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La guerra energetica
by Un disertore Wednesday, Oct. 25, 2006 at 4:18 PM mail:

LA GUERRA ENERGETICA


La guerra petrolifera del civile occidente.

La politica energetica statunitense degli ultimi 40 anni è stata imperniata su un semplice assioma: l’Occidente ha bisogno di contare su rifornimenti petroliferi stabili e costanti nel tempo. Questo obiettivo è stato garantito fino a oggi soprattutto dall’amicizia e dalla fedeltà del paese che possiede la più grande riserva di greggio nel mondo: l’Arabia Saudita. La grave malattia di Re Fahd, sostituito temporaneamente al potere dal fratello Abdullah, meno accondiscendente nei confronti della Casa Bianca e più suscettibile alle suggestioni religiose, hanno dimostrato come la partnership con l’Arabia Saudita, anche in un futuro prossimo, potrebbe venire meno, con tutte le ripercussioni conseguenti. Nello stesso tempo, i rapporti di fedeltà intrattenuti dagli Stati Uniti con la regione degli Emirati Arabi e con il Kuwait, per le ridotte dimensioni dei due stati, non possono offrire le stesse garanzie di stabilità. Considerati questi aspetti e tenendo conto delle risorse petrolifere di Afghanistan e Iran e dell’inimicizia manifesta dei governi di questi due paesi e del regime di Saddam Hussein nei confronti degli Stati Uniti, non è difficile comprendere la politica bellicosa adottata dall’Amministrazione Bush in Medio Oriente.

Il progressivo esaurimento dell’oro nero rende necessario l’uso della forza; se gli Stati Uniti saranno in grado di controllare, in posizione strategica, l’erogazione di questa risorsa economicamente indispensabile, proprio quando la sua disponibilità è in declino, allora sarà loro possibile conservare la posizione di super potenza planetaria che oggi sentono minacciata. Ma cosa accadrà quando in Cina, paese con una crescita economica annua straordinaria e una conseguente richiesta di greggio in espansione continua, il fabbisogno energetico raggiungerà proporzioni tali da contrapporre il colosso asiatico all’Occidente? Lo scenario profilatosi negli ultimi anni in Medio Oriente è quello di una guerra permanente destinata a estendersi, in cui le diplomazie armate si affronteranno fino all’ultima goccia di oro nero.


Notizie dal fronte afgano.

Intanto, l’occupazione militare dell’Afghanistan si è trasformata in un pantano letale. Da quel 13 novembre di 5 anni fa, quando assistemmo al mediaticissimo evento della presa di Kabul, la resistenza opposta nel paese dei Taliban al nuovo ordine di George W. Bush restituisce oggi l’immagine di un conflitto devastante negli effetti e destinato a protrarsi a lungo. Il governo “amico dell’Occidente” di Hamid Karzai, eletto democraticamente con le prime elezioni a suffragio universale di un paese senza anagrafe, appare sempre più per quello che è: un’istituzione molto debole e poco, o per nulla, sovrana, soverchiata da una sempre più determinata resistenza armata, che 5 anni di conflitto non sembrano aver scalfito.

Anche la “guerra al terrore” appare per quello che è sempre stata: la risposta militare alla necessità vitale degli Stati Uniti di accaparrarsi una posizione strategica nel controllo della risorsa più preziosa della Terra, la cui disponibilità ha ormai imboccato la strada dell’inevitabile declino. L’Afghanistan, oltre a essere, per posizione geografica, l’ideale via di transito per il petrolio e il gas naturale dell'Asia centrale, figura come il secondo deposito energetico mondiale di oro nero dopo quello del Golfo Persico e un redditizio beneficiario di abbondanti riserve di gas. Già prima che la guerra esplodesse, un gruppo di compagnie petrolifere, tra le quali compariva la statunitense Unocal (di cui l’attuale premier afgano Karzai era consulente locale), avrebbe dovuto realizzare un gasdotto multimiliardario dal Turkmenistan, terzo produttore mondiale, al Pakistan, attraversando il paese dei Taliban, curiosamente indicato nella politica afgana degli Stati Uniti come “la traccia del petrolio” caspico-centroasiatico.

