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narrazione sull'autoformazione
by Un acrobata fra tanti (Rafael Di Maio) Wednesday, Jan. 15, 2003 at 3:51 PM mail:

Reclamiamo tutto! Saperi, precarietà e reddito di cittadinanza


Le profonde trasformazioni contemporanee dei processi produttivi attraversano pervasivamente la vita della società nella sua totalità, nelle sue funzioni produttive, nelle sue forme comunicative, mutando drasticamente i tempi, i ritmi e le modalità di tutto l’universo della “formazione” (ossia tutto il ciclo coinvolto nei processi formativi, dalle elementari fino all’università). Un processo di ristrutturazione generalizzato che coinvolge la “formazione” definendo per essa un ruolo centrale nel complesso frattale dell’odierno sistema produttivo.

C’è un gran parlare di paradigmi europei che dovremmo emulare, di “modelli anglosassoni” a cui dovremmo allinearci e, però, è invece evidente e realistico che si dovrebbe iniziare a considerare ormai sovrapposti i processi produttivi a quelli formativi, al punto tale che gli uni si dissolvono praticamente negli altri.

Dentro l’università ci siamo trovati, noi che facciamo parte di questa generazione in eterna transizione, a vivere sulla nostra pelle le trasformazioni che hanno definitivamente sancito e completato quel processo che, nato legislativamente con la riforma Ruberti, si è completato sotto i nostri occhi con quella Zecchino. Al di là di qualsiasi spicciola retorica, la riforma di cui parliamo definisce per la formazione un ruolo chiave nell’attuale processo postfordista, decretando l’ingresso indiscriminato dei capitali privati - nella stragrande maggioranza dei casi multinazionali come la Tim o l’Alenia spazio - nei bilanci delle università, ma soprattutto determinando di fatto la possibilità per le imprese di concertare i programmi didattici con i Cda.

La nostra esperienza universitaria può essere indicativa per il fatto di trovarci nel terzo ateneo di Roma, un ateneo innovativo, avanzato, molto “europeo”, come si dice oggi (!)… Un università che, con una piccola provocazione, potremmo definire ‘post-fordista’ in senso pieno. Esemplare è il suo modello di sviluppo urbanistico. Un sistema urbanistico che investe i quartieri, con le sue facoltà frammentate, dislocate sul territorio, con i suoi servizi di trasporto, tipo “navette”, che collegano le facoltà alle segreterie, alla mensa, all’Adisu. Non è un caso che molte facoltà abbiano preso fisicamente il posto di quelli che una volta erano le grandi fabbriche di Roma Sudovest, come l’Alfaromeo, l’ex Omi, etc.

Un ateneo imprenditoriale in continua espansione materiale ed immateriale, sostanzialmente pensato in contrapposizione all’ormai desueta strutturazione della Sapienza, una cittadella universitaria chiusa in spazi ben definiti e separati dal tessuto produttivo. Innovative a Roma Tre non sono solo le sue strutture (architettura quasi forzatamente post-modernista), ma innovativa è soprattutto la diversificata offerta formativa dell’ateneo che con le nuove lauree triennali corrisponde più dettagliatamente alle esigenze del mercato. Un’università che ora ha definitivamente irrigimentato il bacino di forza lavoro/utenza che la popola. Un sistema formativo che tendenzialmente aderisce sempre più alle esigenze del mercato, che pensa, investe e comunica come un’impresa. Basta leggere i prospetti informativi delle nuove lauree per accorgersi dell’utilizzo di un linguaggio mutuato direttamente dal “libro bianco sul lavoro” dell’attuale ministro del welfare. L’uso retorico dei termini come “professionalità”, evoluzione postfordista dell’ormai obsoleta “professione”, ne sono la conferma più emblematica.

