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Incostituzionali gli addebiti contro l'esponente islamico Adel Smith
by repubblika Saturday, Apr. 30, 2005 at 11:23 AM mail:

Incostituzionali gli addebiti contro l'esponente islamico Adel Smith Era accusato di offese contro la Chiesa, il cardinal Biffi e il Papa Consulta, parità tra le religioni Pene uguali per chi offende La legge dovrà essere equiparata a quanto stabilito per altre confessioni



Il presidente dell'Unione musulmani d'Italia Adel Smith
ROMA - Chi offende il cattolicesimo va punito con una pena non superiore a quella prevista per le altre religioni. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo l'articolo 403 del codice penale nella parte in cui stabilisce un trattamento sanzionatorio più severo per le offese alla religione cattolica rispetto alla diminuzione della pena disposta dall'articolo 406 per le offese contro altri culti "ammessi" nello Stato italiano.

I giudici costituzionali erano stati chiamati in causa dal tribunale di Verona che avevano sospeso, in attesa del pronunciamento della Corte, un procedimento a carico di Adel Smith. Il presidente dell'Unione musulmani d'Italia era accusato di aver gravemente offeso, nel corso di una trasmissione televisiva, la Chiesa, il cardinale Giacomo Biffi e Papa Giovanni Paolo II.

Con la sentenza di illegittimità depositata oggi in cancelleria (n.168, scritta dal vicepresidente Guido Neppi Modona), la Corte ha così cancellato una "inammissibile discriminazione" sanzionatoria tra
religione cattolica e le altre confessioni religiose. L'incostituzionalità è limitata alla norma del codice penale (art.403, primo e secondo comma) che per le offese al cattolicesimo prevede la pena della reclusione fino a due anni se avviene mediante vilipendio di chi la professa, e da un anno a tre anni se la vittima è un ministro del culto. D'ora innanzi la pena dovrà essere diminuita, così come stabilito dal codice per le altre religioni.

Secondo la Corte "le esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che stanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose", sono "riconducibili, da un lato, al principio di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di religione sancito dall'art.3 della Costituzione, dall'altro dal principio di laicità o non-confessionalità dello Stato che implica, tra l'altro, equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni, secondo quanto disposto dall'art. 8 della Costituzione. Ove è appunto sancita l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge".

(29 aprile 2005)

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sì ok però...
by Rasta Alby Saturday, Apr. 30, 2005 at 5:18 PM mail:

Sì vabbè la Chiesa è la Chiesa e si sa, ma resta il fatto che Adel Smith è un coglione di fama mondiale. E' lo stesso patetico stronzo che diceva che il crocifisso traumatizza i bambini, e che ha spesso esposto idee aberranti in fatto di sessualità, famiglia, costumi ecc... Anzi averlo come rappresentante dei Musulmani d'Italia è un'autentica offesa all'Islam

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Corte Costituzionale, Sentenza 1 - 9 luglio 2002, n. 327
by saigon Wednesday, May. 04, 2005 at 9:23 PM mail:

N. 327

SENTENZA 1 - 9 luglio 2002.

Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 28 del 17 luglio 2002




LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 405 del codice penale (Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico), promosso con ordinanza emessa il 18 dicembre 2000 dalla Corte di cassazione, iscritta al n. 263 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, 1ª serie speciale, n. 16 dell'anno 2001.

Udito nella camera di consiglio del 5 dicembre 2001 il giudice relatore Carlo Mezzanotte.



Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza in data 5 dicembre 2000, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 405 del codice penale (Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico), in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.

2. - Premesse le vicende del giudizio di merito, quanto al fatto storico e quanto alle omologhe conclusioni dei giudici di primo grado e di appello, la Corte remittente sottolinea in primo luogo la rilevanza della questione: si tratta, infatti, di verificare la legittimità costituzionale della norma incriminatrice oggetto della contestazione all'imputato, "la cui riforma, espulsione o conservazione nell'ordinamento penale influisce evidentemente sul giudizio finale di condanna o proscioglimento, ovvero sulla entità della pena comminata".

3. - Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ricorda che l'articolo 405 del codice penale punisce con la reclusione fino a due anni "chiunque impedisce o turba l'esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto cattolico, le quali si compiano con l'assistenza di un ministro del culto medesimo o in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico", mentre ai sensi dell'articolo 406 dello stesso codice (Delitti contro i culti ammessi nello Stato) "la pena è diminuita" se il fatto è commesso contro un culto ammesso dallo Stato.