Oggi in Afghanistan si assiste al progressivo disimpegno dell’esercito degli Stati Uniti, che da soli nel 2001 avevano avviato la guerra nel paese mediorientale (contrariamente alle indicazioni dell’O.N.U.) con la missione Enduring Freedom, e che successivamente sollecitarono l’intervento dei paesi N.A.T.O., con una missione approvata da una risoluzione O.N.U. e ufficialmente investita del compito di sostenere, sotto il nome di International Security Forces (I.Se.F.), la graduale espansione dell’autorità del nuovo governo di Kabul nelle zone già “pacificate” dalla missione a stelle e strisce. In realtà nel 2006 la missione I.Se.F. si è trovata essa stessa impegnata, a fianco e, talvolta, al posto delle forze statunitensi nella guerra ai Taliban, diventando così una missione di guerra, sovrapposta a Enduring Freedom. Con l’apertura dell’impegnativo fronte di guerra iracheno nel 2003, gli Usa decidevano infatti di lasciare l’allora più tranquillo fronte afgano agli alleati della N.A.T.O., ma per fare questo, imponevano un cambiamento strutturale della missione I.Se.F.. Nell’agosto 2003 la missione diventa a comando N.A.T.O.: alleanza militare formalmente in guerra a fianco degli Usa in virtù del richiamo all’art. 5 del Trattato dell’Alleanza Nord Atlantica. Pochi mesi dopo, la risoluzione O.N.U. 1510 del 13 ottobre 2003 stabiliva l’estensione della missione I.Se.F. dalla sola Kabul a tutto il territorio nazionale afgano, prevedendo per il 2006 anche il coinvolgimento nelle zone meridionali e orientali del paese, cosa effettivamente avvenuta.


L’Italia di Prodi va alla guerra.

Negli ultimi mesi, nonostante le promesse elettorali della coalizione di Prodi, l’Italia ha inviato in Afghanistan forze speciali dell’esercito (con il preciso compito di fronteggiare le milizie dei Taliban), oltre che diversi cacciabombardieri e alcuni elicotteri da combattimento, adeguandosi così alle nuove disposizioni della missione I.Se.F.. Durante la discussione sul rifinanziamento delle missione, il Governo, consapevole della vastissima disapprovazione della popolazione verso questo conflitto (disapprovazione che la coalizione di centro sinistra ha cavalcato a suo tempo), ha prospettato la riduzione delle truppe in Afghanistan (si è parlato di 200 o 300 militari in meno). Questa riduzione, ben distante dall’auspicabile ritiro delle truppe, è riferita però al tetto massimo raggiungibile, ovvero circa 2.400 soldati, non al numero di soldati attualmente dispiegati: circa 1.350. Ciò significa che pur parlando di “riduzione”, il Governo avrebbe comunque la possibilità di inviare in Afghanistan diverse centinaia di soldati in più. Il rifinanziamento del nuovo Governo Prodi della partecipazione italiana alla missione I.Se.F., ignorando i cambiamenti sopraggiunti in quella che continua a essere presentata come una missione di pace, privilegia la prassi al diritto, mente all’opinione pubblica e calpesta l’articolo 11 della Costituzione italiana, secondo il quale «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Mentre il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorda come la “pace” esiga “prove difficili e sacrifici”, gli alpini rientrano in Italia dall’Afghanistan nelle bare avvolte dal tricolore, per la partecipazione a un’aggressione militare che ha il sapore dell’ennesimo voto di fedeltà agli Stati Uniti e che, con il passare del tempo, assume sempre di più i connotati di un colossale fallimento. Chi sono i soldati italiani? Tutti di età inferiore ai 24 anni, essi provengono per la maggior parte dalle regioni depresse del Meridione, fornendo la versione italiana dell’esercito di afroamericani e chicani dell’America a stelle e strisce. Le guerre dell’Impero, in Afghanistan, come in Iraq, o in tempi meno recenti, in Vietnam, mosse dagli interessi delle elite politico economiche che governano il pianeta, sul campo assumono invece, quasi sempre, i connotati di uno scontro tra poveri e sfruttati.


