Indymedia Italia


L'articolo originale e' all'indirizzo http://italy.indymedia.org/news/2004/11/680194.php Stampa i commenti.

Salpare - Progetto Eurasia
by alexander Wednesday, Nov. 17, 2004 at 9:28 PM mail:

da una parte i crociati di Washington ed i loro amici ed alleati, più o meno servili. Dall’altra il fronte di chi intende resistere a questo totalitarismo imperiale. E’ chiaro che così come sarà articolato lo schieramento americanista, la stessa cosa dovrà inevitabilmente avvenire nello schieramento opposto. L’importante è comprendere che quello schieramento è il nostro

SALPARE

Cari antiamericanisti,
da quasi un anno e mezzo discutiamo del da farsi, dei tempi e dei modi per andare alla costituzione di un nuovo movimento politico antiamericanista.
Penso, ma non è un’opinione solo mia, che sia venuto il momento di salpare, di rompere gli indugi per una navigazione in mare aperto.
Ne ero convinto prima delle elezioni americane del 2 novembre, a maggior ragione ne sono convinto oggi.
Chi avesse la pazienza di rileggersi i tre documenti principali prodotti in questa sorta di “fase costituente informale” (Bozza di manifesto per un movimento di resistenza all’impero americano - giugno 2003; Un altro mondo è impossibile, è questo che vogliamo liberare - agosto 2003; Una forza popolare di liberazione - febbraio 2004) vi troverà analisi e proposte tuttora valide e confermate dai fatti.

Basta seguire con un minimo di attenzione quel che scrivono i commentatori più accreditati delle diverse tendenze unificate dal “politically correct” per rendersi conto che davvero uno spettro si aggira per l’Europa, ed oggi questo spettro si chiama antiamericanismo.
Non si riflette mai abbastanza su questo fato, come se fosse l’espressione di una qualche distorsione maniacale del pensiero dominante. Ma se una mania è così diffusa e pervasiva deve pur esserci una ragione di fondo, e la ragione è che per il blocco dominante l’americanismo (pur variamente declinato) è l’unica ideologia di legittimazione rimasta.
Dunque l’antiamericanismo è il vero nemico, un nemico percepito come mortale, dal quale può sorgere un movimento radicalmente antisistemico.
Per comprendere che così stanno le cose può essere utile soffermarsi su quattro punti di carattere generale:

1. La tendenza alla costruzione dell’impero globale americano è di lungo periodo e prescinde dunque dall’elezione di questo o quel presidente. Tuttavia le caratteristiche della vittoria di Bush (numero dei votanti relativamente alto, scarto piuttosto significativo sul concorrente Kerry, peso crescente dei settori fondamentalisti e reazionari - i cosiddetti “cristiani rinati”) indicano chiaramente che il progetto di dominio planetario ha non solo solide basi materiali, ma anche un notevole consenso popolare.
Si tratta dunque di un progetto destinato a segnare profondamente il nostro tempo, a disegnare sempre più nettamente la linea di demarcazione tra le forze in campo nello scontro decisivo della nostra epoca. In breve: da una parte i crociati di Washington ed i loro amici ed alleati, più o meno servili. Dall’altra il fronte di chi intende resistere a questo totalitarismo imperiale.
E’ chiaro che così come sarà articolato lo schieramento americanista, la stessa cosa dovrà inevitabilmente avvenire nello schieramento opposto. L’importante è comprendere che quello schieramento è il nostro, e non solo in termini di solidarietà a chi lotta in prima linea (esempio il sostegno alla resistenza irachena), bensì riuscendo a costruire ed articolare un progetto di resistenza politica e culturale, tendenzialmente di massa, qui ed ora, nell’Italia e nell’Europa dei prossimi anni.
Su questa base il sostegno alle lotte dei popoli per la libertà e l’autodeterminazione diverrà parte di un progetto più generale e di fronte più vasto, senza il quale anche quelle lotte rischiano di essere isolate e sconfitte.

