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Libano: Chatila, in ogni senso.
by IMC italy Saturday, Sep. 14, 2002 at 7:48 AM mail:

Siamo quasi arrivati a destinazione, fra un macellaio e un forno si apre un minuscolo tunnel nel quale ci infiliamo. Pochi passi al buio e riappare una sottile lama di cielo stretta fra i muri di cemento...

Tutti i sensi stimolati a mille, dominati dall'olfatto, schiaffeggiato da un'odore acuto, a tratti lancinante. Da quando siamo entrati nel mercato che circonda Chatila le sollecitazioni aumentano, i colori, il contrasto fra luce e ombra sfasano la vista.
Procediamo attenti a dove mettiamo i piedi mentre intorno e' frutta, radio, scarpe, giocattoli, abiti, carne e miseria. E' la volta dell'udito, mi rendo finalmente conto che da quando siamo arrivati i miei timpani non hanno avuto un secondo di pausa.
Beirut e' una citta dove la parola silenzio si dice "sekit", ma il suo suono e' sconosciuto.
Il mercato di Chatila non tradisce il resto della citta', ma comincio ad assuefarmi e tutto inizia a ricomporsi. Passo sicuro.
Siamo quasi arrivati a destinazione, fra un macellaio e un forno si apre un minuscolo tunnel nel quale ci infiliamo. Pochi passi al buio e riappare una sottile lama di cielo stretta fra i muri di cemento.
Un gradino e siamo dentro Beit Atfal Assumut, nato come punto di assistenza per gli orfani di un'altro massacro, quello di Tal al Za'atar nel 1976.
Oggi e' diventato un centro per l'infanzia molto radicato e diffuso in tutti i campi libanesi. L'asilo, lo studio dentistico ben attrezzato, uffici e laboratori ci fanno conoscere un'altra faccia del campo. L'ennesimo te' e conosciamo Huada che ci spiega dove siamo. Ha circa quarantacinque anni, asciutta, un volto sicuro. Lavora con gli adolescenti, un compito che richiede una esperienza notevole, specialmente a Chatila.
Vive qui da circa trent'anni ed e' una delle sopravvissute al massacro del 1982.
Con un tono calmo, in un buon inglese inizia a parlare: "La gente che e' arrivata qui dalla Galilea nel 1948, ha costruito le case con le proprie mani e ha affrontato mille difficolta' tra cui l'invasione israeliana del 1982, il massacro, la guerra dei campi profughi, tra il 1985 e il 1987, fino alla fine della guerra libanese, nel 1989. Ogni volta tutto veniva ricostruito, un lavoro incessante reso ancora piu' duro dalla condizione di profugo lontano dalla propria terra.
Per noi la guerra com'era prima e' finita, ma ne e' iniziata un'altra, quella economica, che coinvolge non solo i palestinesi ma tutti quelli che vivono in Libano. A Chatila oggi vivono 16000 persone, 7000 palestinesi e 9000 di altre nazionalita': libanesi, siriani, egiziani, chingalesi. I nuovi "profughi" di questa ennesima guerra, fatta di disoccupazione e miseria.
Questa sovrapopolazione impone uno sviluppo verticale, palazzoni e baracche fatiscenti, accalcate gli uni sulle altre. Non c'e' l'acqua potabile, dai rubinetti esce quella estratta da un pozzo troppo poco profondo per non essere inquinato.
L'unica che si puo' bere, e gratis, e' quella dei cassoni che sono sparsi nel campo, che Hizb'ullah riempie tutti i giorni".

