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Iraq: mezzo milione di morti dopo
by mzzetta Saturday, Oct. 21, 2006 at 10:03 AM mail:

Sabato, 21 Ottobre 2006 - 00:05 - mazzetta


L’ultimo bilancio azzardato sul numero delle vittime della guerra in Iraq eccede il mezzo milione di iracheni che non vedranno mai la democrazia in formato export di Mr. Bush. A questi vanno aggiunti un numero ancora meno precisabile di morti in Afghanistan, quasi tremila soldati americani uccisi, trentamila feriti rimasti invalidi e un numero imprecisato di contractors. Il piano della Casa Bianca procede senza intoppi e il mondo ancora fatica ad afferrare il senso di quanto accaduto. Gran parte dei costituenti le pubbliche opinioni occidentali (cittadini americani, dei paesi “volonterosi” e altri) ha realizzato che la Casa Bianca abbia operato una enorme mistificazione per piazzarsi a Baghdad e che le cose vadano male per una serie di concause; tra le prime gli “errori” nel gestire l’occupazione e la scarsa qualità dell’amministrazione USA.

In realtà la situazione irachena è perfettamente aderente a quelli che erano i piani della cricca neoconservatrice che ha accompagnato G.W. Bush nell’avventura. Giova infatti ricordare che secondo le loro analisi il paese andava tripartito su basi etnico-confessionali (divide et impera?) e che tutta la strategia americana perde la dimensione di un inglorioso guazzabuglio ove la si inquadri correttamente; allora assume una fisionomia coerente e plausibile.

Fin dai primi “rumors” sull’invasione dell’Iraq le analisi dei militari stimavano necessari 300.000 uomini per cacciare Saddam e mantenere il polso della situazione evitando degenerazioni. Rumsfeld e soci. decisero invece per un corpo di spedizione esattamente ridotto al 50% di questa cifra; a questo proposito è bene ricordare che la prima campagna contro Saddam impegnò mezzo milione di uomini solo per cacciare gli iracheni da Kuwait City.

A queste analisi si aggiungevano le perplessità di chi non vedeva come, invadendo l’Iraq e cacciando Saddam, si sarebbe potuta evitare la presa del potere da parte degli sciiti che da soli rappresentano il 60% della popolazione e il conseguente avvicinamento del paese all’Iran piuttosto che ai liberatori di Washington. A tutte le persone di normale buon senso questo “piccolo particolare” non era sfuggito, ma non era sfuggito neanche ai pianificatori del Pentagono.

Il piano non era lesinare sul numero dei soldati per risparmiare e questo è ben dimostrato dalle cifre stellari spese usando a pretesto la guerra irachena; semplicemente era un piano che con il “portare la democrazia” ai poveri iracheni non aveva nulla a che fare. Per evitare che il “piccolo particolare” portasse alla creazione di un Iraq non allineato, gli strateghi americani si sono infatti mossi su linee d’azione ben conosciute e storicamente praticate con una certa frequenza: quelle della contro-insorgenza praticata con metodi terroristici, al fine di costringere le varie fazioni al confronto armato prescindendo dall’unità contro l’occupante..

All’alba dell’invasione i nuovi padroni di Baghdad presero una serie di decisioni volte a gettare il paese nel caos: sciolsero l’esercito, abbandonarono la guardia alle frontiere, affidarono il primo governo provvisorio ad Allawi (più conosciuto come macellaio e come uomo dei servizi di Saddam che come statista) in combinazione con John Negroponte, un altro personaggio noto alle cronache per essere stato, già negli anni ’80, quando svolgeva il ruolo di ambasciatore in Honduras, quanto di più vicino ad un “terrorista” l’amministrazione USA potesse esprimere nella sua storia.

Ad accendere la miccia, dopo alcuni mesi che gli iracheni non davano apprezzabili segni di reazione all’occupazione, provvidero alcuni “attentati” e una stampa che si scoprì poi essere controllata e pagata dal Pentagono; questo oltre ad alcune “regole d’ingaggio” che portarono i G.I. a sparare sulle folle disarmate che protestavano “democraticamente” per la mancanza di elettricità ed acqua, nonché a compiere irruzioni insensate nelle case degli iracheni e, infine, ad istituire la tortura come strumento quotidiano del loro rapporto con i sospetti iracheni. Strani attentati ai luoghi di culto di tutte le confessioni scossero allora il laico Iraq.

Il fronte sciita fu così inquinato da un paio di fazioni che raccolsero voti perché appoggiate dagli USA (in particolare quella di Allawi) e dalla stampa e dai media iracheni (che si scoprirono poi pagati direttamente dal Pentagono), mentre la tensione tra le varie etnie cresceva simmetricamente con attentati a moschee sunnite e sciite, fino all’eliminazione dei leader curdi e a vere e proprie battaglie scatenate dall’esercito iracheno. Erano ancora i tempi nei quali il leader sciita al Sistani pensava di poter attendere con pazienza la presa del potere attraverso le elezioni.
Un’idea che era destinata ad evaporare, evaporando allo stesso tempo il prestigio e l’influenza politica del “Papa” sciita, per lasciare sempre più spazio a posizioni più bellicose come quelle di al Sadr. Il mese scorso Al Sistani si è ufficialmente ritirato dalla politica attiva.