2. L’Europa è, per molti aspetti, il terreno ideale per costruire un forte movimento antiamericanista ancorato ai valori di Libertà, Uguaglianza e Fraternità.
L’Europa sta vivendo una grave crisi sociale, politica e culturale di cui non si intravede lo sbocco.
La pasticciata costruzione dell’Unione Europea, un allargamento ad est che ne aumenta la disomogeneità, una costituzione senz’anima, un distacco crescente dai popoli (basti pensare all’astensionismo registrato alle elezioni di giugno), la clamorosa spaccatura sulla guerra all’Iraq, mostrano un continente litigioso e in affanno, scontento dell’egemonismo USA ma ad esso subalterno.
Sullo sfondo di tutto ciò c’è la tendenziale marginalizzazione economica del polo europeo che, ormai da molti anni, registra indici economici assai peggiori di quelli americani, per non parlare di quelli dei giganti asiatici (Cina ed India) che partono però da livelli troppo bassi e dunque incomparabili.
Sia ben chiaro, tendenziale marginalizzazione non vuol certo dire precipitazione verso standard latinoamericani, vuol dire semplicemente perdita di ruolo nella competizione intercapitalistica internazionale con tutto quel che ne consegue. Le sprezzanti battute di autorevoli membri dell’establishment americano sulla “Vecchia Europa” illustrano assai bene la condizione (economica, politica ed anche demografica) di un polo imperialistico che oggi - senza scommettere su un futuro lontano - non solo non è riuscito a costruirsi come credibile antagonista degli USA, ma si è addirittura spappolato di fronte all’iniziativa politico-militare di Washington.
Ed è stata proprio la pressione venuta da oltreoceano la chiave che ha portato a galla le incongruenze, le incapacità, i limiti intrinseci della classe politica europea di fronte ad una sfida che ha in palio il dominio mondiale.
E questo non vale soltanto per il servilismo congenito dei “postcomunisti” arrivati da est, o per quello altrettanto pittoresco dell’indecorosa classe politica italiana, né solo per l’azione di sabotaggio dei fedelissimi inglesi. No, vale anche per l’asse Parigi-Berlino, certo un pò più solido rispetto al traballare degli altri partners, ma assolutamente inadeguato alla bisogna..
In breve, l’Europa è certamente un’entità imperialista, certamente ha provato a costruirsi come polo capace di contendere su tutti i piani l’egemonia agli USA, ma altrettanto certamente ha fallito.
Nessuno può dire che questo tentativo non verrà ripreso in altre forme e con altri risultati in futuro, ma oggi è fallito. E qualsiasi politica di resistenza all’imperialismo non può non partire da questo dato della realtà.
Non siamo cioè nella situazione del 1914 con forze imperialiste sostanzialmente equivalenti. Siamo nella guerra permanente, infinita ed asimmetrica proclamata formalmente dagli USA nel 2001, ma di fatto in gestazione dal 1991, che ha - nelle intenzioni degli strateghi americani - l’obiettivo della costruzione di un unico impero mondiale. Un impero costruito secondo gli interessi economici e geostrategici degli USA dentro la cornice ideologica di una guerra di civiltà che vuole imporre i “valori”, i modi di vita, la cultura, in breve la concezione del mondo, tipica della società americana.
Se l’Europa appare sempre più schiacciata da questa prospettiva, l’Italia è forse il paese dove maggiormente se ne avvertono le conseguenze anche in termini sociali.
Gli stessi studi più recenti (vedi le statistiche ISTAT rese pubbliche nei giorni scorsi) mettono in luce una crescente insoddisfazione sociale, un malcontento che ancora non si esprime, se non in maniera limitata ed occasionale, ma che cova sotto la cenere non trovando ancora né forme soddisfacenti di rappresentazione politica, né obiettivi adeguati alla profondità della crisi.
Insomma, non siamo certo alla vigilia di un’esplosione rivoluzionaria, ma siamo sicuramente ben lontani dal clima rampante degli anni ’80 del “capitalismo vincente” e da quello sonnacchioso e rassegnato degli anni ’90.
E accanto all’insoddisfazione cova anche la rabbia. Quale strada prenderà può dipendere anche da noi.