Un’università che vive sul lavoro precario di centinaia di dipendenti eterodiretti diversificati per condizione contrattuale, mansione e luogo di lavoro, ma quasi tutti accumunati dalla precarietà, dall’incertezza di un reddito continuato. Un precariato che dentro la nostra università quotidianamente coinvolge anche gli studenti/fruitori sotto la dicitura di borsisti/collaboratori che sistematicamente tappano i buchi dell’amministrazione occupando posti di lavoro altrimenti destinati a vere e proprie assunzioni. Qualcuno di noi la definisce una “tigre di carta” per le alte aspettative d’impiego che il terzo polo universitario di Roma aveva creato nella città, dimostrandosi invece una fabbrica di precarietà dove l’uso generalizzato dei Co.co.co. e del part-time è sistematico, dove l’esternalizzazione di tutti i servizi è una pratica consolidata. Roma Tre è il luogo dove società edili che utilizzano regolarmente manodopera immigrata a nero hanno ottenuto gli appalti per costruire tutte le sue strutture. Contraddizioni che evidenziano le lacerazioni di un modello che si autoproclama “progressista”, ma che in realtà nasconde un complesso meccanismo di sfruttamento e separazione. In questo sì, Roma Tre è un’avanguardia…

In un simile contesto formativo molti studenti più o meno direttamente vivono una condizione precaria, un dato di fatto, una condizione per molti aspetti già visibile e tangibile. Ci siamo ritrovati, così, con la necessità di parlare dei nostri problemi immediati, della nostra specifica condizione di riproduzione in quanto studenti/precari. Ed è per questo che per alcuni di noi è nata la necessità di avviare un percorso d’inchiesta per comprendere le profonde trasformazioni del lavoro, partendo dalla nostra condizione soggettiva. Cosa ci dovremmo aspettare dal così detto “mondo del lavoro” se già molti di noi fanno acrobazie per mantenersi gli studi, se già molti di noi sono continuamente in una condizione lavorativa frammentata composta da collaboratori, camerieri, facchini, programmatori, quasi sempre stagionali? Cosa siamo se non già precari? Cosa siamo se non produttivi in ogni nostro gesto nell’ipermercato globale? In un certo senso, cosa siamo se non doppiamente produttivi, da un lato dentro la fabbrica del sapere a socializzare conoscenze, ad innovare il sapere trasformandolo in ricchezza, dall’altro lato nella metropoli in cerca di reddito, soggetti al ricatto del lavoretto, dell’occasionale, dell’interinale, comunque sempre deboli contrattualmente ed isolati per promuovere una qualsiasi seppur minima mobilitazione?

Parlare collettivamente della condizione di ognuno di noi, fare autoinchiesta, è stato fondamentale per iniziare un ragionamento sulla soggettivazione “precaria” degli studenti, il che ha portato anche al necessario confronto con altre e differenti situazioni di precarietà sociale e lavorativa (come i precari dell’Atesia a Cinecittà, o quelli degli Aeroporti di Fiumicino).

Ciò che dall'inchiesta risulta ormai innegabile è proprio che la produzione standardizzata corrispondente ai canoni tayloristi è soppiantata da un nuovo sistema produttivo che pone al centro della sua valorizzazione l’informazione, il sapere, la relazionalità e la soggettività sociale per intero. L’effetto pratico di questa metamorfosi del sistema produttivo è stato, tra l’altro, quello di spiazzare qualsiasi iniziativa di lotta sindacale tradizionale, la quale si trova ora di fronte una soggettività flessibile non meno che frammentata.

La produzione postfordista non solo apre la prospettiva di una nuova definizione dei rapporti di produzione e dei sistemi di controllo, ma proprio perché valorizza l’aspetto cooperativo e relazionale della nostra attività, rende imminente la riconsiderazione, su questo stesso nuovo statuto della produzione, dei diritti di cittadinanza che dovrebbero essere garantiti ai soggetti nel postfordismo, diritti che riconoscano la formazione permanente, l’informazione, la comunicazione e la mobilità non solo come elementi fondanti delle attuali condizioni di produzione e riproduzione del capitale, ma anche e soprattutto come articolazioni di un nuovo e più generale contenuto per il concetto di 'cittadinanza' che oggi più che mai diviene necessario al vivere in società. Se a più riprese si promuove l’ideologia della flessibilità e del rischio e l’unica soluzione che ci propone gran parte della sinistra è la difesa estenuante di una posizione arroccata su un sistema di diritti ancora profondamente legato allo sviluppo industriale, si tratta probabilmente di iniziare a rivendicare, partendo dai nostri desideri e bisogni, il riconoscimento di nuovi diritti che garantiscano la possibilità di essere flessibili, senza il ricatto di un reddito legato solo alla prestazione di lavoro.