Ad avviso della Corte remittente, questa diversità di trattamento sanzionatorio, stabilita in ragione del fatto che il turbamento della funzione religiosa riguardi il culto cattolico ovvero altri culti ammessi, sarebbe in contrasto con l'articolo 3, primo comma, della Costituzione, che consacra la pari dignità ed eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di religione, nonché con l'articolo 8, primo comma, della Costituzione, in base al quale tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

La Corte di cassazione ricorda che la giurisprudenza costituzionale in materia ha subito una evoluzione storica, in quanto in un primo tempo la diversità di trattamento giuridico tra religione cattolica e altre religioni era giustificata dalla considerazione che il cattolicesimo era riconosciuto come fattore di unità morale della Nazione, e come tale formava oggetto di particolare protezione anche nell'interesse dello Stato, mentre, nell'attuale mutato contesto sociale e culturale, l'atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di tutte le religioni, "senza che possano assumere rilievo il dato quantitativo dell'adesione confessionale a questa o a quella chiesa, e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali cagionate dall'offesa a questa o quella religione" (sentenza n. 508 del 2000).

Ad avviso del giudice remittente, l'equidistanza e l'imparzialità nei confronti di tutte le religioni rappresenterebbero il riflesso del principio di laicità dello Stato, che sarebbe assurto al rango di "principio supremo" del vigente ordinamento pluralistico, pur non implicando indifferenza o astensione da parte dello Stato stesso davanti al fenomeno religioso.

In definitiva - conclude la Corte di cassazione - gli argomenti tradizionalmente addotti per giustificare il diverso trattamento sanzionatorio previsto dagli articoli 405 e 406 del codice penale sarebbero divenuti privi di forza persuasiva, sicché tale diversità di trattamento darebbe ormai corpo ad una discriminazione costituzionalmente inammissibile (sentenza n. 329 del 1997).



Considerato in diritto

1. - La Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell'articolo 405 del codice penale (Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico), che punisce con la reclusione fino a due anni "chiunque impedisce o turba l'esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto cattolico, le quali si compiano con l'assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico".

Il giudice remittente dubita che la disposizione in esame, prevedendo per i fatti di turbamento di funzioni religiose del culto cattolico ivi considerati un trattamento sanzionatorio più severo rispetto a quello stabilito dall'articolo 406 dello stesso codice (Delitti contro i culti ammessi nello Stato) per i medesimi fatti commessi contro un culto "ammesso" dallo Stato, violi gli articoli 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione, cioè l'eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione e l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge.

Ad avviso della Corte di cassazione, la diversità di pena nella quale si incorre a seconda che il turbamento della funzione religiosa riguardi il culto cattolico ovvero altri culti ammessi dallo Stato si configurerebbe come una discriminazione costituzionalmente inammissibile, in quanto contrasterebbe con il "principio supremo" di laicità dello Stato, che richiede l'equidistanza e l'imparzialità dello Stato nei confronti di tutte le religioni.

2. - La questione è fondata.

Nel sistema del codice penale sono oggetto della tutela del sentimento religioso sia la religione cattolica, sia i culti "ammessi" nello Stato, da intendersi, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, con la piena affermazione della libertà religiosa, come culti diversi da quello cattolico. Identiche sono le condotte sanzionate penalmente, descritte negli artt. 403, 404 e 405 cod. pen., ma differente è il trattamento sanzionatorio: l'art. 406, infatti, stabilisce che la pena prevista per tali reati è diminuita se le medesime condotte vengono poste in essere contro i culti "ammessi".

L'esigenza di una unificazione del trattamento sanzionatorio ai fini di una eguale protezione del sentimento religioso, che è imposta dai principi costituzionali evocati dal giudice remittente, è stata già affermata da questa Corte nella sentenza n. 329 del 1997. Con essa è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale, per violazione degli articoli 3 e 8 della Costituzione, dell'articolo 404, primo comma, del codice penale (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose), nella parte in cui prevede una pena maggiore di quella stabilita per le medesime condotte riferite a confessioni diverse dalla cattolica dall'articolo 406 dello stesso codice.

Si tratta ora di applicare i medesimi principi, già enucleati in quella sentenza, al caso sottoposto all'esame di questa Corte, giacché anche le diverse previsioni concernenti il turbamento di funzioni religiose, se riferite al culto cattolico, devono essere assoggettate al più lieve trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 406 cod. pen. per i culti "ammessi".