3. Di fronte a questa crisi - che è politica, sociale, economica e culturale - non vi sono proposte credibili in campo.
Le classi dominanti, come pure il ceto politico dominante - si battono per difendere e consolidare il loro potere ed i loro privilegi, senza sapere però indicare una via d’uscita appetibile per il grosso della società. E questa incapacità determina una evidente crisi di egemonia, che si cerca di rintuzzare con il controllo asfissiante dei media e con l’uso di regime di una cultura largamente normalizzata, ma che è sempre più difficile nascondere.
In questo quadro la stessa organizzazione del consenso diventa affannosa, abbisognando di un nevrotico e quotidiano bombardamento mediatico, che ottiene sì nell’immediato l’effetto voluto, ma che non riesce più a strutturare il consenso in maniera solida e stabile.
La sinistra ufficiale, cioè la faccia “buonista” della medaglia bipolare, è ormai al servizio delle oligarchie finanziarie dominanti ed in quanto a progettualità non si differenzia da esse. Il massimo che riesce a proporre è la realizzazione di politiche di stabilizzazione, la cosiddetta “governabilità” di craxiana memoria, nell’ambito di un liberismo ortodosso appena temperato da minimali attenzioni sociali (il cosiddetto “buonismo” appunto) volte essenzialmente alla prevenzione del conflitto sociale.
Quella che si autodefinisce “sinistra alternativa” (Prc, ecc.) non esce da questo impianto. Così come la sinistra è solo una faccia del bipolarismo, la sinistra alternativa è solo il lato un pò radicale della sinistra bipolare.
Certo, la sinistra “alternativa” è più attenta e presente nel movimento, più attenta e presente nelle lotte. D’altronde è proprio questo che porta in dote alla sinistra di regime restandone di fatto - per scelta e per l’oggettività delle cose - prigioniera.
Non è un caso che anche da questi settori non venga alcuna proposta, se non un interessato e generico richiamo al “movimento”. Ed è proprio il movimento antiglobalizzazione, incastratosi nelle sue ambigue teorizzazioni, la vittima di questa tenaglia che il ceto politico professionale, nelle sue varie articolazioni, ha predisposto con cura. Questo movimento è da tempo in crisi avendo creduto di poter dribblare allegramente la principale contraddizione della nostra epoca, avendo creduto a chi gli ha voluto fare credere che fosse la seconda superpotenza mondiale.
Oggi - il fallimento del Social Forum Europeo di Londra lo dimostra - questa crisi è drammatica e senza appello se i dirigenti (od almeno una parte di essi) non vorranno fare autocritica sulle impostazioni che stanno determinando il disfacimento.
Le stesse formazioni di estrema sinistra si mostrano totalmente incapaci di formulare risposte politiche credibili di tipo complessivo. In questo caso, schematismi, ideologismi, settarismi di ogni genere, impediscono di guardare in faccia la realtà, di tentare la famosa analisi concreta della situazione concreta. Quel che ne esce è una riproposizione, ogni volta sempre più inaridita, di concetti magari giusti ma presentati come dogmi atemporali e mai tradotti in termini attuali e concreti.

4. In questo quadro, per molti versi desolante, ma potenzialmente assai dinamico, dobbiamo chiederci se l’antiamericanismo può invece essere davvero il collante di una risposta adeguata.
Personalmente ritengo di sì. Ed è perlomeno una risposta che non si impaluda nel “politically correct”, non cerca nicchie nella politica bipolare, non cede alle sirene dell’ideologia, ma cerca di partire da un atto semplice quanto decisivo: nominare, qui ed ora, il nemico principale degli oppressi e degli sfruttati, il nemico di ogni idea di società fondata sui valori dell’universalismo e dell’umanesimo, dell’uguaglianza e della libertà. In breve, il nemico del futuro dell’umanità: gli Stati Uniti d’America.
Ma perché questa risposta può essere non solo quella giusta ma anche quella credibile e perciò efficace? Proviamo a dirlo in maniera sintetica: perché sotto la superficie di un consenso traballante, cova la tempesta generata da un malcontento crescente. Non si tratta, ovviamente, di una spinta unilineare con esiti predeterminati. Si tratta piuttosto di un coacervo di spinte, ancora informe e muto, ma potentemente alimentato da dinamiche di fondo che paiono destinate a rafforzarsi.
In questo coacervo, in cui - come in ogni epoca di crisi - sono contenuti anche aspetti populistici che potrebbero evolvere in direzioni ben diverse dalle nostre, emergono però tre elementi di fondo che possono essere la forza di un progetto che sappia essere chiaro, ambizioso e coraggioso.
Si tratta di tre rifiuti: il rifiuto del dominio imperiale totalitario targato USA, il rifiuto del dominio totalitario del mercato, il rifiuto del dominio (totalitario perché sganciato da ogni rapporto democratico) dell’attuale ceto politico espressione del regime bipolare.
Questo triplice rifiuto è sotto gli occhi di tutti ed è evidente che contiene in sé potenzialmente le migliori spinte egualitarie e democratiche della nostra epoca.
Vediamo brevemente questi tre rifiuti:

