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lager regina pacis
by forum dei diritti-fw Sunday, Dec. 01, 2002 at 7:39 PM mail:

Non possiamo più tollerare che l'attività segregazionista, violenta e criminale del lager Regina Pacis, sia ancora descritta e rivendicata dai tristi protagonisti di questa storia con parole quali "accoglienza","solidarietà", "attività caritativa", "eroismo".

To: SOCIAL FORUM <GSF-Puglia@yahoogroups.com>
Subject: [GSF-Puglia] lettera aperta (CON ALLEGATO!!!)


car@ compagn@,


un gruppo di manifestanti del 30 a san foca ha scritto queste righe;
altr@ compagn@ hanno apportato commenti e modifiche, e adesso vorremmo
diventasse una lettera aperta alla cittadinanza, ai media, a tutti i
soggetti che si sentono coinvolti;


vi invitiamo a leggerla, commentarla, diffonderla,


forum dei diritti,
bari.



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1 dicembre 2002
Lettera aperta del Forum dei Diritti di Bari alla città e ai media


FALSO PRETE
VERO LAGER


La nostra presenza intorno al lager Regina Pacis, e all'interno del Duomo di
Lecce, è dovuta alla necessità di denunciare e impedire che le leggi dello
Stato legittimino, ancora una volta dopo il nazismo, la creazione di esseri
sub-umani, senza volto e senza voce, privi di dignità, di cui si possa
disporre come "corpi-merce" nei centri di permanenza temporanea.


Non possiamo più tollerare che l'attività segregazionista, violenta e
criminale del lager Regina Pacis, sia ancora descritta e rivendicata dai
tristi protagonisti di questa storia con parole quali "accoglienza",
"solidarietà", "attività caritativa", "eroismo". Parole, queste, ancora oggi
utilizzate da alcuni media.


Quale "eroismo" si nasconde dietro il "lavoro" di Lo Deserto? Egli è, più
semplicemente, il gestore di un tassello della politica economica
neoliberista dell'immigrazione in Italia. Egli è un segmento della filiera
che fa degli immigrati uno dei più grossi business di questo secolo.
Quale "attività caritativa" può derivare dallo "stoccaggio" nei centri di
corpi-merci in transito, costretti entro il binomio produzione-sparizione?
Quale "accoglienza" può praticarsi in un recinto separato, da cui non si può
uscire, e in cui non si può entrare, filmare, fotografare, parlare, curarsi,
informarsi sul proprio destino?


La delegazione che è entrata nel lager ha raccolto testimonianze
agghiaccianti, ma il coro mediatico le bolla come "da verificare". Ci
chiediamo perché la parola dei condannati (senza reato!) debba valere meno
di quella dei loro aguzzini. Dove risiede l'umanità dei migranti reclusi, se
la loro voce "deve essere verificata" da prove ancora più evidenti dei segni
lasciati sui loro corpi? E gli ematomi, la braccia rotte, le lacrime, il
filo spinato, le lamiere sulle finestre, le telecamere e la militarizzazione
del territorio non bastano?
Quali strumenti di tortura ci si aspettava di trovare nello "stanzino" di Lo
Deserto? Ruote dentate? Vergini di ferro? Fruste e mazze ferrate?
Il sangue si lava, la voce si può zittire, gli occhi si possono chiudere, i
corpi si possono "trasferire" e rimpatriare. E' un clima terroristico,
intimidatorio, fatto di ricatti e ritorsioni, quello che regna al Regina
Pacis.


La vicenda dell'ultimo pestaggio ci lascia addirittura sgomenti. La denuncia
sarebbe "una bufala" perché fatta "da un soggetto psicolabile". Come nella
migliore tradizione delle istituzioni totali, la parola dei malati di mente
non vale nulla di fronte ai discorsi scientifici dei loro medici e
sorveglianti.
Al di là di ogni ragionevole dubbio, alcune cose sono molto chiare e vanno
denunciate: nella struttura si usano psicofarmaci in dosi massicce; persone
che hanno bisogno di cura non sono assistite, ma recluse, e questo
sicuramente peggiora le loro condizioni di vita.


L'esperienza storica del "campo di concentramento" ci insegna qualcosa a
proposito delle prove.
I nazisti, a chi andava in cerca di prove, offrivano "visite guidate" in
luoghi idilliaci, prati dove giocavano i bambini; diffondevano filmati in
cui centinaia di ebrei cantavano sorridenti, ballavano e suonavano i
violini.


La storia della "redenzione coatta", dal carcere a certi modelli di comunità
per tossicodipendenti, dai manicomi agli attuali CPT (laici o religiosi),
ci parla di una strategia di governo che diffonde nel corpo sociale pratiche
e discorsi di disciplinamento e controllo. Fili ininterrotti di una politica
volta ad eliminare tutto ciò che possa modificare i rapporti di produzione
in atto. Una pratica sottile e subdola, ma non per questo meno violenta e
perversa, che costruisce le categorie "devianti" per porle dinanzi
all'opzione: integrazione o deportazione. Una pratica da cui non sono
esclusi i cosiddetti "operatori", costretti, quando non sono complici (come
lo sono i kapò del Regina Pacis), a barcamenarsi tra senso etico e ordine
superiore dello Stato.


La nostra scelta di andare al centro della città, nella casa di Dio, non è
un episodio, non è una boutade da "società dello spettacolo". Prendere la
parola nel luogo dedicato a Cristo - condannato a morte per sedizione dalle
gerarchie ecclesiastiche e da quelle politiche - significa rimettere al
centro la collusione tra i poteri dello Stato e chi si arroga il compito di
"accogliere" e proteggere i più deboli, uniti da una pratica di pura
persecuzione.


A Dio quel che è di Dio, e a cesareŠil suo deserto.


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