OCCUPAZIONE DURATURA

Mentre il tempo scorreva, l’Iraq venne depredato dei pochi impianti produttivi, venduti come rottami da personaggi senza scrupoli e della spina dorsale della sua classe intellettuale, comunque una delle più istruite del Medioriente. Dopo poche settimane dall’invasione cominciò infatti una serie di “omicidi mirati” e mai rivendicati che, solo nel primo anno, uccisero più di mille insegnanti, medici, ingegneri e altri iracheni istruiti; un’operazione che è continuata e dura fino ad ora e che ha già azzerato l’università irachena e prosciugato le risorse professionali in molti campi.

Allo stesso tempo l’imponente budget per la ricostruzione delle infrastrutture del paese è svanito nelle tasche dei contractors e in spese alla voce “sicurezza”, tanto che non sono stati costruiti ospedali, impianti idrici o elettrici, strade e fognature e neanche la produzione dei pozzi iracheni è potuta riprendere. All’aumentare della “resistenza” irachena gli USA risposero con le rappresaglie su vasta scala, la più famosa delle quali resta quella di Falluja, città martirizzata per mesi (anche con l’uso di bombe al fosforo) e ora ridotta ad un lager recintato nel quale gli abitanti sono interamente affidati alla benevolenza e agli ordini americani. Operazioni come quelle messe in atto a Falluja, nella provincia di Anbar e di altre cittadine riottose, hanno creato oltre centomila profughi interni, mentre la generale pericolosità dell’Iraq ha provocato la fuga all’estero di gran parte dei benestanti.

Quella che a prima vista appare come una sconfitta americana è quindi semplicemente niente di più che il successo di un piano diverso da quello dichiarato alle opinioni pubbliche. L’Amministrazione Bush non aveva nessuna intenzione di cacciare Saddam per lasciare il paese agli sciiti amici dell’Iran (che infatti ha collaborato all’invasione pregustando la loro ascesa al potere) e l’unico modo per evitarlo era quello di trascinare il paese in una guerra civile della quale farsi arbitri, forti di una massiccia permanenza militare nelle grandi basi costruite nel paese.

Non a caso l’erigenda ambasciata americana a Baghdad occupa un’area grande quanto la Città del Vaticano ed è destinata a divenire una fortezza in grado di ospitare migliaia di “diplomatici” nel centro della capitale; ma quando mai un paese (Stati Uniti compresi) ha stabilito una rappresentanza diplomatica, per quanto importante, distaccandovi migliaia di “diplomatici”?

Non a caso la guerriglia filo-sunnita di matrice “qaedista”, favorita fin dall’inizio dall’assenza di controlli alle frontiere, è l’unica parte in conflitto che si è espressa a favore della tripartizione dell’Iraq, ipotesi che è sempre stata rifiutata sia dagli sciiti che dai sunniti iracheni; non a caso includendo nel territorio rivendicato ai sunniti la città di Kirkuk (e il suo petrolio) al centro di un feroce confronto tra curdi, turcomanni e arabi.
Gli iracheni sono sempre stati molto nazionalisti e lo smembramento del paese non è mai stato gradito a nessuna delle forze politiche di estrazione irachena; ora sembrano tutti più possibilisti pur di far cessare i massacri.

IL GRANDE BUSINESS

Cogliendo poi i classici due piccioni con una fava, l’amministrazione è riuscita a spendere per la guerra un trilione di dollari (mille miliardi di dollari. Prima dell’attacco all’Iraq Bush licenziò un funzionario per aver diffuso una previsione di spesa di settanta miliardi di dollari, il doppio di quanto “previsto” dalla propaganda, senza che nessuno degli iracheni o degli afgani invasi ne avesse il benché minimo beneficio. Una cifra paurosa alla quale va aggiunta la tassa occulta pagata dagli americani alle pompe di benzina, della quale hanno beneficiato le compagnie petrolifere grandi sponsor di un’amministrazione di petrolieri ed ex impiegati delle stesse compagnie.

Con il pretesto della “sicurezza” in continuo declino, qualche centinaio di aziende (alcune improvvisate all’uopo su due piedi da ex militari o da amici degli amici) hanno drenato una quantità spaventosa di risorse, indebitando il paese come mai prima nella storia. Un salasso che ha piantato l’economia americana e l’ha polarizzata ancora di più, visto che negli anni della presidenza Bush la forbice che separa i maggiori percettori di reddito dai più poveri si è allargata a dismisura, provocando quasi la sparizione della leggendaria classe media americana.