Il principio fondamentale di laicità dello Stato, che implica equidistanza e imparzialità verso tutte le confessioni, non potrebbe tollerare che il comportamento di chi impedisca o turbi l'esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose di culti diversi da quello cattolico, sia ritenuto meno grave di quello di chi compia i medesimi fatti ai danni del culto cattolico.

3. - Esula dai compiti di questa Corte indagare se l'art. 406 cod. pen. costituisca un'attenuante di un reato base ovvero debba essere considerato autonoma figura di reato, come pure pronunciarsi sulla qualificazione da riservare alla previsione di cui al secondo comma dell'art. 405 cod. pen. ("se concorrono fatti di violenza o di minaccia, si applica la reclusione da uno a tre anni"). E tuttavia, quale che sia l'interpretazione che la giurisprudenza vorrà accreditare, l'istanza costituzionale di equiparazione della tutela penale dei culti va soddisfatta in relazione a tutte le previsioni dell'art. 405 cod. pen.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 405 del codice penale, nella parte in cui, per i fatti di turbamento di funzioni religiose del culto cattolico, prevede pene più gravi, anziché le pene diminuite stabilite dall'articolo 406 del codice penale per gli stessi fatti commessi contro gli altri culti.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1 luglio 2002.

Il Presidente: Ruperto

Il redattore: Mezzanotte

Il cancelliere:Di Paola

Depositata in cancelleria il 9 luglio 2002.

Il direttore della cancelleria:Di Paola

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Sentenza Corte Costituzionale N.168/2005
by saigon Wednesday, May. 04, 2005 at 9:27 PM mail:



SENTENZA N.168

ANNO 2005

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente

- Fernanda CONTRI Giudice

- Guido NEPPI MODONA "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

- Alfonso QUARANTA "

- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dal Tribunale di Verona con ordinanza del 16 marzo 2004, iscritta al n. 628 del registro ordinanze del 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2004.

Visto l'atto di costituzione dell'imputato nel processo a quo;

udito nell'udienza pubblica del 22 marzo 2005 il Giudice relatore Guido Neppi Modona;

udito l'avvocato Ugo Fanuzzi per l'imputato.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale di Verona ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 403, commi primo e secondo, del codice penale (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone), in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.

Il giudice rimettente premette di procedere nei confronti di persona imputata del reato in esame per avere offeso durante un dibattito televisivo la religione dello Stato mediante vilipendio di chi la professa e di ministri del culto cattolico.

Ai fini della rilevanza della questione il giudice a quo sottolinea che, ove l'imputato «fosse ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 403 cod. pen., non potrebbe beneficiare della diminuzione di pena di cui all'art. 406 cod. pen. prevista per i culti ammessi e quindi applicabile, dopo l'entrata in vigore della legge 25 marzo 1985, n. 121, che ha dato esecuzione all'accordo 18 febbraio 1984 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, solo alle confessioni religiose diverse da quella cattolica, non esistendo più una religione di Stato».

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente rileva che la disciplina censurata prevede un trattamento sanzionatorio più grave per le offese alla religione cattolica, non trovando applicazione, in tale ipotesi, la diminuente che l'art. 406 cod. pen. riserva ai soli delitti commessi contro i culti ammessi nello Stato.

Il giudice a quo rileva inoltre che la Corte costituzionale ha già dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 404 e 405 cod. pen. nella parte in cui non prevedono l'applicabilità della disposizione di cui all'art. 406 cod. pen. anche ai casi in cui l'offesa viene portata alla religione cattolica e sia realizzata, rispettivamente, mediante vilipendio di cose o turbamento di funzioni religiose.

Ad avviso del rimettente, poiché tali decisioni hanno radicalmente modificato la precedente giurisprudenza della Corte e definitivamente affermato il principio della pari libertà delle varie confessioni religiose, ogni differenza di disciplina prevista da altre fattispecie incriminatrici «si rivela essere una inammissibile discriminazione».

