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Reggae e omofobia
by fight dem back Friday, Jun. 17, 2005 at 12:38 PM mail:

Articolo tratto dalla rivista Infoxoa 17

Reggae is a seroius thing
di Studio Clandestino never stop think & talk

Chi comunica con il reggae, non può lasciarsi travolgere dalla merda che avanza, perchè ha le carte in regola per porre un freno

Questa estate, durante un' intervista fatta in Francia ad Horace Andy, una delle voci più note del reggae made in Jamaica, più di una volta, alle domande dell'intervistatore usava ripetere: "il reggae è nato come musica di liberazione, pur raccontando le condizioni del ghetto, aspira e desidera un mondo migliore, per la pace e la fratellanza. Non capisco proprio cosa vogliono e cosa dicono, pur essendo bravi cantanti, quelli che continuano ad inneggiare all'odio per gli omosessuali, all'esaltazione delle belle macchine e sempre circondati sui video musicali da donne ammiccanti. Cosi si esalta solo l'aspetto più scontanto dell'uomo del ghetto che è quello violento, gangstar, che non lascia alcuna speranza di liberazione. Il reggae è muisica di pace e fratellanza non di violenza".
In sintesi, Horace Andy lanciava dalle frequenze televisive francesi, durante un concerto, il pericolo che il reggae sta correndo.
Quello che anche noi da queste pagine vorremo in fin dei conti lanciare. Il reggae in Italia d’altronde è stato per anni, e lo è ancora oggi, la colonna sonora di cortei, delle street parade e delle manifestazioni politiche e sociali, è seguito e promosso durante tutto l'anno negli spazi occupati, nelle iniziative culturali e politiche. Ad un certo punto si era andato a costituire un movimento culturale, o meglio una scena, quella dei sound system, finito alla fine a non fare i conti con se stesso ma lasciandosi semlicemente trascinare, nella totale frammentazione, rinchiudendosi definitivamente in un angolo stretto e senza uscita che è l'angolo della gestione economica dei propri desideri, della propria esperienza e della propria esistenza.
A quanto pare, sembra non esserci dubbio, come dicono in molti, che uno dei concerti più belli di questo ultimo anno sia stato quello di Capleton in un centro sociale romano. Non c'è dubbio inoltre che l'accoglienza del "pubblico romano" abbia dato enfasi al concerto stesso. Ma bisogna ammettere che non vi è altrettanto dubbio che Capleton iniziando il concerto con un invito esplicito a "sparare ai froci", abbia in qualche modo evidenziato non solo i limiti culturali del reggae contemporaneo (perlomeno dei suoi interpreti), ma i limiti complessivi di tutti quelli che seguono il reggae, lo diffondono, lo comprano e lo vendono, lo ascoltano, lo riproducono, lo mandano per radio. Ora, al di là del fatto che sono pochissimi, in particolare negli spazi occupati, coloro che si pongono un interesse nel tentare di capire chi e cosa sta passando in quello spazio, ma è molto inquietante, almeno per noi, che chi produce o, peggio, il “pubblico” che ascolta e quindi partecipa, assuma qualsiasi “show” senza avere la benchè minima possibilitàcapacità di critica. O meglio, è come se non la esercitasse. Questo non riguarda uno spazio piuttosto che un altro, ma tutti gli spazi sociali che "ospitano" (ormai possiamo definire cosi) iniziative culturali. A partire proprio dal reggae non solo pare che si sia abbandonata una capacità che osiamo definire di “intervento politico, quindi culturale”, ma si avalla, si accetta, ci si lascia avvolgere, da un intervento politico e culturale di tutt’altra natura, come se fosse un tacito accordo con la miseria e con la fine di un pensiero critico che lascia spazio a qualsiasi invasione che ha caratteristiche non solo omologanti, ma deleterie proprio per immaginare, costruire e sperimentare, non solo autogestione, ma proprio pensiero critico, autonomo, capacità e desiderio di scelta. Come dire: questo passa il convento, questo ci pigliamo. Sperimentare, trasformare, modificare, desiderare è solo roba per sognatori illusi. Come se ciò fosse del tutto normale a fronte del "nome da richiamo" e dell'"entrata economica" che tale nome comporta. Ora non vogliamo entrare nel merito della discussione di che fine fanno tutti questi soldi (spesso queste iniziative non chiariscono che tipo di progetti sostengano). Non vogliamo neanche entrare nel discorso interessante e sempre attuale del concetto di "artista". Ma quello che vorremmo focalizzare sono proprio le parole di Horace Andy che, dall'alto della sua esperienza, del suo