Il pantano iracheno.

In Iraq lo scenario appare, se possibile, ancora più catastrofico; un massacro agghiacciante di decine di migliaia di vittime, di cui poco meno di 3.000 sono militari statunitensi (quasi un centinaio nel solo mese di ottobre 2006) e la stragrande maggioranza civili iracheni. Dopo il primo conflitto nel 1991, scatenato dagli Stati Uniti per porre fine al tentativo di annessione da parte dell’Iraq della regione del Kuwait (ricca di giacimenti petroliferi e perciò “protettorato” statunitense), la popolazione irachena ha subito per anni gli effetti terribili di una guerra a bassa intensità, stremata dall’embargo totale imposto dall’Occidente e sottoposta, nelle “no fly zones”, a spregiudicati bombardamenti periodici. La popolazione paga il carissimo tributo di una guerra di aggressione cominciata in realtà 15 anni prima e trasformatasi oggi, nella fase culminante, in un bagno di sangue, dove morte e distruzione dilaniano un paese già messo a dura prova da un regime dittatoriale, che, per altro, dopo l’intervento militare degli Stati Uniti nel 1991, soffocò brutalmente ogni dissidenza interna, nella totale indifferenza occidentale.

Dalla presa di Baghdad da parte della crociata statunitense sono passati 3 anni e l’ombra della guerra civile investe oggi il paese. Il terribile scontro in atto contrappone la popolazione sunnita, insorta da subito contro l’occupazione militare, non solo alle truppe d’Occidente (a cui la situazione sembra sfuggire inesorabilmente dalle mani), ma anche alla fazione sciita, alleata alla minoranza kurda, perseguitata dal regime di Saddam Hussein e attualmente a capo di un governo che sopravvive con il sostegno militare e finanziario degli Stati Uniti, ma che comunque non può essere considerata come un monolite (si pensi a questo proposito alla guerriglia sciita antistatunitense delle milizie dello sceicco Abu Musab al-Zarkaoui, sciita come hezbollah e la Repubblica Islamica iraniana). Il nuovo governo, con tanto di libere elezioni e parlamento in perfetto stile occidentale, appare come una grossolana operazione propagandistica delle forze occupanti, preoccupate soprattutto dalla crescente sfiducia dell’elettorato dei rispettivi paesi di provenienza nei confronti della pretesa “democraticizzazione forzata” dell’Iraq. Proprio come in Afghanistan, la frettolosa instaurazione armata di un sistema politico “democratico” di tipo occidentale (e di un modello economico altrettanto occidentale) risponde in realtà, più che alla sbandierata volontà di esportare la democrazia, alla necessità della Casa Bianca di collocare i paesi della regione ricchi di petrolio, con le buone o le cattive maniere, sotto la propria prepotente influenza.


Il prezzo della guerra sporca.