Il Tribunale rimettente solleva quindi questione di legittimità costituzionale dell'art. 403 cod. pen. perché prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di persone, un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello stabilito per le offese agli altri culti ammessi nello Stato. In particolare, la disciplina censurata sarebbe in contrasto con l'art. 3, primo comma, Cost., che consacra la pari dignità ed eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza alcuna distinzione di religione, nonché con l'art. 8, primo comma, Cost., secondo cui tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

2. - In data 12 giugno 2004 è pervenuta alla Corte la nomina del difensore di fiducia dell'imputato, la procura speciale e la elezione di domicilio in Roma, atti trasmessi dallo stesso difensore «per la trattazione della relativa questione» davanti alla Corte costituzionale.

Il 26 febbraio 2005 il difensore dell'imputato ha quindi presentato memoria con la quale, da un lato, aderisce alle argomentazioni del Tribunale di Verona a sostegno della fondatezza della questione alla luce delle precedenti sentenze della Corte in materia e, dall'altro, chiede di «allargare il tema di indagine sulla portata della prospettata lesione dell'art. 3 della Costituzione, al fine di pervenire a una pronuncia ben più radicale di quella avanzata dal giudice rimettente».

In particolare, sul presupposto che la disposizione censurata determina una disparità di trattamento perché punisce solo le offese alla religione cattolica e ai culti ammessi nello Stato e non anche le offese recate all'ateismo, all'agnosticismo e «a qualsiasi religione di cui si abbia umana memoria», il difensore dell'imputato chiede alla Corte una declaratoria di illegittimità costituzionale da cui consegua la caducazione totale della norma censurata, non essendovi spazio in materia penale per alcuna pronuncia di tipo additivo. Ad avviso della difesa, la pronuncia richiesta sarebbe infatti l'unico modo per ripristinare «la parità di trattamento tra ideologie religiose positive e negative, dal momento che le offese all'onore o al decoro di chi crede e di chi non crede» trovano già tutela nelle disposizioni contenute nel capo del codice penale concernente i delitti contro l'onore.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Verona solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 403, comma primo e secondo, del codice penale (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone), in quanto punisce con la reclusione fino a due anni chi offende la religione «mediante vilipendio di chi la professa» (primo comma) e con la reclusione da uno a tre anni chi commette il fatto «mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico» (secondo comma), mentre l'art. 406 cod. pen. prevede che «la pena è diminuita» qualora i medesimi fatti sono commessi «contro un culto ammesso nello Stato».

Premesso che a seguito delle modifiche al Concordato lateranense, recepite con legge 25 marzo 1985, n. 121, è venuto meno il principio secondo cui la religione cattolica è la sola religione dello Stato, e che pertanto in luogo di religione dello Stato deve leggersi religione cattolica e in luogo di culti ammessi religioni diverse da quella cattolica, il Tribunale rimettente rileva che il più grave trattamento sanzionatorio riservato alle offese alla religione cattolica determina una «inammissibile discriminazione» nei confronti delle altre confessioni religiose, in violazione degli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione, che sanciscono, rispettivamente, i principî dell'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di religione e dell'eguale libertà di tutte le religioni davanti alla legge.

2. - Preliminarmente, si deve precisare che la questione va esaminata entro i limiti del thema decidendum individuati dall'ordinanza di rimessione (v. sentenze numeri 405 e 49 del 1999, n. 63 del 1998 e n. 79 del 1996). Rimane perciò estranea al presente giudizio la richiesta, prospettata dalla parte privata, di dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'intera norma incriminatrice, in quanto volta ad introdurre un tema del tutto nuovo rispetto a quello devoluto dal giudice a quo.

3. - La questione è fondata.

4. - Nell'ultimo decennio questa Corte, ripetutamente chiamata a pronunciarsi sulla tutela penale del sentimento religioso, ha preso in esame, per quanto qui specificamente interessa, le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 402, 404 e 405 cod. pen., accogliendo, in riferimento agli artt. 3 e 8 Cost., le questioni di legittimità costituzionale sollevate per disparità di trattamento tra la religione cattolica e le altre religioni.

In ordine di tempo, con la sentenza n. 329 del 1997 la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 404, primo comma, cod. pen. (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose), nella parte in cui prevede «la pena della reclusione da uno a tre anni, anziché la pena diminuita prevista dall'art. 406 del codice penale» per i medesimi fatti commessi nei confronti di un culto ammesso nello Stato; con la sentenza n. 508 del 2000 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 402 cod. pen. (Vilipendio della religione dello Stato), eliminando dall'ordinamento la fattispecie incriminatrice, in quanto il rispetto della riserva assoluta di legge in materia penale non avrebbe consentito di estendere ai «culti ammessi» la tutela predisposta dalla norma censurata solo nei confronti della religione cattolica; infine, con la sentenza n. 327 del 2002 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 405 cod. pen. (Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico), nella parte in cui per tali fatti «prevede pene più gravi, anziché le pene diminuite stabilite dall'articolo 406 del codice penale per gli stessi fatti commessi contro gli altri culti».