a) Il rifiuto del dominio imperiale americano, registrato da innumerevoli sondaggi d’opinione nello scandalo generale di commentatori di ogni sorta, è la forma concreta che ha assunto la coscienza antimperialista oggi a livello di massa. E non è una forma necessariamente “arretrata”, dato che coglie l’essenza delle cose assai meglio di un certo antimperialismo ideologico di matrice economicista.
Questo rifiuto dice no alla logica sopraffattrice del più forte militarmente, no ad un mondo gerarchicamente strutturato, no al diritto imperiale di fare guerra in ogni angolo del pianeta. E’ un rifiuto che traduce politicamente le istanze più sincere che hanno portato in piazza, a cavallo tra il 2002 ed il 2003, milioni di persone contro la guerra.
Che senso ha, infatti, battersi per la pace se non si comprende nemmeno qual è la benzina che alimenta la guerra? Chi comprende, magari confusamente, che il nemico principale sono oggi gli Stati Uniti d’America ha già compiuto un grande passo avanti. Insufficiente a trasformare una consapevolezza ancora incerta in militanza, ma comunque decisivo.

b) Anche il rifiuto del dominio totalitario del mercato non è più soltanto patrimonio di piccole minoranze riottose.
L’ubriacatura liberista è finita. Ma il liberismo in crisi non può essere battuto con politiche difensiviste, basate sulla logica della “limitazione del danno”.
In generale il liberismo è solo una delle forme che può assumere la politica economica del capitalismo per riprodursi, disgregare la forza dei lavoratori salariati, eccetera. Sempre in generale, liberismo e statalismo non sono che due modalità diverse con le quali le classi dominanti ottengono il medesimo risultato, quello di poter esercitare il proprio dominio con il minimo dispendio di risorse economiche e di concessioni politiche.
Tuttavia sarebbe sbagliato prescindere dal fatto che nella concretezza della storia dell’ultimo venticinquennio il liberismo si è presentato come il “capitalismo realmente esistente”.
Ed è un fatto che questa tendenza, che copre ormai un quarto di secolo, abbia avuto origine, sul piano politico, dalla coppia Reagan-Thatcher che ha aperto la strada al duo Bush-Blair.
Per la prima coppia i nemici erano l’“Impero del Male” sovietico ed i lavoratori da flessibilizzare (cioè da piegare) in ogni modo. Per la seconda coppia il nemico, generalmente etichettato come “terrorista”, è chiunque si opponga alla costruzione dell’impero mondiale a stelle e strisce che un ruolo secondario lo assegna anche ai fedelissimi di Londra.
Nel frattempo la politica antisociale fatta di privatizzazioni, di leggi che hanno fatto del precariato la condizione tendenzialmente prevalente dei lavoratori salariati, di tagli ai salari, alle pensioni, alla sanità, alla scuola, di trasferimento della ricchezza verso il vertice della scala sociale, è andata avanti.
Ma mentre per un certo periodo questa politica suscitava sì resistenze nei settori sociali colpiti, ma appariva ineluttabile ai più come l’alternarsi delle stagioni, oggi non è così.
Naturalmente gli economisti in servizio permanente effettivo si affannano a spiegare che ciò che non funziona non funziona proprio per l’insufficienza di liberismo, di mercato, di privato. Sempre meno, però, sono quelli che gli credono anche se magari ben pochi saprebbero indicare scelte alternative.
Quello che qui è importante sottolineare è che il Dio Mercato ha sempre meno fedeli, perlomeno sempre meno credenti praticanti anche se il numero dei battezzati continua ad essere formalmente in crescita all’anagrafe del pensiero unico.
Ed insieme a questo Dio torna ad essere messo in discussione - sia pure confusamente - il capitalismo come migliore dei mondi possibili. E non c’è dubbio che il liberismo di matrice americana, con la sua esplicita negazione di ogni valore sociale, di solidarietà, di uguaglianza, con la sua riduzione a denaro di ogni relazione sociale, venga percepito come la vera fonte delle crescenti ingiustizie come delle vecchie e nuove povertà. E che si tratti di una fonte ben armata, palesemente determinata ad imporre la sua visione del mondo, non fa altro che rafforzare questa percezione.
Ecco perché, per dirla in poche parole, anticapitalismo ed antiamericanismo antimperialista non solo possono, bensì debbono stare insieme per marciare uniti contro il nemico comune.