L’indomabile resistenza all’occupazione militare dell’Iraq esige misure drastiche, e così nella strategia a stella e strisce riemergono anche consuetudini belliche “non ortodosse” che sembravano ormai dimenticate. Il Supreme Council for the Islamic Revolution in Iraq, il partito principale del governo sciita filo statunitense, dispone di una propria organizzazione armata, il Badr, accusata dal quotidiano statunitense Washington Post di dirigere molti degli squadroni della morte che in tutto il paese stanno mietendo migliaia di vittime tra la popolazione sunnita, in alcuni casi anche con il provato coinvolgimento delle forze di sicurezza irachene (addestrate direttamente dalle forze militari d’occupazione). Le voci intorno alla diretta responsabilità degli Stati Uniti nel profilarsi di questo scenario sono sempre più insistenti. Già agli inizi del 2005 la rivista americana Newsweek illustrava il possibile progetto degli Stati Uniti di sovrintendere la formazione di milizie irachene per soffocare l'insurrezione sunnita, attraverso un’operazione segreta volta a supportare e addestrare i peshmerga kurdi e le milizie sciite proprio con queste finalità. Una strategia non dissimile da quella operata in Nicaragua, alla fine degli anni ’70, contro il governo sandinista, quando gli Stati Uniti sostennero la controrivoluzione dei Contras.

La guerra intrapresa dalla coalizione militare di George W. Bush è ormai ampiamente disapprovata anche negli Stati Uniti, dove il consenso del Presidente è stato travolto dai troppi scandali legati alla condotta del suo esercito proprio in Iraq. Con essi la guerra rivela la sua faccia disumana, a ricordare che non esiste una guerra giusta, o condivisibile; la guerra è sempre una scelta sbagliata e le ragioni tese a giustificarla, presto o tardi, sono destinate a franare su loro stesse. I documenti che faticosamente emergono sulla battaglia di Fallujah (città irachena nel cuore del “triangolo sunnita” e roccaforte della resistenza irachena) parlano in realtà di un attacco deliberato contro la popolazione civile, trasformatosi in un orribile omicidio di massa, dove ogni cosa fu bombardata (circa 36.000 edifici distrutti) e ogni corpo in movimento divenne un obiettivo sensibile. In quell’episodio l’aviazione americana scaricò sulla popolazione civile il terribile fosforo bianco, un agente chimico già utilizzato in Vietnam dagli Stati Uniti e vietato dalla Convenzione di Ginevra, in grado di sciogliere rapidamente le parti del corpo con cui viene a contatto, recentemente utilizzato anche dall’esercito israeliano nei bombardamenti aerei sul Libano e, lugubre ironia della sorta, già sperimentato sulle popolazioni del Kurdistan iracheno dal regime di Saddam Hussein. Le immagini raccapriccianti dei corpi di donne, uomini e bambini letteralmente sciolti dal fosforo bianco dovrebbero essere sufficienti a dire basta per sempre a qualunque guerra, ma evidentemente non sono abbastanza.

Bisogna ricordare la vergogna di Guantanamo, carcere speciale statunitense costruito a Cuba, lontano da occhi indiscreti e ingombranti diritti umani. In esso i prigionieri, sospetti “terroristi islamici”, vengono rinchiusi senza regolare processo e sopravvivono in condizioni di totale soggezione. Le foto che giungono da Guantanamo sono inquietanti: i detenuti, vestiti con una tuta arancione, rimangono sempre ammanettati a mani e piedi, con tappi nelle orecchie, occhi bendati e una maschera che copre naso e bocca, rinchiusi in gabbie di rete metallica di 2 metri quadrati (simili a quelle utilizzate negli allevamenti animali), dove rimangono quasi sempre sdraiati. Bisogna ricordare anche le torture terrificanti inflitte dai militari della coalizione occidentale ai prigionieri arabi nelle carceri di Abu Ghraib, anch’esse documentate con immagini fotografiche raccapriccianti, scattate come trofeo dai militari stessi. Bisogna ricordare i diversi episodi di uccisioni a sangue freddo di civili, oggetto di rappresaglie da parte dei marines statunitensi (il caso più noto è l’uccisione di 24 persone il 19 novembre 2005 a Haditha, vendetta dei marines per l’omicidio del loro caporale Miguel Terrazas). Bisogna ricordare l’utilizzo, da parte dell’esercito americano, di sostanze nocive e micidiali come l’uranio impoverito e il napalm (sostanza incendiaria che avvolge in una tempesta di fuoco gli obiettivi colpiti dai caccia bombardieri).