Se parliamo di diritti universali e di cittadinanza non significa che chiediamo una rinnovata cristallizzazione dei nostri bisogni nella rete striminzita delle garanzie che il diritto positivo propugna per chiudere, quindi, il conflitto con una sintesi giuridica, una dialettica che sappiamo tanto cara al potere. Viceversa sono i nostri bisogni, sono i nostri desideri che muovono la nostra militanza sociale, che reclamano tutto ciò che ci serve, tutto quello che ci è stato negato, tutto quello di cui siamo stati depredati. Certo che la legge non ci basta. E' per questo che reclamiamo tutto quanto ancora manca alla nostra esistenza per realizzarsi in piena autonomia!

Liberare i bisogni non è solo la condizione fondamentale per realizzare la propria esistenza, ma è soprattutto la reale chiave d’accesso a qualsivoglia ricomposizione dei soggetti su un percorso comune.

Un soggetto sociale, prima che politico, che porta alle estreme conseguenze un’ipotesi biopolitica di conflitto. Un soggetto che dovrebbe partire da se stesso, ma anche andare oltre se stesso. Ripensando le modalità di organizzazione e di comunicazione “interna”. Le soggettività universitarie rifuggono i livelli di confronto imbrigliati dagli schematismi della politica, il calcolo e il verticismo come metodo politico e cercano strade per sperimentare una comunicazione orizzontale che inneschi dispositivi di partecipazione attiva e diffusa. La forza capace di esautorare l’opportunismo “dell’autonomia del politico” è forse proprio quella che parte da una “militanza dei bisogni”, senza maschere e mediazioni. Solo sui nostri desideri potremo articolare una reale contrapposizione che a tutt’oggi rimane irretita nelle logiche della rappresentanza. Solo a partire dai nostri bisogni, che magari manifestiamo dal più disparato luogo di lavoro fino ai più sperduti angoli della metropoli, potremo esplicitare il livello attuale di scontro, che è frontale perché pone il lavoro vivo contro il capitale senza veli o mediazioni.

Su questo livello di conflitto e nello stesso tempo di crisi, ci siamo noi con i nostri desideri e le nostre paure. La nostra è una condizione ambigua, propria delle figure trasversali che siamo, trasversalmente attraversate dalla produzione e dallo sfruttamento, quasi indefinibili. Incerti, precari nell’esistenza così come nella sua progettualità.

La vita nella sua quotidianità è una continua spesa, dall’affitto alle bollette dai libri ai CD. La riproduzione ha un costo per molti elevato e non vorremmo ascoltare riproposizioni scolorite di qualsiasi “dottrina del sacrificio”. Ora ci chiediamo cosa fare. Quale è la via d’uscita? Quale dispositivo dovremmo innescare per ribaltare questa condizione?

Reclamare un reddito garantito, per esempio, potrebbe essere un inizio. Un reddito per tutti, incondizionato, slegato dalla prestazione lavorativa, che riconosca il valore della nostra produttività sociale perpetua di cui siamo portatori in quanto comunicatori di idee, intelligenze, innovazioni e relazioni. Può non essere la panacea di tutti i mali, ma certo sarebbe un contro-dispositivo in grado di ricomporre il soggetto collettivo, per svincolarsi dal ricatto del lavoro sottopagato e per liberare l’autonomia del tempo di vita. Mille euro al mese, senza inganni, è quello che ci spetta, almeno per cominciare. Dovremmo, in fondo, accettare la sfida della flessibilità che il capitale ha tradotto in precarietà. Accettiamo la sfida, però, scegliendo il reddito di cittadinanza come primo piano di lotta. Questa è l’unica garanzia che potrebbe rendere la flessibilità, non una coazione, non un ricatto, ma una scelta. Rimandiamo al mittente la condanna all’ergastolo di otto ore al giorno a lavorare. Ripartiamo dai nostri bisogni e dalla nostra vita per liberare tempo e sovvertire il presente.

Un acrobata fra tanti… (Rafael Di Maio)


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