Le esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose, già affermate da questa Corte nelle sentenze n. 329 del 1997 e n. 327 del 2002, sono riconducibili, da un lato, al principio di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di religione sancito dall'art. 3 Cost., dall'altro al principio di laicità o non-confessionalità dello Stato (per cui vedi sentenze n. 203 del 1989, n. 259 del 1990, n. 195 del 1993, n. 329 del 1997, n. 508 del 2000, n. 327 del 2002), che implica, tra l'altro, equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni, secondo quanto disposto dall'art. 8 Cost., ove è appunto sancita l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge.

Tali esigenze sono evidentemente presenti anche in relazione alla attuale questione di legittimità costituzionale, che riguarda l'unica fattispecie incriminatrice tra quelle contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso che ancora prevede un trattamento sanzionatorio più severo ove le offese siano recate alla religione cattolica.

Poiché tutte le norme del capo in esame si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l'art. 403 cod. pen. tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, anche tale norma appare connotata dalla «inammissibile discriminazione» sanzionatoria tra la religione cattolica e le altre confessioni religiose ripetutamente dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte.

Si impone pertanto, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, Cost., la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 403, primo e secondo comma, cod. pen., nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall'art. 406 dello stesso codice.
per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall'art. 406 dello stesso codice.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2005.

F.to:

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 29 aprile 2005.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

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SOLO IN PRESENZA DI UNA SENTENZA DI CONDANNA SI PUO' PROCEDERE AL BLOCCO DELLA PUBBLICAZIO
by saigon Thursday, May. 05, 2005 at 4:31 PM mail:

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SOLO IN PRESENZA DI UNA SENTENZA DI CONDANNA SI PUO' PROCEDERE AL BLOCCO DELLA PUBBLICAZIONE