Bisogna ricordare che la guerra permanente di George W. Bush richiede un restringimento delle libertà individuali, ignorate in modo disumano al fronte e con i nemici, reali o presunti che siano, e limitate pericolosamente tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa. Sull’onda emotiva del dopo 11 settembre l’Amministrazione Bush varò il cosiddetto Patrioct act, una misura restrittiva rivolta ai migranti, nei confronti dei quali venne fortemente limitato uno dei principi basilari dello stato di diritto, l'habeas corpus, il divieto imposto alle autorità di tenere in prigione un individuo, intercettarne posta, messaggi e telefonate, e perquisirne domicilio e luogo di lavoro, senza un preciso e motivato mandato della magistratura. Nel mese di ottobre il Presidente degli Stati Uniti è riuscito a spuntarla nella battaglia congressuale intorno alle nuove leggi antiterrorismo, che hanno suscitato non poche critiche anche in seno al Partito Repubblicano. Il nuovo provvedimento, oltre a tutelare i segreti relativi alle carceri speciali della C.I.A. e a non garantire la difesa legale per gli individui tratti in arresto perché sospettati di attività terroristiche, autorizza nei loro confronti l’utilizzo di severe procedure al limite della tortura e la possibilità di ricorrere alle informazioni estorte attraverso questi sistemi inumani. Scontato aggiungere che, anche in Europa, i governi di diversi paesi, tra cui l’Italia, hanno adottato negli ultimi anni provvedimenti volti alla limitazione delle libertà civili, in nome della sicurezza dell’Occidente in guerra.


L’estensione del conflitto mediorientale.

La politica estera di Bush non sembra aver ancora esaurito la sua spinta devastante, prefigurando così un ulteriore inasprimento del conflitto mediorientale. Le attenzioni belliche della Casa Bianca sembrano ormai da diversi mesi e con insistenza crescente rivolte all’Iran, un altro “stato canaglia” possidente di ingenti riserve di petrolio e di gas naturale, oltre che collocato in una posizione strategicamente importante per il controllo statunitense sul Medio Oriente. Le mire degli Stati Uniti hanno prodotto degli smottamenti destabilizzanti le cui ripercussioni sono già ravvisabili in tutta la regione, ma anche in altri continenti, come in Asia, dove la Corea del Nord risponde al pressing statunitense mostrando al mondo il proprio potenziale nucleare e minacciandone l’utilizzo eventuale. Il governo iraniano ha da tempo assunto posizioni intimidatorie nei confronti degli Stati Uniti e dello Stato di Israele e ha intrapreso anch’esso un programma nucleare oggetto di preoccupate trattative con diversi paesi occidentali che, con toni diversi, promettono sanzioni. Dal contenzioso in corso l’Amministrazione Bush trae sostegno per le proprie bellicose minacce, invertendo la causa e l’effetto con un gioco di prestigio alquanto sgraziato. Le eclatanti esternazioni di odio del regime iraniano verso Israele e Stati Uniti, così come l’avvio del programma nucleare, non devono essere infatti interpretati fuori dal loro contesto originario, rispondendo in realtà a precedenti e attendibili manifestazioni d’intenti dell’amministrazione Bush in relazione alla possibilità di estendere il teatro di guerra anche al paese degli Ayatollah.


Un avamposto occidentale in Medio Oriente.