c) Il rifiuto del dominio, anch’esso totalitario, di un ceto politico bipolare asservito alle oligarchie finanziarie dominanti è facilmente riscontrabile negli strati popolari del nostro paese.
Non si tratta del semplice “rifiuto della politica”, di un qualunquismo alimentato dalle classi dominanti come è avvenuto in altre epoche.
Quaranta anni fa, ad esempio, il qualunquismo era favorito dai centri di potere di allora che temevano che la politicizzazione - qualora fosse avvenuta - avrebbe favorito le formazioni di sinistra allora in ascesa e che contenevano (sia pure con gradazioni molto differenziate) indiscutibili elementi antisistemici.
Oggi la politicizzazione - vedi gli appelli ad “andare a votare” - è invece ricercata essendo il ventaglio delle forze bipolari o completamente sistemico (nella sua grande maggioranza) o comunque fungibile dal sistema (nella sua esigua minoranza), il che alla fine non fa grande differenza.
Il “rifiuto della politica” è dunque in larga parte rifiuto di questa politica unificata dal pensiero unico e dal “politicamente corretto”. Ed è soprattutto rifiuto di un ceto politico marcio, che si avverte corrotto nell’anima ben più dei maneggioni della prima repubblica. Un ceto politico sempre più separato dalla società che pretenderebbe di rappresentare, sempre più staccato dai bisogni reali della popolazione, sempre svincolato da ogni rapporto democratico.
Ed è - particolare assolutamente centrale - un ceto politico comunque filoamericano.
Partiamo dal centrodestra, dove si va dal filoamericanismo di AN, basato sull’adesione al modello autoritario degli USA (presidenzialismo, pena di morte, cosiddetta “lotta al terrorismo”), al filoamericanismo di Forza Italia e Lega, fondato sull’adesione al modello del darwinismo sociale (politica fiscale, riduzione al minimo di ciò che resta dello stato sociale, eccetera), passando per il filoamericanismo degli ex DC ancorato al tradizionale atlantismo della guerra fredda ed alla tendenza genetica di questi settori a stare sempre con il più forte.
Ma venendo al centrosinistra il quadro non cambia. In questo schieramento evidente è il filoamericanismo della sinistra ulivista (DS, SDI e Margherita, insomma la grande maggioranza della neonata GAD) che oltre ad essere l’espressione degli interessi dei grandi gruppi economici che tutto vogliono fuorché scontrarsi con gli USA, si identifica apertamente nell’idea di superiorità della democrazia (ed in definitiva, della “civiltà”) americana.
A questo filoamericanismo esplicito, ed anzi gridato, si affianca, su un piano quantitativamente diverso ma qualitativamente affine ed a tratti gemello, il filoamericanismo di certa “sinistra alternativa” non a caso anch’essa nella filoamericanista GAD. Il caso emblematico, basato sul rifiuto di guardare in faccia la realtà, come condizione per poter portare avanti una politica fondata sulla integrale disonestà intellettuale, è quello del segretario del PRC Bertinotti. Costui non si è fatto mancare niente, neppure la messa nero su bianco della giustificazione di Hiroshima come risposta al Male assoluto rappresentato da Auschwitz.
Il tratto distintivo di questa sinistra presunta “alternativa” è appunto il non voler vedere la realtà, l’ostinarsi a credere in un “Altra America” addirittura potenzialmente maggioritaria, al punto da aver fatto titolare al Manifesto del 3 novembre (tratto in inganno dagli exit poll) quell’incredibile “Good Morning America” che dovrà passare alla storia non come un semplice benché gigantesco errore giornalistico, ma come il più grande abbaglio politico di una sinistra che ha la testa più dura dei fatti.
Concludendo su questo punto possiamo dire che il rifiuto del ceto politico bipolare è dunque, nei fatti, rifiuto di un ceto politico asservito politicamente, o comunque subalterno culturalmente, all’americanismo.

