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Minaccia cinese, l'America ha paura
by Federico Rampini Monday, Jan. 26, 2004 at 11:11 PM mail:

Non c’è da stupirsi se le imprese americane si risanano più rapidamente di quelle europee,è ovvio che la ripresa arriva prima negli Stati Uniti.

Non c’è da stupirsi se le imprese americane si risanano più rapidamente di quelle europee, è ovvio che la ripresa arriva prima negli Stati Uniti. La velocità del cambiamento qui non ha eguali al mondo. Ma i costi umani e sociali di questa flessibilità ci sono e tra le paure dell'America c'è anche lo sviluppo impetuoso della Cina.

"In tre anni l'industria americana ha perso due milioni e mezzo di posti di lavoro. Di questi, un milione e mezzo per colpa dello yuan". L'accusa della Manufacturers Alliance, associazione confindustriale americana, è pesante: la Cina manipola la sua moneta (yuan o renminbi), la indebolisce per rendere ancora più competitive le sue esportazioni, già aiutate dal basso costo della manodopera. A 8,28 yuan per un dollaro, conferma il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, il tasso di cambio è sottovalutato del 30% in favore del made in China. "La valuta cinese diventa un problema per il business statunitense" titola in prima pagina The New York Times nel settembre 2003. George W. Bush manda d'urgenza il suo ministro del Tesoro John Snow a Pechino, in quello stesso mese, con una missione prioritaria: "esercitare una pressione politica diretta" sui dirigenti cinesi perché cambino politica monetaria. Ma per quanto Washington possa drammatizzare le proprie difficoltà economiche, la disoccupazione americana è poca cosa di fronte agli immensi bisogni della Cina. La superpotenza dell'altra sponda del Pacifico è pur sempre un paese in via di sviluppo, con problemi demografici di dimensioni uniche. "Nei prossimi dieci anni altri 150 milioni di contadini fuggiranno dalle campagne per riversarsi nelle città costiere in cerca di occupazione", secondo Chen Huai del Development Research Center di Pechino: questa massa di emigranti è superiore a tutta la forza lavoro degli Stati Uniti.

Tra la fame di lavoro della Cina, e l'imminente battaglia per la Casa Bianca che si giocherà anche sul livello della disoccupazione americana, ci sono gli ingredienti per un conflitto.

Bush rischia di subire un accerchiamento. Alle proteste degli industriali che invocano misure protezioniste - soprattutto nei settori più maturi come il tessile - si aggiungono quelle dei sindacati. In certi Stati ad alta concentrazione di colletti blu, come la Pennsylvania, la festa del Labor Day il primo settembre 2003 è stata dedicata a manifestazioni contro l'unfair competition, la concorrenza sleale. Per la prima volta gli slogan contro lo yuan sono comparsi nei cortei della classe operaia americana. E i politici fanno da cassa di risonanza del malessere anti-cinese. Sedici "pesi massimi" del Senato e della Camera di Washington, sia repubblicani sia democratici (da Elizabeth Dole a Joseph Lieberaman), hanno scritto una lettera aperta a Bush perché scenda in campo in difesa dell'industria americana.

Il boom cinese da un decennio viaggia a ritmi di crescita del Pil dell'8% annuo. La fiducia nel gigante asiatico forse è eccessiva: gli occidentali sottovalutano il rischio finanziario nascosto nei bilanci opachi delle banche cinesi, sopravvalutano la capacità della leadership comunista di mantenere a lungo la stabilità politica nel paese. Ma sta di fatto che la luna di miele tra il capitalismo e Pechino è tale da provocare un'inondazione di capitali. Con 53 miliardi di dollari di investimenti stranieri la Cina è la seconda destinazione preferita dalle multinazionali mondiali, subito dopo gli Stati Uniti (e di questo passo li raggiungerà). È altrettanto sintomatico il rientro di risparmi cinesi dall'estero: da 20 a 30 miliardi di dollari sono tornati in patria nel primo semestre del 2003, una fuga di capitali alla rovescia che la dice lunga sulla fiducia degli stessi cinesi nel loro boom.