Con le cifre misteriosamente (ma non tanto) fatte sparire dall’Amministrazione Bush si potevano tranquillamente ricostruire Iraq, Afghanistan e anche qualche paese africano e assicurare ai loro cittadini i redditi più alti dei rispettivi continenti per anni, ma questo non era con tutta evidenza lo scopo degli americani. Così come l’export della democrazia o la caccia alle armi di distruzione di massa non erano altro che pretesti per portare la guerra in quei paesi. Un macello che è stato anche una perfetta cortina fumogena dietro la quale far sparire montagne di denaro e far passare una serie di leggi ancora una volta a favore degli happy few che non sarebbero passate in tempi normali.

Bush non è quindi disperato e deluso, semplicemente perché le cose non stanno andando diversamente da quanto auspicato; al contrario, gran parte dei “volenterosi” si sono ormai sfilati e nessuno sembra più interessato alla sorte degli iracheni o a chiedere conto agli USA di un massacro su una scala simile a quello del Vietnam. Nemmeno sul fronte interno le notizie delle torture, dei crimini di guerra e della malversazioni sono riuscite a smuovere un’opinione pubblica molto più interessata al prezzo della benzina al gallone (che infatti sta calando mano a mano che si avvicinano le elezioni di mid-term) che alle sofferenze di gente che abita in un paese che solo un americano su tre riesce a localizzare sul mappamondo.

Probabilmente nessuno negli Stati Uniti metterà mai l’Amministrazione Bush sul banco degli imputati per l’invasione dell’Iraq, neanche in un remoto futuro. Eppure, nonostante questo, il vero e significativo risultato di due mandati di G. W. Bush è stato quello di cancellare ogni presunta supremazia morale degli States e di scavare nelle finanze americane un buco di entità epocali e di provocare scientemente la libanizzazione dell’Iraq.

Così assistiamo al paradosso per il quale mentre l’Amministrazione Bush cerca spasmodicamente nuovi nemici da mettere all’indice, ma non da attaccare, il tramonto della supremazia americana appare evidente a tutte le cancellerie mondiali, impegnate a contare i giorni che mancano alla fine del mandato di questa banda di guerrafondai e ad immaginare quali assetti mondiali si configureranno nei decenni a venire, quando gli Stati Uniti saranno impegnati a raccogliere i cocci rimasti dopo il passaggio dell’elefante repubblicano.

IL GRANDE SILENZIO

Tutto questo è successo nonostante nei paesi occidentali un feroce dibattito abbia preceduto l’invasione dell’Iraq. Anche i danni e le possibili vittime civili furono “pesati” dai favorevoli e dai contrari all’operazione. Occorre ricordare, mestamente, che il "worst case scenario” (lo scenario peggiore) previsto da una manifesto di Amnesty International che destò scalpore in Gran Bretagna diceva:
“Guerra in Iraq
50.000 morti tra i civili?
500.000 feriti?
2.000.000 di rifugiati?
10.000.000 di persone che avranno bisogno di assistenza umanitaria?”

A queste cifre (circa un decimo di quelle raggiunte dalla strage ancora in corso) fu opposta la considerazione secondo la quale un iracheno avrebbe “pagato qualsiasi prezzo” per liberarsi di Saddam. Una considerazione espressa dai fuoriusciti iracheni legati ad Allawi e mantenuti dal Dipartimento di Stato, ovviamente.

Una delle tante bugie: quei dissidenti iracheni erano disposti a far pagare ad altri iracheni qualsiasi prezzo, il che non corrisponde esattamente al senso che raggiunse le pubbliche opinioni. Allo stesso modo occorre osservare come le cifre di Amnesty fossero clamorosamente sottostimate; non è colpa degli analisti di Amnesty, visto che la previsione era impostata sul verificarsi di una guerra convenzionale seguita da un cambio di regime.

Amnesty non poteva certo presentare come scenario un bilancio che scaturisse da una pianificazione volta scientemente a provocare una guerra civile e dalla proiezione delle sue conseguenze.

Tra queste considerazioni non ci sarà, purtroppo, spazio per i destini di iracheni ed afghani, ancora una volta vittime mute di una storia che parla da sempre una lingua diversa da quella delle vittime e degli sconfitti. Una grande studiosa di letterature comparate (G. Spivak) ha definito “soppressione dell’informante nativo” quello strano fenomeno che in letteratura (ma anche sui media) ci consegna le descrizioni di mondi e paesi “altri” omettendo sempre la figura del narratore autoctono. In effetti non sono molti gli iracheni che transitano sulle nostre televisioni per dire se veramente quel prezzo che abbiamo fatto loro pagare fosse accettabile..
Soppressi due volte, gli informanti nativi iracheni, anche qualora sopravvivano, saranno condannati alla non esistenza e all’oblio.

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