Partire dai tre rifiuti appena elencati per cercare di dargli voce, espressione politica, organicità e consapevolezza - e ben sapendo che realisticamente vi si riuscirà solo in parte - è l’unico modo per tentare di costruire una soggettività politica minimamente adeguata allo scontro in atto.
Illudersi di riuscire nell’impresa senza incontrare giganteschi ostacoli sarebbe sciagurato ed avventurista. Non vedere o, peggio, fingere di non vedere queste potenzialità sarebbe però addirittura criminale.
Naturalmente una formazione politica ha bisogno di articolare un programma su un insieme più vasto di tematiche, come ad esempio la giustizia, la scuola, l’ambiente (e si noterà come anche ragionando di questi temi si rintracci facilmente il filo conduttore antiamericanista se vogliamo dire no all’autoritarismo repressivo nel campo della giustizia, no alla politica che da Berlinguer alla Moratti ha colpito - ed americanizzato - la scuola italiana, no alle politiche di distruzione ambientale che trovano nell’establishment USA la copertura più totale).
Ma qui è bene limitarsi ai tre punti centrali che corrispondono ai tre rifiuti di cui abbiamo parlato. Punti comunque sufficienti ad avviare la costruzione di un nuovo soggetto politico antiamericanista.
In breve essi dovrebbero essere:

1. Lotta contro gli USA e la loro ideologia imperiale. Lotta contro la politica della guerra infinita e contro la pretesa di dominio planetario. Lotta contro gli elementi culturali che fanno di questo dominio un sistema in tutti i sensi totalitario.
In Italia questo significa porre con forza l’obiettivo della cacciata di tutte le basi militari USA e NATO, la rottura dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti fintanto che essi continueranno la loro politica aggressiva ed imperialista, la lotta a tutte le formazioni politiche filoamericane, la denuncia del ruolo servile del grosso dei mezzi di informazione.
E’ partendo da queste basi che si può lavorare alla costruzione di un fronte internazionale di tutti quanti combattono gli USA, puntando a rovesciare l’attuale “guerra di civiltà” ammantata di motivi religiosi, in una vera guerra di civiltà di liberazione dagli Stati Uniti, premessa indispensabile per poter ricominciare a parlare di una società futura basata sui valori di Uguaglianza, Fratellanza e Libertà.

2. Un programma sociale ed economico che rovesci il dominio dell’economia e stabilisca il primato di una politica che sappia ripartire dai bisogni umani fondamentali. Ed è questa, fra l’altro, l’unica via per ridare senso alla parola democrazia.
Il dominio dell’economia non è una novità dei nostri giorni essendo connaturato con il capitalismo fin dalle sue origini. Tuttavia, mai come oggi assistiamo alla “economicizzazione” di ogni ambito della vita, e siamo forse arrivati ad una soglia che collide con le stesse esigenze della natura umana.
Ci siamo però arrivati, non casualmente, nell’epoca del dominio del “pensiero unico”, un pensiero che è sorto dalla sconfitta dei tentativi di trasformazione rivoluzionaria del novecento. Oggi il “pensiero unico” è finalmente in crisi, ma - questo è il punto - continua a non avere rivali in grado di competere.
Siamo dunque costretti ad agire in un contesto da “nuovo inizio”. Non nel senso - che sarebbe solo scioccamente presuntuoso - di aver trovato le soluzioni, bensì in quello opposto di essere consapevoli di non averle ancora trovate dovendo comunque operare qui ed ora.
Un inizio, però, che non solo non rinnega le radici e le tradizioni di un plurisecolare movimento contro l’ingiustizia, l’oppressione, lo sfruttamento, ma che partendo da queste radici e tradizioni cerca di trovare le vie per ridare a queste istanze attualità e concretezza, fuoriuscendo dal vicolo cieco in cui il totalitarismo sistemico tipico del capitalismo avanzato ha saputo da tempo confinarle.
Solo in questo senso è giusto parlare di un “nuovo inizio” che si ponga intanto lo scopo di organizzare il rifiuto del dominio totalitario del mercato e dell’economia.
Gli obiettivi immediati dovranno essere quelli dell’abolizione di tutte le forme di lavoro precario, di aumenti dei salari e delle pensioni che consentano almeno il recupero di quanto perduto nell’ultimo decennio, di una rinazionalizzazione dei gruppi operanti nell’ambito dei cosiddetti “monopoli naturali” (telecomunicazioni, energia, trasporti), della difesa di quel che resta di quello che fu definito “stato sociale”.
Si tratta di obiettivi che possono essere condivisi da un vasto schieramento di forze. Sarebbe infatti assolutamente sbagliata la politica del più uno. Su questo terreno è necessaria la massima aderenza ai rapporti di forza concreti ai quali vanno sempre commisurati gli obiettivi programmatici.
Quel che conterà, in definitiva, sarà da un lato la capacità di collegare le lotte economiche alla resistenza all’impero americano ed all’opposizione al bipolarismo ed al ceto politico che lo rappresenta, e dall’altro quella di inserirle in un progetto antisistemico (e dunque anticapitalistico) al quale possiamo lavorare solo liberandoci definitivamente della zavorra economicista e determinista.