Proprio questa invasione di capitali, aumentando la domanda di yuan, dovrebbe rafforzare automaticamente la valuta cinese. Invece niente. Per quanto Pechino abbia ormai sposato da anni i princìpi del capitalismo, sul fronte monetario è rimasta all'epoca del dirigismo comunista: la moneta non fluttua liberamente, il cambio è fissato dalla Banca Centrale. Che si rifiuta di schiodarlo da quota 8,28 per un dollaro.

Visto che i mercati sono convinti che lo yuan debba valere molto di più - e scommettono su una svalutazione del dollaro - la Banca Centrale cinese è costretta a comprare dollari al ritmo di 10 miliardi al mese. Con queste operazioni alla fine del 2003 aveva ormai accumulato riserve record, per 350 miliardi di dollari. La manipolazione del cambio, mantenuto debole contro il volere dei mercati, regala un sovrappiù di competitività al made in China e attira le accuse di concorrenza sleale. Gli Stati Uniti vedono gonfiarsi il loro deficit commerciale con il gigante asiatico: quest'anno sono in rosso per 100 miliardi di dollari. Negli ultimi cinque anni le loro importazioni di made in China sono raddoppiate.

Di fronte alla paura americana che l'invasione di prodotti cinesi abbia gli stessi effetti devastanti dell'offensiva giapponese negli anni Ottanta, gli accusati si difendono vigorosamente.

Lu Zheng, direttore dell'Istituto di Economia industriale all'Accademia delle scienze sociali, ricorda che la Cina ha ancora rapporti di scambio tipici da paese sottosviluppato: deve esportare 300.000 apparecchi televisivi per guadagnare abbastanza valuta da comprarsi un Boeing. Prima che il colosso asiatico diventi una vera minaccia nelle produzioni tecnologicamente più sofisticate, ce ne vorrà. Attualmente quel che l'intera Cina riesce a investire in ricerca scientifica in un anno (10,7 miliardi di dollari) è la stessa somma che spende una sola impresa tedesca, la Siemens. Fra le 500 maggiori multinazionali del mondo, il 30% sono americane, neanche una cinese si piazza in classifica.

La politica della moneta viene giustificata. L'Occidente ha la memoria corta, rimprovera Chen Zhao del Bank Credit Analyst Research Group: "Pechino fece grossi sacrifici durante la crisi asiatica del 1997-98, per difendere la sua moneta mentre tutte le altre valute del Sud-Est asiatico crollavano del 50% o dell'80%. Se l'argine cinese avesse ceduto, l'intera economia mondiale sarebbe stata contagiata da una grave deflazione". Chen sottolinea poi che la Cina, dopo il suo ingresso nel Wto, sta smantellando molte barriere protezionistiche: rispetta le regole del commercio mondiale più di quanto non abbia fatto per decenni il Giappone. Il paese si sta aprendo, le importazioni dall'estero aumentano del 45% in un anno. Dalle auto di lusso ai telefoni cellulari, fino ai macchinari più sofisticati, i cinesi stanno diventando un grande mercato, e il loro ceto medio-alto ha gusti di consumo esterofili. Infine la politica della moneta debole dà un vantaggio al resto del mondo: per mantenere sottovalutato lo yuan, Pechino acquista dollari, quindi finanzia il crescente deficit americano, e consente ai consumatori statunitensi di continuare a vivere al di sopra dei loro mezzi. Bush e il suo ministro Snow non possono tirare la corda più di tanto. La ripresa americana è finanziata anche dal credito cinese, il destino dei due paesi è più legato di quanto appaia dalle polemiche e dalla diffidenza reciproca.


tratto da "Le paure dell'America"
Collana: i Robinson/Letture


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