vissuto, ci pone una domanda fondamentale. Perché dovremmo continuare a mandare in onda dalle radio (a partire da quelle di movimento) pezzi musicali che continuano ad inneggiare contro gli omosessuali, oppure che ripropongono quella sottocultura omologante che assomiglia molto al tardo-machismo, al maschilismo esasperato (oltretutto molto evidenziato e quindi tutto chiacchere e distintivo) che conosciamo, e non amiamo affato, in Italia. Questa continua esaltazione del "coatto con le treccine o senza treccine", questa continua riproposizione dell'aspetto femminile tutto sesso, corpo, poco cervello e sempre in posa accanto al dj di turno. Questa continua esaltazione e proponimento degli artisti del ghetto che hanno sulle loro spalle processi per stupro, rapina, violenze varie, che senso hanno per noi? Com'è possibile che il reggae, arrivato in Europa da Bob Marley e non solo, tramite pezzi come Get Up Stand up (lotta per i tuoi diritti), I shot the sheriff (ho sparato allo sceriffo), One Love (un amore) con la filosofia di fondo che il "reggae è il battito del cuore di chi non ha niente da mangiare" e che proprio il reggae è strumento di comunicazione deitra i poveri del mondo in cerca di riscatto, stia finendo nel calderone del "non penso dunque non sono". Non si tratta di politicizzare all'infinito il reggae e tantomeno di mettere alla berlina qualche "artista" di oggi. Si tratta di porci delle domande e di darci seriamente delle risposte. In particolare è allucinante che queste domande e queste risposte non vengano dal variegato mondo italiano di chi promuove il reggae, di chi lo ascolta e lo produce. Sembra come se tutto ciò che arriva dall'isola dei caraibi, sia merda o sia oro, vada bene. Come fosse una sorta di kit della spesa, in cui il tutto compreso va comprato senza assicurazione alcuna. Una sorta di "soggezione da prestigio"?. Eppure in Italia il reggae è sbarcato allo stadio San Siro di Milano di fronte a 100.000 persone che tutto avevano in mente tranne quello che il reggae oggi sta proponendo. 100.000 persone che erano strettamente bianche ed europee. Eppure quelle 100.000 persone c'erano arrivate da percorsi e vissuti differenti dalla condizione strettamente caraibica, ma comuni agli isolani di allora e sopratutto alla loro storia di schiavi africani che proprio grazie alla musica si alzavano per fuggire dai campi di cotone. Riprendersi la voce, rivendicare pezzi di libertà, fosse anche stata la circolazione libera delle erbe, del libero amore, essere parte integrante di un movimento internazionale che rivendicava diritti, un mondo migliore, la fratellanza e la pace sul pianeta etcetc, ecco cosa erano in un unicum quelle 100mila persone e quegli isolani sbarcati al San Siro di Milano. Eppure oggi, quando la globalizzazione del capitale, la violenza neoliberista che produce guerra, precarietà per tutti e condizioni di vita sempre più difficili, ma che altrettanto produce movimenti internazionali di liberazione, dal Brasile all'India, dagli USA all'Europa, il reggae sembra essere lontano mille miglia e parla di tutt'altro. Sembra ormai definitivamente appiattito in una logica omologante ed omologata, tutto stretto nella sua dinamica economica, in cui se il gansta tira, si vende, se si vende si offre. Una scena che sembra non avere nulla da raccontare e da raccontarsi se non scimmiottare immaginari di benessere materiale che assomigliano più alle pubblicità delle multinazionali che ad altro. Qui non si tratta più di parlare di "voglia di riscatto" dal ghetto, perché parliamo ormai di "artisti" non solo affermati che vendono in tutto il mondo, ma di vere e proprie dinamiche di mercificazione della cultura. Era bello, oltre che espressione reale e romanitca, Jimmy Cliff nel film “ the harder they come” quando litigava con il produttore che gli dava due soldi per il suo brano. O altrettanto commovente e reale (un sogno che diviene realtà) la scena del film “Rockers”, quando il ghetto si risveglia al mattino con un regalo insapettato (lavatrici, sedie, da mangiare...) fatto da chi nella notte li aveva sottratti allo sfruttatore bianco. Il "riscatto dal ghetto" oggi pare passare tutto e solo attraverso la vendita dell'immagine e di un immaginario che non ha nulla a che vedere con le condizioni materiali. Una sussunzione ed una mercificazione totale, non solo di una scena culturale, ma dei suoi atteggiamenti, dei suoi ammiccamenti. Una compra vendita di immaginari e di atteggiamenti. Un logo-vita, che fa tendenza e al quale non si può dire di no.
