 50 anni, con possibilità di rinnovo per altri 20. Le Nazioni unite si oppongono al baratto, senza lasciare, già allora, segno.
Quanto agli abitanti di Diego Garcia, visto che ufficialmente non esistono, vengono letteralmente fatti sparire. Del resto, l'ammiraglio Elmo Zumwait, all'epoca capo delle operazioni dell'Us Navy, spiega molto chiaramente di non volere «abitanti suscettibili di essere influenzati dalla propaganda comunista» che possano «porre problemi politici». Una parte di ilois viene abbindolata con viaggi premio o di salute a Port Louis, capitale di Mauritius, distante cinque giorni di navigazione. Arrivati qui, apprendono che il ritorno gli è interdetto per sempre. Queli rimasti in patria tentano di resistere. Gradualmente si vedono privare di ogni mezzo di comunicazione e sostentamento. I rifornimenti di riso, farina, zucchero e olio vengono bloccati. Ma la paura più grande viene instillata quando i funzionari britannici ordinano lo sterminio del loro bestiame, soffocato coi gas di scappamento di veicoli militari americani. Gli ultimi degli isolani vengono deportati nel 1973, caricati su vascelli che consentono di portare con sé solo pochi effetti personali. Destinazione Port Louis sui cui marciapiedi vengono gettati, senza casa, senza lavoro, in condizioni di abietta povertà, con il diritto a un miserrimo compenso solo a condizione di rinunciare a ogni diritto di ritorno sull'isola. Squatters in una terra straniera, ancora nel 1980 il 40% dei deportati non aveva un lavoro. Nel 1971 una Immigration Ordinance aveva dato alla deportazione un carattere di legalità, se così si può essere definita un'argomentazione che, riconoscendo agli abitanti solo uno status di «migranti», li considerava lavoratori temporanei il cui «contratto» può essere rescisso con un breve preavviso nel momento in cui non servono più. Nel dicembre del 1974, un memorandum congiunto Usa-Gb stabilisce che «sull'isola non c'è alcuna popolazione nativa» e un portavoce del ministero della difesa britannico assicura che «non c'è nulla nei nostri documenti riguardo ad abitanti o a un'evacuazione».
E' così che, nel silenzio e nell'ignoranza, si consuma «un rapimento collettivo», come lo definirà persino il Washington Post nella sua edizione dell'11 settembre 1975.
Intanto Diego Garcia cambia vita e natura. Nata come centro d'ascolto per l'intelligence, cresce e si trasforma in base militare a tutti gli effetti. Agli inizi degli anni `90 è già la più grande base aeronavale americana d'oltre-mare: sotto marini nucleari, fregate, bombardieri di ultima generazione. Tutto è pronto per assumere un ruolo preponderante nella prima guerra del Golfo. Le ondate di B-52 partono da lì, ed è lì che la flotta va a rifornirsi. La guerra contro l'Afghanistan, nel 2001, conferma la rilevanza di pezzo forte del Risiko statunitense. L'ultima guerra all'Iraq ne fa il cuore di un'intera strategia di guerra preventiva che ormai intorno a quell'area gravita. Ultime acquisizioni, gli hangar speciali climatizzati per i B-2, gli aerei invisibili ma dal fragile rivestimento che ha bisogno di basse temperature.
Mentre la loro isola si snatura, gli ilois si macerano nella nostalgia nei luoghi di deportazione, dove vivono emarginati, vittime di un razzismo che si appunta sulla loro pelle più scura degli altri abitanti di Mauritius, con problemi di alcol, droga, depressione. Non abituati a vivere in un'economia basata sul denaro, restano permanentemente esclusi.
Speranze fatue
Ma nel 1997 viene tolto il segreto ai documenti del governo inglese che racchiudono la vera storia degli abitanti di Diego Garcia. Per gli 8.000 della comunità ilois di Maurizio comincia a balenare una speranza. Olivier Bancoult, due fratelli morti per alcool e droga, una sorella suicida per disperazione, capisce che c'è una base vera da cui far partire la propria lotta per il ritorno e, costituita un'associazione il «Gruppo dei rifugiati Chagos», denuncia la Gran Bretagna all'Alta Corte inglese. Che il 3 novembre del 2000 dà loro ragione, condanna Londra, le impone risarcimenti e autorizza il ritorno degli ilois nell'arcipelago natale.
Diventati ufficialmente inglesi, con tanto di passaporto, gli ilois tornano visibili. Vengono persino guardati con invidia laddove prima erano disprezzati. Il premier Tony Blair promette di finanziare una visita simbolica all'arcipelago e uno «studio di fattibilità» per il reinsediamento. Ma tra un rinvio e l'altro arriva l'11 settembre, e tutto si ferma. Nel frattempo è apparso chiaro che, forse, si potrà tornare alle Salomone o a Peros Bahnos, altre isole dell'arcipelago, ma Diego Garcia resterà «forbidden». Washington infatti non ne vuole neppure sentir parlare. «Nell'esecuzione delle nostre responsabilità in materia di sicurezza e difesa nel golfo Arabico, in Medio Oriente, in Asia e in Africa orientale, Diego Garcia è per noi una piattaforma indispensabile», scriveva già il 21 giugno del 2000 Eric Newsom, a nome della diplomazia americana, a Richard Wilkinson, responsabile per le Americhe al Foreign Office. Una popolazione «stabile» comprometterebbe l'efficacia delle «operazioni sensibili» lanciate dall'isola. E quando si profila come realistico un insediamento nelle isole vicine dell'arcipelago, anche questo è respinto senza appello perché «degraderebbe in modo significativo l'importanza militare di una posizione vitale nella regione».
Gli ilois però non demordono. Una piccola avanguardia di un centinaio di loro si installa in Gran Bretagna e, tra scioperi della fame e proteste, continua la battaglia legale perché la sentenza precedente sia applicata. Si rivolgono anche a George Bush. L'amministrazione risponde persino: a causa del ruolo vitale la struttura «riveste nella guerra globale al terrorismo» le autorità britanniche hanno deciso di impedire l'accesso. «Condividiamo e sosteniamo questa posizione».E' chiaro che stavolta Davide non ce la farà. Una nuova seduta dell'Alta Corte, nell'ottobre del 2003, stabilisce, con un'intricata motivazione di 750 pagine, che non c'è alcun fondamento legale alle loro richieste avanzate come collettività. Che forse qualcuno di loro, portando prove concrete, potrà ottenere qualcosa di più a titolo individuale. Che certo, un'ingiustizia è stata commessa, ma la causa avrebbe dovuto essere intentata molto prima. Uno shock terribile, per gli ilois, che tuttavia decidono di ricorrere in appello. Hanno tempo quattro mesi. Se ne riparlerà a febbraio. Peraltro, se un'avanguardia di loro chiede, oltre al ritorno, che la base Usa sloggi, come condizione minima per essere risarciti di un crimine della storia, la maggioranza sarebbe ben felice di tornare per lavorare al servizio dei militari americani. In definitiva a Diego Garcia c'è anche oggi una popolazione civile: quasi duemila persone, tra filippini e singaporiani, importati sull'isola per fornire servizi agli Stati uniti. Perché non potrebbero essere degli ilois? Chissà se, fra Londra e Washington, ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di rispondere che ci sono dei diritti incompatibili con eserciti e guerra, tanto più se condotta in nome della democrazia. E che se la storia resta così, Diego Garcia è perduta per sempre.
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