Le conseguenze dirette della crescente tensione diplomatica tra l’Amministrazione Bush e l’Iran e la Siria, quest’ultima confinante con la repubblica islamica e ugualmente avversata dagli Stati Uniti, non hanno tardato a manifestarsi. La recente aggressione israeliana al Libano, infatti, non può essere spiegata semplicemente come ritorsione per il sequestro dei due militari dell’esercito di Israele. La pretestuosa e tragicamente spropositata reazione israeliana ha causato una drammatica emergenza umanitaria, mietendo centinaia di vittime civili e riducendo il paese arabo a un ammasso di macerie paralizzato economicamente. Questa scellerata operazione di guerra deve essere in realtà collocata in un preciso contesto strategico militare. In virtù della possibile estensione dello scenario di guerra e all’inasprimento dei conflitti già in corso, Israele, avamposto occidentale in stato di guerra permanente, necessita di ridisegnare e rinsaldare i propri confini di sicurezza, assicurandosi un’area “cuscinetto” sotto controllo militare e, perciò, con una sovranità circoscritta, il Libano appunto. In questo scenario le milizie Hezbollah (non a caso finanziate anche da Iran e Siria) diventano un pericolo a cui Israele deve celermente fare fronte. Quello che però i mezzi di comunicazione ufficiali trascurano troppo spesso è la natura difensiva del movimento sciita libanese, che trae la propria ragione d’essere dall’occupazione militare israeliana nei territori del Libano meridionale. In altri termini, ciò che rende insicuri i territori di confine dello Stato di Israele è proprio la politica estera bellicosa di questo paese.

Nell’indifferenza dei paesi occidentali il popolo palestinese sconta oggi una occupazione militare senza fine. La Palestina è una lingua di terra i cui confini sono costantemente violati dall’esercito israeliano, in una guerra tragicamente spietata e ad armi impari. Mentre le condizioni di sopravvivenza nei campi profughi sono aberranti, gli israeliani godono di standard di vita occidentali, sperimentano la società del benessere e costruiscono muri che, come in ogni altra parte del pianeta, dividono il nord opulento dal sud del mondo. Un silenzio assordante nasconde le condizioni disperate in cui la Palestina continua caparbiamente a sopravvivere. Oggi la Striscia di Gaza è soffocata dai raid militari quotidiani e da un blocco totale imposto da Israele, alla cui diplomazia armata il Governo palestinese di Hamas non piace. Il civile Occidente esporta il proprio modello “democratico” destituendo militarmente i regimi considerati ostili, ma quando il plebiscito popolare esprime un Governo indesiderato ai paesi occidentali, allora rimane la discrezionalità di questi ultimi di destituirlo a mano armata, di ostacolarlo, di negare a esso di esercitare la tanto auspicata rappresentatività democratica, di sequestrare addirittura parte del suo esecutivo (come è accaduto per alcuni ministri del Governo palestinese sequestrati dall’esercito israeliano). Gli israeliani uccidono ogni giorno, segregano la popolazione palestinese, riducono interi villaggi in macerie, violano militarmente i confini e la sovranità dei paesi circostanti, praticano la vendetta militare e la giustizia sommaria come rimedio a quello che chiamano “terrorismo”. Ma come si fa a distinguere un atto di terrorismo da un atto di guerra? Come possiamo distinguere l’aggredito dall’aggressore? Israele rivendica con i suoi metodi il diritto di “difendersi”. Ciò che Israele (e con esso buona parte dei paesi occidentali) non può tollerare è però che altri paesi, se da esso aggrediti, si difendano e ricorrano alle armi per esercitare lo stesso diritto. Spesso sembra prevalere l’ambiguo assioma secondo il quale Israele, disponendo di un esercito regolare, legittimato dalla diplomazia internazionale, può legittimamente esercitare la forza, anche macchiandosi di azioni atroci; i palestinesi invece, qualora ricorrano alle armi, in assenza di un regolare esercito armato dall’Occidente, non possono che essere feroci terroristi, quali che siano le loro motivazioni e anche qualora il conflitto sia alimentato proprio dalla violazione sistematica del diritto internazionale da parte di Israele.


L’Italia e la diplomazia a mano armata dei caschi blu.