Va avanti, Hauda, e mentre parla ci rendiamo conto che i campi, qui in Libano, sono assolutamente sconnessi dalla rete dei servizi essenziali. E Chatila e'un non luogo, un relitto alla deriva a quattro passi dal centro di una metropoli come Beirut.
"Noi palestinesi non abbiamo diritti civili, ci sono 73 tipi di lavoro che non possiamo esercitare. Molti laureati si adattano ai lavori piu' umili, o insegnano, ma possono farlo solo all'interno del campo, tanti altri emigrano. In piu' sono state varate da qualche tempo altre leggi che limitano ancora di piu' le nostre possibilita' di vita. Soprattutto quella che impedisce ai palestinesi di avere proprieta' in Libano: non possediamo piu' le nostre case e non possiamo quindi lasciarle in eredita' ai nostri figli. Nel caso di matrimoni misti tra palestinesi e libanesi possono ereditare solo i figli nati da padre libanese. Questo e' un vero e proprio furto ai nostri danni, tutto quello che e' stato costruito con i soldi e i sacrifici di chi e' andato a lavorare all'estero ormai non e' piu' nostro ma dello stato libanese.
Poi hanno aumentato le tasse universitarie di cinque volte, ufficialmente per gli "studenti stranieri" che e' solo un modo per dire "palestinesi".
A vent'anni dal massacro la situazione e' sempre peggiore, anno dopo anno anche gli aiuti dell'U.N.W.R.A. (agenzia ONU per i rifugiati) continuano a diminuire, rendendo di fatto irrisoria l'unica risorsa istituzionale che permette la sopravvivenza degli abitanti del campo."

Decide che e' il momento di portarci a fare un giro per capire meglio le condizioni in cui si vive nel campo, ieri avevamo chiesto ai Comitati Popolari l'autorizzazione per filmare e fotografare. Usciamo e Chatila ci accoglie con il canto del Mu'ezzin che proviene dalla moschea.
Camminiamo come equilibristi cercando di non inciampare sul groviglio di tubature per l'acqua che incrociano i vicoli stretti: in alto, poco sopra le nostre teste, centinaia di fili elettrici tessono una sorta di ragnatela che riduce ulteriormente la poca luce che filtra tra i palazzi.
Le donne fanno le pulizie e da molte case l'acqua arriva sulla strada, insieme a quella di qualche tubo rotto. Dentro al campo c'e' molta meno immondizia di quanto si possa pensare vedendo le strade che lo circondano: da qualche tempo un'associazione norvegese si occupa della "nettezza urbana".

Porte e finestre sono spesso aperte e dentro gli appartamenti un ordine che permette di sfruttare al meglio spazi cosi' esuigui. Gli abitanti quasi ci ignorano abituati come sono alla presenza di visitatori stranieri.
Altre svolte nei vicoli e ci troviamo davanti il luogo dove si trova uno dei grandi generatori che alimentano Chatila, gestiti dai Comitati Popolari,come tutto cio' che riguarda l'organizzazione interna del campo. Questo e' il cuore elettrico della citta', quello che garantisce di non rimanere al buio, di far funzionare i frigoriferi, tutto quello che a noi sembra scontato. Sempre camminando in fila indiana, tra piccoli negozi che vendono un po' di tutto, arriviamo in un luogo molto particolare di Chatila: e' la moschea, al piano terra di un palazzo. Durante il lungo assedio delle milizie di Amal che avevano completamente circondato il campo bombardando e sparando continuamente, non si poteva uscire neanche a seppellire i morti e proprio qui ne sono stati seppelleti trecento. Ora c'e' un sacrario e una lapide con i nomi di tutti.
Il ricordo va immediatamente a Ramallah durante la rioccupazione di Aprile e alla fossa comuni scavate in fretta nel parcheggio fuori dall'ospedale, approfittando di una breve sospensione del coprifuoco.
Un bambino cavalca con orgoglio il suo monopattino nuovo nuovo, nonostante non riesca a scorrere sul pavimento sconnesso, poco piu' avanti usciamo su una via piu' ampia, di quelle piene di botteghe e passanti e ci avviamo verso l'uscita opposta di Chatila. Davanti a noi si apre uno slargo ai cui bordi resistono i palazzi piu'crivellati di colpi che abbiamo mai visto, miracolosamente ancora in piedi. Un gran numero di carcasse di automobili occupano gran parte dello spazio, in mezzo un gruppetto di bambini prendono a calci un pallone.
Hauda ci saluta, presa dai suoi mille impegni, abbiamo passato piu' di tre ore insieme. Ma ci lasciamo con un appuntamento, un'altro momento per raccontarci quello che lei ha visto a Chatila durante il massacro, per fissare insieme un pezzo di memoria.

Tornando insieme ripassiamo attraverso il mercato e gli odori stavolta ci ricordano che non mangiamo da stamattina. Seduti sul bordo del marciapiede soddisfiamo finalmente il gusto, l'unico dei sensi non ancora chiamato in causa, mentre assaporiamo l'ennesima, squisita falafel.

Foto di CandidaTV

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