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Da Dehisheh
by Marco Monday, Aug. 12, 2002 at 11:27 AM mail: liuzzas@tin.it

Testimonianza e riflessioni di una volontaria del Servizio Civile Internazionale dal campo profughi di Dehisheh (Betlemme)

Campo profughi di Dehisheh.
Perche' essere presenti qui e in qualsiasi altro luogo della Palestina.

Dalla finestra di una delle camere dell'ostello del centro IBDAA vedo
un bambino che si nasconde, tremante, dietro un muro. Dalla strada
arrivano i rumori dei cingolati, che senza tregua, dilaniano i timpani.
Un uomo, correndo, stizzito e nervoso lo strattona e gli ordina di
tornare dentro. Uno stress continuo. La tensione accumulata giorno dopo
giorno impedisce di vivere normalmente. La paura fa perdere gioia,
ottimismo, pazienza e affabilita'.
Le depressioni, le nevrosi collettive, sindromi da stress sono
all'ordine del giorno.
E' importante registrare queste immagini nella mente, per non
dimenticare che qui non esistono solo persone colpite e uccise
fisicamente. Ci sono uomini, donne e bambini sottoposti quotidianamente
a torure mentali che provocano un gran numero di disturbi psicologici.
Qui la vita quotidiana non e' solo mancanza di cibo e acqua,
impossibilita' di muoversi, di studiare e di lavorare ma e' anche
impossibilita' di costruire e coltivare relazioni sociali, di
divertirsi , di distrarsi. Si subiscono i rumori di spari, bombe, urla.
Si subiscono continui lutti, perdite materiali, di amicizie e affetti.
La mente non e' preparata ad elaborare continuamente la morte. Qui non
esiste convalescenza.

Tra le politiche genocide del governo israeliano, c'e' quella di
tagliare fuori dal mondo il popolo palestinese. Costruendo muri e
tirando su check point, tagliando linee telefoniche ed elettricita',
impedendogli di studiare e di partire, cercando di provocare astio tra
comunita' locali, come quella tra Cristiani e Musulmani a Betlemme
(vedi l'assedio alla Chiesa della Nativita'), cacciando gli
internazionali che provano a stabilire contatti con i palestinesi e
tentando di osservare ed interporsi, revocando la cittadinanza agli
israeliani che collaborano con i palestinesi.

Essere presenti e' essenziale, anche se a volte si ha la sensazione di
non poter fare niente.
Essere presenti vuol dire:
- Capire alcuni meccanismi, mettere in relazione, contestualizzare. E'
approfondire diversi aspetti di una stessa situazione;
- Essere testimoni non solo di eventi eclatanti, sparatorie, arresti,
demolizioni e occupazioni di case. E' anche rendersi conto
dell'esistenza che portano avanti i palestinesi giorno dopo giorno,
invasi dalla paura, dalla soggezione, dal dolore;
- Sostegno e vicinanza ad un popolo che si tenta di isolare in tutti i
modi.
Sostegno morale.
Sostegno attraverso le azioni di interposizione che possono alleviare
le difficolta' quotidiane, come appoggiare una donna nel paesaggio ad
un check point, portare medicinali e cibo a famiglie sotto coprifuoco o
passare la notte in una casa che rischia di essere demolita.
Sostegno anche ai civili israeliani che hanno il coraggio e la
lucidita' di opporsi ad un governo oppressore che, causando sofferenza
al popolo palestinese, ne causa altrettanta al proprio.
- Tutto questo per testimoniare e riportare nei propri paesi,
attraverso i media e la rete relazionale, le immagini raccolte in
questa terra.
Per fare in modo che questa moltitudine cresca, perche' si dia piu'
continuita' alla presenza internazionale in Palestina, per far
conoscere.

L'esercito israeliano ha paura degli internazionali. L'IDF aumenta
sempre di piu' le misure difensive e di attacco alla loro presenza.
Nell'ultima manifestazione ad Howwara, Nablus, hanno deliberatamente
deciso di arrestare, puntando il dito a caso. Il rifiuto del visto
d'ingresso in Israele e' diventata quasi prassi ordinaria, mentre
negoziare ai check point diventa sempre piu' arduo.
Tutto cio' non deve scoraggiare ma deve dare maggiori conferme
sull'utilita' e l'importanza della presenza internazionale in Palestina.

Mi vengono in mente le parole di Hunut, una ragazza, molto giovane,
gia' madre di tre bambine, che ci ha invitato a casa sua, un
appartamento posto sopra un altro appena demolito. "Sapevo che i
soldati sarebbero arrivati prima o poi. Avevo paura. Ma quando sono
entrati e mi hanno puntato il mitra contro, a me che sono una donna e
non avrei potuto fargli niente, mi sono tranquillizzata. Sono loro ad
aver paura. Hanno paura perche' sanno chi ha ragione".

Raffaella,
11 agosto 2002

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