Che fine ha fatto allora tutto quel patrimonio, per tornare in Italia per esempio, di sound system, di decine e decine di persone che si sono spese in questi anni promuovendo il reggae proprio come musica di liberazione, che affratellasse le persone, che costruisse anche un pensiero comune critico e che tramite la musica si riappropriasse della propria parola? Dove è finito quel telegiornale di strada che rompeva definitivamente con il concetto di “palco”, che faceva a meno dell’”altezza” perchè bisognava essere immersi tra le persone, per guardarsi negli occhi, come si diceva, con i microfoni aperti? Proprio questa apertura e queste rotture critiche hanno fatto in quegli anni della scena culturale italiana una scena ricca, interessante, innnovativa e produttivissima. Per anni ho ascoltato il reggae e posso dirvi pezzo per pezzo tutte le cose, le parole, i sentimenti che mi rappresentavano, che parlavano per me quando non trovavo le parole per dirle, quando non servivano le parole per dirle, quando le mie parole non erano in grado di far sentire tutto quello che volevo, perché non bastavano. Il reggae lo ha fatto e non lo ha fatto solo per me. Ho inciso decine e decine di cassette, le ho regalate a destra e a manca. Ogni anno, quando avevo l'opportunità di viaggiare, di salire su un treno, registravo decine di cassette da regalare a casuali compagni di viaggio, un modo per lasciare un pezzo di me, perché il reggae lo era, e per un momento sembrava che questa pratica fosse diffusa ovunque. Non scorderò mai Abdel, per esempio, un giovane ragazzo marocchino emigrante in Francia, incontrato sul treno che da Valencia in Spagna porta in Marocco. Anche lui come me "parlava reggae". Ci scambiammo le cassette, ci conoscemmo, ci scrivemmo. Per me come per lui il reggae prendeva la parola, ci faceva comunicare, ci faceva sentire vicini pur essendo lontani, come vite, geograficamente e culturalmente. Eppure eravamo quei "fratelli" che proprio il reggae desiderava creare. Continuo ad ascoltare il reggae oggi, ma non lo capisco, non parla né per me né per altri. Il "fomento", termine nuovo che soppianta "l'affratellamento", diviene il termine che conduce al "consumo dell'evento", fosse anche una sola canzone che dura tre minuti e che pare "spaccare". Dopodiché ho bisogno di un altro momento di "fomento". Una sorta di estasi immaginifica di qualcosa che non si può prendere. Eppure il reggae è materia, esce da quella "merda che produce fiori perché non è dai diamanti che i fiori nascono". Il reggae ha radici lontane, fa parte della cultura centenaria degli schiavi che per riunirsi e cospirare rivolte e fughe dai campi di cotone, organizzavano feste musicali. E questo badate bene non significa che queste feste non coltivassero amori, quanti figli sono nati in quelle feste, strappate al possidente bianco. Quanti amori, compreso quello per la libertà. Tramite la musica comunicavano, si organizzavano, cantavano le speranze oltre che le ingiustizie. Cantando e non parlando (era loro vietato) organizzavano le rivolte, spesso represse nel sangue. Gli schiavi, africani, portati a forza nei campi di cotone o di canna da zucchero nel nuovo mondo, Giamaica compresa. Questi schiavi, non solo in Giamaica e non più nei campi di cotone, cosa si raccontano? Come si affrancano? Esaltando l'aspetto della miseria? Dello stupro? Della violenza del ghetto, di chi spara di più e meglio? Attaccando "il diverso da se" come l'omosessuale? E perché mai dovremmo continuare a sentire questa musica, perché mai dovremmo continuare a "fomentarci"? Di quale fomento abbiamo bisogno? Della derisione dell'altro? Dell'esaltazione del consumo senza regole, proprio come i padroni del mondo vogliono? Dell'esaltazione della macchina lucidata e della "bonona di turno" che se ci sta accanto esalta la nostra performance di "arrivati e giusti" e peggio, se si è donne, ci si affranca con il corpo messo a nudo per essere eletta "il più bel culo" della dance hall?