3. La lotta, senza compromessi, al bipolarismo.
Il movimento antiamericanista nasce fuori e contro il bipolarismo, come ha ben capito chi ha scatenato gli incredibili attacchi di cui siamo oggetto da quando abbiamo iniziato a discutere di questo progetto.
Anzi, il movimento antiamericanista punta ad affermarsi - nel tempo che sarà necessario - come autentica alternativa al regime bipolare.
Si tratta di una lotta senza quartiere, da condurre sul piano politico e culturale.
Questo punto programmatico potrà sembrare a qualcuno banale e scontato. Non è così. Un decennio di bipolarismo ha dimostrato la forza di questo sistema e del suo partner fedele, quel “politicamente corretto” che detta le norme dei meccanismi di inclusione/esclusione nella politica, nella cultura, nell’informazione.
Anche il bipolarismo è fortunatamente in crisi. Più esattamente sono in crisi alcune modalità di funzionamento adottate in Italia (ad esempio il sistema elettorale introdotto nel 1994). Ma i centri di potere dominanti sono già al lavoro per effettuare le necessarie operazioni chirurgiche per salvare e ridare vigore alla loro creatura.
La collocazione, fuori e contro il bipolarismo, non è affatto banale se si pensa a come anche settori “alternativi”, “antagonisti”, “radicali” hanno finito per esservi risucchiati negli anni.
La lotta contro il bipolarismo, che significa lotta al sistema elettorale maggioritario (in ogni sua forma), lotta ai vari presidenzialismi in circolazione, rifiuto dell’omologazione della politica dentro il recinto sistemico, significa anche lotta ad un ceto politico marcio e corrotto ed ai crescenti privilegi castali sempre condivisi con metodo bipartisan.
E’ questa la via maestra per denunciare l’attuale degrado della politica, il suo distacco dal resto della società per divenire mero strumento delle oligarchie economiche dominanti.

Su questi tre punti, che certo non ne escludono altri, ma che restano quelli centrali e decisivi è possibile registrare un significativo bacino di interesse. Ma, come evidenziato da Costanzo Preve in un suo recente intervento telematico, esiste il problema dello scarto tra questo bacino (decisamente ampio) ed il bacino di militanza (decisamente basso).
E siccome non siamo certo qui a raccontarci delle storie, è chiaro che questo è il problema numero uno, la ragione che ha di fatto fermato nei mesi scorsi lo svilupparsi della fase costituente.
Questo scarto esiste, ma non esiste solo in negativo, nel senso che le forze militanti sono scarse; esiste anche in positivo, nel senso che le potenzialità sono effettivamente grandi.
E’ noto che vi sono momenti storici in cui occorre il coraggio delle scelte, anche le più difficili. Anzi, coraggio e determinazione possono essere l’elemento che fa la differenza.
Lanciare un movimento antiamericanista oggi, costituirlo formalmente affinché cominci a muovere i primi passi, non è uno scherzo. Possiamo immaginarci gli attacchi del sistema, del regime bipolare, della grande stampa, fino a chi ci teme per ragioni di concorrenza. Ma non è neppure avventurismo. E’ solo la razionale conseguenza delle analisi fatte in questi ultimi anni, analisi clamorosamente confermate dai fatti. Analisi che non devono restare fini a se stesse.
In ogni progetto c’è una scommessa. Bene, ritengo che sia arrivato il momento di scommettere razionalmente e senza paura. Del resto, se non ora quando?

Leonardo Mazzei


versione stampabile | invia ad un amico | aggiungi un commento | apri un dibattito sul forum

©opyright :: Independent Media Center .
Tutti i materiali presenti sul sito sono distribuiti sotto Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0.
All content is under Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 .
.: Disclaimer :.