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La pagina web di un sito di informazione giornalistica non può formare oggetto di sequestro preventivo da parte dell'autorità giudiziaria.
Questa la conclusione cui è giunto il tribunale di Milano, sul presupposto dell'equiparazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica, e della conseguente applicabilità a quest'ultima della normativa sulla stampa e sul sequestro degli stampati. La decisione costituisce, oggi, la logica conseguenza dell'entrata in vigore della legge 7 marzo 2001 n. 62, che ha assimilato il prodotto editoriale informatico a quello tradizionale cartaceo.
Già da tempo, nel periodo antecedente all'emanazione della nuova legge sull'editoria, il problema del trattamento giuridico delle pubblicazioni on line si era posto all'attenzione dell'interprete e degli operatori della rete e, in mancanza di espliciti riferimenti di legge, aveva formato oggetto di un vivace dibattito dottrinario e di notevoli incertezze nella pratica giurisprudenziale.
Per comprenderne le motivazioni, chiarendo anche i vari profili della tematica affrontata in sentenza, occorre procedere per gradi, partendo dall'esame della legge n. 47 del 1948.
La legge sulla stampa - L'articolo 1 della legge 47/1948, definendo il proprio ambito d'applicazione, afferma che per «stampa» o «stampato» si intende ogni riproduzione tipografica o comunque ottenuta con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinata alla pubblicazione. La stessa legge dispone poi che gli stampati devono obbligatoriamente indicare il luogo e l'anno di pubblicazione, il nome e domicilio dello stampatore e, se esiste, dell'editore.
Per quanto concerne i giornali e i periodici (che costituiscono una speciem, rispetto al genus degli stampati), in considerazione della loro natura e delle particolari finalità cui sono destinati, la legge 47/1948 prevede degli obblighi aggiuntivi, quali:
la presenza di un direttore responsabile, iscritto all'albo dei giornalisti professionisti o pubblicisti;
la registrazione del giornale o periodico presso la cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi;
l'indicazione sul giornale o periodico del nome del proprietario e del direttore (o vicedirettore) responsabile.
Al momento della richiesta di registrazione, il presidente del tribunale o un giudice da lui delegato, verificata la regolarità dei documenti presentati, ordina entro 15 giorni l'iscrizione del giornale o del periodico nell'apposito registro pubblico tenuto dalla cancelleria. Si tratta di un'attività di mero filtro, atteso che nessuna discrezionalità è attribuita all'autorità giudiziaria, chiamata esclusivamente a verificare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge ai fini della registrazione.
La pubblicazione effettuata in violazione dei descritti obblighi, integra il reato di «stampa clandestina», previsto e punito dall'articolo 16 della stessa legge, e costituisce altresì contravvenzione ai sensi dell'articolo 663-bis del codice penale.
Il sequestro dello stampato - Le disposizioni esaminate, dal tenore vincolistico, vanno poi coordinate con il precetto costituzionale che ha considerato la libertà di stampa quale espressione privilegiata della più ampia categoria della libertà di manifestazione del pensiero: la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure e, ciò che rileva ai fini del presente commento, può formare oggetto di sequestro solo per atto motivato dell'autorità giudiziaria, nei casi in cui la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi o in caso di violazione delle norme prescritte per l'indicazione dei responsabili.
Questi principi trovano il proprio compendio normativo nel regio decreto legislativo n. 561 del 1946, che subordina l'esperibilità del sequestro dello stampato (qualunque sia la natura del medesimo) al passaggio in giudicato della sentenza penale, ovvero ne autorizza l'effettuazione nei casi in cui la pubblicazione abbia contenuti osceni od offensivi della pubblica decenza.
L'evoluzione interpretativa - Come già accennato, all'indomani della rivoluzione digitale si è posto il problema dell'applicabilità della normativa sulla stampa alle pubblicazioni on line.
E così, mentre in dottrina è stato autorevolmente sostenuto che «la telematica non è stampa» (Zeno Zencovich, «La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa», in «Il diritto dell'informazione e dell'informatica», 1998), la giurisprudenza chiamata a pronunciarsi in materia di registrazione del periodico on line ha avuto modo di evidenziare come «un periodico telematico può beneficiare della tutela rappresentata dalla registrazione, in quanto possiede sia il requisito ontologico, sia quello finalistico relativo alla diffusione di notizie, pur con una tecnica diversa dalla stampa» (Tribunale di Roma, sentenza 6 novembre 1997).
L'imbarazzo e l'incertezza, geometricamente rappresentati dalla cennata divaricazione interpretativa, traevano origine dalla difficoltà di riportare la pubblicazione on line nell'alveo della definizione di «stampa» o «stampato» di cui alla legge 47/1948, presupposto logico e giuridico per l'applicazione delle disposizioni dettate dalla legge sulla stampa. Come si intuisce, la questione non era di poco momento: considerare la testata telematica equiparabile alla stampa significava, da un lato, assoggettare la stessa ai vincoli previsti dalla legge 47/1948, dall'altro garantirle il privilegiato regime sulla sequestrabilità, comunque applicabile a tutte le forme di stampa.
Le nuove norme sull'editoria - Con l'entrata in vigore della legge 7 marzo 2001 n. 62, lo scenario che si presenta all'interprete è decisamente mutato. Per prodotto editoriale, secondo quanto stabilito dall'articolo 1, comma 1, si intende il prodotto realizzato su supporto cartaceo o informatico, destinato alla pubblicazione o diffusione con ogni mezzo, anche elettronico. Il primo dato che emerge dalla lettura della norma è dunque l'equiparazione, in termini generali, della pubblicazione cartacea a quella diffusa per via telematica.