Credo che il discorso sia lungo ma non difficile. La riflessione di Horace Andy la rimando di conseguenza a chi oggi si occupa di promuovere, ascoltare, diffondere riprodurre il reggae. La lascio a chi continua a proporre iniziative nei centri sociali o per radio in cui il reggae sembra non avere rivali. La lascio a chi ha intenzione di metter in piedi un sound system, a chi seleziona pezzi. La lascio libera a chi desidera comunicare e raccontarsi, la lascio libera di essere presa e stravolta sperando che queste domande pongano degli interrogativi. Quando cominciammo come Studio Clandestino a fare reggae, nel lontano 1986, per centri sociali e piazze, immaginavamo un giorno di poterci connettere con chi parlava con le sensazioni, o meglio, le vibrazioni che il reggae genera. Immaginavamo possibile un linguaggio planetario attraverso la musica, da noi al di qua del pianeta a chi era in Giamaica, dire loro che era possibile che la sperimentazione, e quindi la quotidianità, di una vita migliore insieme era possibile. Noi sperimentammo spazi come i centri sociali, come l'autoproduzione, momenti di "comunità comunicativa" che usciva fuori dalla gabbia in cui eravamo stati messi, utilizzavamo anche noi la musica nel campo di cotone (il territorio metropolitano) per organizzarci. Perché non tentare strade simili anche altrove, proprio magari la dove la condizione di povertà necessita ancora di più di un approccio cooperativo e solidale piuttosto che individuale, in cui l'unico modo per affrancarsi dal ghetto (qualsiasi esso sia, materiale o mentale) pare essere quello di vendersi meglio degli altri.
Ma quei giorni sono andati e le trasformazioni del mondo non hanno tenuto conto dei sogni di molti. Il mondo è cambiato e con lui, in molte cose, tutti noi (chi regredendo, chi prendendo ancora maggior consapevolezza), ma propio per questo, chi agisce con il reggae, non può lasciarsi travolgere dalla merda che avanza, perchè ha le carte in regola per porre un freno. E trovare le strade per comunicarlo. Probabilmente anche quello che riguarda l'esperienza dei centri sociali per esempio, che oggi sembrano, come in questo caso, non domandarsi più, cammina con la trasformazione di una scena culturale che sembra non chiedersi più nulla, se non riproporsi per riaffermarsi.
Eppure alcune esperienze reali, seppur criticabili, le abbiamo viste con i nostri occhi. Il Sud Africa di Mandela delle indicazioni le dava. Dal ghetto, cosi come anni prima dai campi di cotone, si organizzava la rivolta, si costruiva il futuro e alla fine la storia dei neri del Sud Africa la conosciamo tutti. Dall'apartheid alla gestione, quantomeno formale, del paese.
Lasciamo quindi ad una riflessione più ampia queste domande. Le lasciamo a voi che in qualche modo con il reggae vivete anche i vostri desideri e tramite il reggae vi esprimete.
In Italia la storia è stata un'altra, e la stortura commerciale e "lo scimmiottamento del giamaicano fashion" non le danno un giusto valore, il giusto rispetto dovuto. Riprendere il cammino, affinché questa torni ad essere "la voce di chi non ha niente da mangiare" è necessario e utile perché di amore si viva. Altrimenti è facile dire "spariamo ai froci" dopo anni in cui si diceva "fire fi babylon". Oggi che "fuoco al sistema" sembra essere una delle poche ragioni serie per cui vivere, bruciare i froci ci sembra non solo assurdo e deleterio, ma anche estremamente in simbiosi ed omologato con il sistema che anni fa il reggae diceva di voler bruciare. E’ come se ci avessero invitato al banchetto...per divorarci.

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