Mentre la morsa israeliana sulla Striscia di Gaza miete quotidianamente le sue vittime nell’indifferenza della comunità internazionale, il fallimento militare dell’esercito della stella di Davide in Libano ha sorprendentemente suscitato la “umanità” dei paesi occidentali e il conseguente intervento armato dell’O.N.U.. Israele in 30 anni ha violato il confine di questo paese 17.000 volte e in 50 anni ha invaso il Libano per ben 6 volte, provocando oltre 300.000 vittime. Attualmente continua a occupare illegalmente alcune zone del Libano. Nonostante ciò la diplomazia occidentale continua a essere intrisa di distinguo e, per un frainteso senso di equidistanza, pur condannando l’aggressione israeliana, si ostina a indicare il disarmo di Hezbollah come priorità per la “pace” dell’area. Dal canto loro i leader dell’organizzazione sciita (che, vale la pena ricordarlo, ha una funzione difensiva e trae ragione d’essere proprio dall’occupazione militare israeliana) hanno già fatto sapere che le truppe dell’O.N.U., e con esse il contingente italiano, sono ben accette se intendono garantire la sicurezza del popolo libanese, ma che saranno trattate conseguentemente se tenteranno di disarmare Hezbollah. In realtà l’ambiguità di alcuni aspetti delle regole di ingaggio lasciano emergere proprio il sospetto che la missione O.N.U., più che alla tutela del popolo libanese, sia orientata in realtà alla sicurezza di Israele, che, come già chiarito, necessita strategicamente di un’area di sicurezza su quel versante del suo confine, in prospettiva dell’inasprimento del conflitto mediorientale. Non è un caso che i caschi blu, sempre in virtù di una fraintesa equidistanza, siano stati posizionati solo nel territorio libanese. Non è un caso nemmeno che la missione U.N.I.F.I.L. abbia ricevuto l’approvazione aperta di Stati Uniti e dello stesso Stato di Israele e che George W. Bush abbia definito come “continuità della guerra al terrorismo condotta in Afghanistan e in Iraq” l’operazione O.N.U., che rischia di diventare, attraverso il disarmo di Hezbollah, la prima tappa necessaria dell’estensione a Siria e Iran della guerra dell’Impero. Da questa missione di “pacificazione” tutti hanno da guadagnare: per gli Stati Uniti, che vedono in essa la fine dell’unilateralismo alla base delle difficoltà dell’esercito a stelle e strisce sia in Iraq, che in Afghanistan (dove, come già accennato, grazie anche all’impegno non secondario dell’esercito italiano, gli Stati Uniti hanno comunque già iniziato a ridimensionare la propria presenza); per Israele, che riesce a scaricare sulla missione U.N.I.F.I.L. i propri mancati obbiettivi bellici; per il Governo italiano, che riesce a ricavare per sé l’agognata posizione di prestigio nel panorama delle diplomazie armate occidentali.

Per l’Italia la missione U.N.I.F.I.L. si prefigura come un’ulteriore investimento di risorse militari nello scenario bellico mediorientale. Dopo il ritiro dall’Iraq (già concordato nei tempi e nei modi dal precedente Governo con la Casa Bianca) e il disimpegno fasullo in Afghanistan, che come osservato cela in realtà un investimento italiano in prima linea, ora questa missione, con l’annunciata priorità del disarmo di Hezbollah, rischia di trasformarsi nell’ennesimo dei pantani da cui “per responsabilità” l’esercito italiano non potrà più sottrarsi. Tanto più che il ruolo italiano in questa missione è assolutamente poco chiaro (e possibilmente per nulla neutrale), proprio in virtù dell’accordo di cooperazione militare stipulato nel giugno del 2005 dal Governo italiano con Israele, che stabilisce la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi, su l’import-export di materiali militari, organizzazione delle forze armate, formazione, addestramento, sviluppo, ricerca e produzione di tecnologie militari. Come inizio non è certo incoraggiante.


Chi sta in alto dice:
pace e guerra sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
son come vento e tempesta.
La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.
La loro guerra uccide
quel che alla loro pace è sopravvissuto.

Bertold Brecht

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