Mentre però è ininfluente che il prodotto sia realizzato su supporto cartaceo o informatico ai fini del suo inquadramento nella categoria generale di «prodotto editoriale», decisiva è invece la sua destinazione alla mera pubblicazione, ovvero la sua natura di testata finalizzata alla diffusione di informazioni presso il pubblico con periodicità regolare.
L'articolo 1, comma 3, della legge 62/2001 distingue infatti due tipologie: da un lato, il prodotto editoriale tout court, al quale si applicano unicamente le disposizioni dell'articolo 2 della legge 47/1948; dall'altro, il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, al quale, si applica altresì l'articolo 5 della legge sulla stampa (e quindi, indirettamente, anche l'articolo 3 relativo alla necessaria presenza di un direttore responsabile). Diversa la natura e la destinazione della pubblicazione, diversa la disciplina dettata dalla nuova legge sull'editoria. Se dunque un sito internet non ha natura di testata, né risulta caratterizzato da aggiornamenti periodici, gli unici adempimenti richiesti dalla legge saranno quelli previsti dall'articolo 2, comma 1, della legge sulla stampa; laddove invece il sito abbia le caratteristiche proprie della testata e sia aggiornato periodicamente, saranno necessari adempimenti formali e sostanziali ben più pesanti, quali la presenza di un direttore responsabile e la registrazione presso il registro tenuto dal tribunale competente.
A tale proposito, è indubbia l'anomalia nella formulazione dell'articolo 1, comma 3, della legge 62/2001: dal tenore letterale della norma, infatti, emergerebbe la necessaria applicazione dell'articolo 2 della legge 47/1948 nella sua interezza, a tutti i prodotti editoriali. In realtà, da un'analisi sistemica, è possibile rilevare come il riferimento all'art. 2 della legge sulla stampa, debba intendersi circoscritto esclusivamente al comma 1 per i prodotti editoriali generici, e soltanto per i prodotti editoriali aventi natura di testata e finalizzati all'informazione periodica, debba invece applicarsi il disposto del comma 2.
Diversamente ragionando, si addiverrebbe all'assurda conclusione che ogni prodotto editoriale (e quindi anche qualsiasi sito internet) debba avere un direttore responsabile, figura espressamente richiamata dal citato articolo 2, comma 2, della legge 47/1948.
La sentenza del tribunale di Milano - Emerge chiaro come, alla luce delle nuove norme sull'editoria, non possa esservi più alcun dubbio in ordine al fatto che il sito internet che diffonde informazioni regolarmente, debba essere equiparato a un giornale cartaceo sia nella sostanza che nelle finalità, e vada quindi sottoposto allo stesso regime vincolistico dettato dagli articoli 2, 3 e 5 della legge 47/1948, ma anche al regime privilegiato previsto in materia di sequestro.
Nel caso di specie, pertanto, il tribunale ha correttamente proceduto alla revoca della misura cautelare precedentemente disposta: se il periodico on line soggiace alla stessa disciplina di quello cartaceo, allora anche l'esperibilità di un provvedimento di sequestro non potrà che essere subordinata alla previa emissione di sentenza penale irrevocabile ovvero al carattere osceno o contrario alla pubblica decenza dei contenuti della pubblicazione.
Si tratta del medesimo iter argomentativo che aveva caratterizzato una precedente pronuncia del tribunale di Latina (sentenza 7 giugno 2001): in quel caso il giudice aveva disposto il sequestro preventivo di un sito avente contenuto palesemente osceno e offensivo della pubblica decenza, in applicazione dell'articolo 2 del Rdlgs 561/1946, norma ritenuta applicabile proprio sul presupposto dell'operatività dell'articolo 1 della legge 62/2001, e della conseguente estensione al prodotto editoriale on line della disciplina riservata alla stampa sotto il profilo della sequestrabilità.
Problemi applicativi - Se la legge del 2001 ha consentito di superare le incertezze precedentemente manifestate sia in dottrina che in giurisprudenza sul trattamento normativo dei siti di informazione giornalistica professionale, restano sospese una serie di questioni la cui soluzione è oggi affidata all'interprete, in attesa di un intervento legislativo chiarificatore. Il dubbio più ricorrente fin dalla prima applicazione della nuova legge, ha riguardato la sorte dei numerosissimi siti di informazione non professionale o amatoriale, che, in quanto «destinati alla pubblicazione», rientrerebbero nel campo di applicazione della legge. Infatti, in assenza di criteri certi per l'identificazione della «testata giornalistica telematica» e secondo il tenore letterale della norma, anche i siti di informazione spontanea, aggiornati con periodicità regolare, dovrebbero essere sottoposti agli obblighi previsti dagli articoli 2, commi 2, 3 e 5 della legge sulla stampa. È evidente che, in esito a un'interpretazione di tal fatta, la maggior parte dei siti amatoriali (certamente impossibilitati a sostenere i costi della presenza di un direttore responsabile iscritto all'albo) sarebbero costretti all'auto-oscuramento per non incorrere nell'ipotesi di «stampa clandestina» punita ai sensi dell'articolo 16 della legge 47/1948.
Nel silenzio del legislatore sul punto, il buon senso imporrebbe di escludere l'obbligo di registrazione per i siti in questione, come più o meno tutti i commentatori hanno evidenziato fin da subito: soluzione forse poco aderente alla lettera della legge, ma sicuramente più in linea con la peculiarità dell'universo internet.

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