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I due calabresi
by babi Wednesday, Apr. 21, 2004 at 2:56 PM mail:

- Walkiria Terradura - Non so perché ne scrivo, considerato che ho da dirne così poco: l'ho conosciuti appena, ho parlato con loro non più di due o tre volte, anche se li ho visti spesso di lontano andare solitari lungo i sentieri sui monti

Non so perché ne scrivo, considerato che ho da dirne così poco: l'ho
conosciuti appena, ho parlato con loro non più di due o tre volte, anche
se li ho visti spesso di lontano andare solitari lungo i sentieri sui
monti. Indossavano la divisa grigioverde - forse non avevano trovato chi
potesse dargli degli indumenti civili o forse essi stessi si erano fatti
scrupolo di accettarli - avevano la barba lunga e un'aria spenta che mi
faceva ricordare con ironia i vaneggiamenti mussoliniani su questo nostro
popolo di santi, di navigatori, di eroi.
Come tutti noi anche questi due altri ragazzi fuggitivi non erano certo
degli eroi: ci ritrovammo insieme alla macchia per sfuggire - almeno
all'inizio - la rabbia dei nazisti e le loro vendette.
La prima volta che gli parlai fu per chiedergli chi fossero e da dove
venissero: mi risposero di essere calabresi, ex militari - come potevo ben
vedere dalla divisa che indossavano - di aver deciso, dopo l'armistizio,
di non tornare nella loro Regione per paura di cadere prigionieri dei
tedeschi che controllavano strade e ferrovie, di essersi fermati sui monti
in attesa di tempi migliori.
Il più giovane dei due aggiunse che comunque egli non avrebbe potuto
farcela a superare le difficoltà di un viaggio così lungo, in gran parte
da effettuare a piedi, perché soffriva di malaria, con frequenti attacchi
di febbre che gli toglievano ogni forza, ma che per fortuna il suo
compaesano aveva deciso di non lasciarlo solo.
Disse anche che si erano conosciuti in Caserma, che erano diventati subito
amici e che si erano sentiti uniti e solidali specie quando altri
commilitoni, provenienti da Regioni diverse, ridevano di loro chiamandoli
africani e del loro dialetto chiuso e sonnolento che - dicevano - era il
loro inconfondibile marchio di terroni.
Dopo qualche tempo li incontrai in un bosco dove si erano fermati a
riposare. Non mi avevano sentito arrivare e mi guardarono sorpresi.
Gli sedetti accanto e cominciammo a parlare un po' di tutto: poi mi sembrò
che non avessimo più niente da dirci e allora gli chiesi se la Calabria
fosse davvero bella come qualcuno mi aveva detto.
Alla mia domanda risposero con un entusiasmo che non mi aspettavo.
Mi descrissero la loro terra assolata, le vigne tra le rocce, gli aranceti
opulenti come quelli di Sicilia, i grandi ulivi dai cui frutti si ricavava
un olio verde e saporoso al cui confronto quello prodotto in altre regioni
risultava sciapo come l'acqua. La loro campagna odorava di origano e di
menta selvatica, esplodeva violenta nel rosso dei peperoncini e dei
papaveri, le loro montagne erano alte e ricche di boschi, dal loro mare
trasparente riaffioravano talvolta statue di eroi e di Dei sconosciuti,
cacciati negli abissi dalle vicende della storia.
Tacquero sulle zone della pianura dove in gran parte regnava la malaria:
forse amavano tanto la loro terra che non vollero parlarmene per non
sminuirne la bellezza.
La loro gente era povera e generosa e spesso qualche poeta contadino
traduceva in versi il suo pianto antico, ma anche la sua speranza di
felicità. Come smisero di parlare approvai entusiasta ciò che ora l'uno e
ora l'altro mi avevano detto e improvvisamente scomparve tra noi ogni
residua diffidenza. Prima di andarmene gli chiesi se avessero trovato una
casa dove alloggiare stabilmente, ma mi risposero di no.
Non ho mai capito perché non avessero chiesto ospitalità a qualche
famiglia della zona, come tutti noi avevamo fatto: oggi io penso che forse
il ragazzo malato si vergognasse della sua infermità o che non volesse
imporla. Ed è sempre per questa sua malattia che io penso non abbia voluto
entrare in nessuna delle squadre partigiane che si andavano formando,
certo di essere di peso e non di aiuto.
Dormivano dovunque, nelle stalle, nei fienili, tra i pagliai: i cani
avevano imparato a riconoscerli e non gli abbaiavano contro, anzi gli si
avvicinavano festosi, mugolando e dimenando la coda.
Poi qualcuno disse che avevano trovato una grotta nella parte più alta del
Burano dove avevano nascosto una gran quantità di cibo e dove, come gli
antichi briganti del loro paese, andavano solo di notte perché nessuno
scoprisse il loro rifugio, ma presto capii che queste voci non erano altro
che stupide fantasie. Seguitavano infatti ad offrire ai contadini il loro
lavoro in cambio di qualcosa, da mangiare e ad andare raminghi,
spostandosi da un luogo all'altro alla ricerca di un posto dove passare la
notte.
In primavera, dopo mesi, li incontrai di nuovo: erano in un'aia dove una
donna gli aveva appena dato delle uova.
Erano più magri del solito e le loro divise grigioverdi erano diventate
sbiadite e consunte.
"Come va?" - gli chiesi - e quasi ad una voce mi risposero:"Bene! Bene!" e
non aggiunsero altro.
Avevano un appuntamento da qualche parte e se ne andarono subito.
Prima della svolta del sentiero si voltarono agitando le mani in segno di
saluto e io gli risposi gridando: "Arrivederci a presto!".
Mi accorsi allora di non sapere neppure come si chiamassero e mi ripromisi
di chiederglielo non appena li avessi incontrati di nuovo: li sentivo miei
amici e non volevo pensarli senza dargli un nome, soltanto cioè come "i
due calabresi".
A maggio, improvvisi, arrivarono i tedeschi. Avevano bloccato tutte le vie
di accesso alla zona partigiana con autoblinde e carri armati perché
nessuno potesse sfuggire all'accerchiamento e procedevano a squadre
appiedate, rastrellando l'intero territorio. Dai luoghi dove mi rifugiavo
li seguivo con il binocolo: potevo vederli bruciare le case e frugare in
ogni dove. Vedevo i contadini uscire sulle aie con le braccia alzate,
sospinti dai calci dei mitra, tra le proteste delle donne e il pianto dei
bambini. Vedevo il bestiame abbandonato nei campi e altro ne sentivo
mugghiare di terrore nel chiuso delle stalle accerchiate dal fuoco.
Si susseguirono giorni disperati, in cui la sola ragione fu quella della
forza.
Verso il 15 di maggio attaccarono con più furore del solito: avevano
piazzato mortai e mitragliatrici a ridosso di tutti i passi obbligati,
sparando su tutto e su tutti.
Ero nascosta su un'altura tra Ca' Cambiucci e Veia quando vidi due uomini
attraversare di corsa i prati della Palazza. Puntando il binocolo nella
loro direzione, riconobbi i due calabresi. Mi stavo domandando perché in
pieno giorno si mostrassero allo scoperto non rispettando le più
elementari regole di prudenza, quando udii il fuoco di una mitraglia e poi
un susseguirsi di colpi isolati. Vidi i due calabresi cadere a terra e per
quanto provassi e riprovassi a metterli a fuoco di nuovo, non riuscii a
vederli perché il colore delle loro divise si era confuso con quello
dell'erba.
Sperai che non fossero stati colpiti e che potessero presto rialzarsi e
fuggire, ma benché guardassi con spasmodica attenzione, vidi solo una
ferma distesa di verde.
Attesi a lungo, sempre guardando verso il punto in cui erano caduti e alla
fine vidi i tedeschi che vi si dirigevano, sparando in ogni direzione per
isolarsi in un sicuro cerchio di fuoco.
Ben presto fui costretta a lasciare il mio nascondiglio: mi asciugai le
lacrime che mi impedivano di scorgere anche il sentiero che avevo lì
vicino, e ricominciai a fuggire.
Verso sera mi fermai spossata: il cielo era nero e senza neppure una
stella e il silenzio intorno mi fece più paura degli spari del giorno
appena trascorso.
Ripensai allora ai due ragazzi calabresi che avevo visto correre insieme
verso la morte. Li riudii parlare con quella cadenza dialettale che dava
armonia alle loro parole e ripensai i loro silenzi come pause di una
musica. Li rividi lungo i sentieri della Serra nelle loro anacronistiche
uniformi di soldati, ai cui bottoni spesso legavano un fiore, ma rividi
anche la loro solitudine e il loro sorriso senza gioia.
E dopo tanti anni è così che li ricordo.

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Walchiria Terradura Vignarelli è nata a Gubbio (Perugia) il 9 gennaio 1924.
Studentessa universitaria iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza di
Perugia, lasciò gli studi per entrare nella Resistenza.
Partigiana combattente nella 5a Brigata Garibaldi "Pesaro", partecipava,
giovanissima, alla lotta partigiana, distinguendosi per le sue doti di
organizzazione e per il coraggio.
Decorata di Medaglia d'Argento al Valor Militare per una delle sue azioni
di guerra particolarmente valida e decisa.
Fra le altre decorazioni, oltre la Croce al merito di guerra, fu insignita
della Croce di Cavaliere al merito della Repubblica. Le fu riconosciuto il
grado di Sottotenente, comparato a quello di ispettore organizzativo
ricoperto nelle formazioni partigiane

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