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Tutti all’opera per questa terribile bisogna! Sulla manifestazione di Milano, 14.01.2006
by Compagne femministe di Bologna Saturday, Jan. 14, 2006 at 10:57 AM mail:

SULLA MANIFESTAZIONE DI MILANO, 14 GENNAIO 2006

Tutti all’opera per questa terribile bisogna!

► È imminente una manifestazione a Milano per il 14 gennaio, organizzata da “Usciamo dal silenzio” e gemellata con la manifestazione “Tutti in PACS” già fissata a Roma per lo stesso giorno, non senza aver messo in atto “la capacità di superare qualche momento difficile in ordine alla contemporaneità dei due appuntamenti...”

► Le parole d’ordine sono: richiesta dei PACS (patti di unione civile), operatività dei consultori, utilizzo della RU486, contro l’attacco alla legge 194, contro la politica dei poteri forti: Chiesa, Stato, Partiti...

► Le firme riportate nei vari appelli vanno dalla CGIL, all’ARCI, alle componenti femminili dei partiti di sinistra, ad associazioni istituzionali di donne. Spicca la totale assenza di gruppi, collettivi, associazioni che non si collochino dentro o a margine di queste istituzioni. Inoltre, l’iniziativa è supportata materialmente dalla CGIL, in particolare da quella lombarda, che ha “offerto una valida sponda logistica per una manifestazione che resta comunque autorganizzata”. Né fanno mancare il loro sostegno quotidiani come “il Manifesto” e “Liberazione”, ma anche radio, camere del lavoro ecc.

“I segnali sono buoni”, ci dice Cristina Pecchioli, addetta stampa della CGIL Lombardia. C’è da complimentarsi con queste donne che nel giro di un mese hanno sollevato un bel polverone! Tuttavia, sentiamo la necessità di guardare attraverso il polverone per intravedere quello che sta accadendo e che – non neghiamolo – ha lasciato alcune di noi alquanto dubbiose e perplesse. Forse, ci siamo dette, è successo qualcosa di nuovo di cui non ci siamo accorte? E allora volgendo lo sguardo all’indietro ci torna in mente il 1995: ultimo anno di grossa mobilitazione femminile. Proviamo a fare dei piccoli passi indietro e osservare il presente in una prospettiva più ampia.

Nell’aprile del 1987 le donne del PCI pubblicano un documento intitolato “La Carta: dalle donne la forza delle donne”. È un testo in cui esse rivendicano la loro militanza tutta interna al PCI per realizzare il loro desiderio di fare politica, ma nello stesso tempo la loro volontà di stare nel partito con una posizione di forza e non di subalternità. Interpretando il “pensiero della differenza sessuale”, le donne più autorevoli del PCI si propongono come “madri” simboliche a cui le altre donne avrebbero dovuto “affidarsi”: in concreto richiedono di dimostrare un attivismo femminile affinché alcune di loro abbiano posti decisionali all’interno del partito. Si giunge così a chiedere al partito un riconoscimento della “differenza” attraverso l’uguaglianza di potere: si chiede alla donne di dar forza alle donne, ma per rientrare nella stessa logica, nella stessa pratica, nella stessa politica del partito senza nulla cambiare se non il sesso biologico dei suoi rappresentanti. Difatti pochi mesi dopo (giugno 1987) lo slogan “Dalle donne la forza delle donne” si traduce nel più prosaico “Voto PCI, così eleggo una donna”. Ed è uno slogan che ritorna anche nella campagna elettorale per le elezioni europee del giugno 1989.

Un altro ricordo. Il 3 giugno 1995 si tiene a Roma una manifestazione nazionale di donne “in difesa della 194”, dieci mesi prima delle elezioni politiche. Per le donne della sinistra istituzionale si pone lo stesso problema: contare di più. Soprattutto si tratta di fare i conti con il fallimento della loro pratica politica all’interno del partito: le “quote di rappresentanza”, il “vota donna”, le “leggi delle donne”. L’organizzazione della manifestazione del 3 giugno 1995 venne portata avanti di fatto dal Centro Culturale Virginia Woolf/B tramite il documento “La prima parola e l’ultima”. Non mancarono in quell’occasione le difficoltà nel mediare tra le varie anime del movimento, soprattutto con quella parte, allora più consistente, che riproponeva una critica complessiva del conflitto tra i sessi e del sistema patriarcale e capitalistico, rivendicando una pratica separatista e autonoma. Un bisogno e desiderio espresso in modo dirompente all’interno di quella manifestazione.
Poco dopo Prodi si presentò alquanto impreparato e distratto all’incontro con le donne “progressiste” che lo accusarono di “sciatteria” e risposero che simili comportamenti avrebbero pesato negativamente sulle elezioni: “ormai le donne sono presenti in questo paese a tutti i livelli e sono ormai una forza portante da cui non è possibile prescindere...”. Ma Prodi vinse e le donne istituzionali restarono con un palmo di naso.

Con immancabile puntualità, anche oggi la grande manifestazione del 14 gennaio 2006 cade alcuni mesi prima delle elezioni politiche e pare la fotocopia sbiadita e stanca di eventi già accaduti: è un mercato della rappresentanza alle prime trattative. Certo il numero di manifestanti segnerà il rilievo della contrattazione e in tal senso tutto si sta provando: l’invito esplicito rivolto agli uomini, l’appello alle giovani, il richiamo della vecchia guardia, delle femministe storiche consapevoli delle sconfitte degli ultimi vent’anni, delle intellettuali di partito ancora intente a metabolizzare il fallimento del “pensiero della differenza”. Oggi scontiamo il vuoto che proprio questo fumoso “pensiero della differenza” ci ha creato: un linguaggio astratto e astruso che ha mascherato le politiche istituzionali di appiattimento, se non di sopraffazione e di svendita della lotta delle donne. Oggi siamo – e dobbiamo dircelo – incapaci di comunicare. Abbiamo troppe cose da dire e non troviamo il modo. Abbiamo ancora bisogno che qualcuno ci crei le condizioni dall’esterno, ma queste condizioni sappiamo che non funzionano, sappiamo che saranno usate contro di noi come già è successo in passato, perché non siamo noi ad averle decise, ma servono in un gioco che non può essere il nostro.
I nostri tempi e i nostri modi sono stati altri. Siamo scese in piazza dopo lunghi periodi di riflessione, di lavoro politico concreto, di pratiche collettive e su questo fondamento certo è nato quello che rimane uno dei più importanti e originali movimenti del Novecento: il femminismo. Un movimento nato dalla forza di ognuna senza alcun riferimento partitico o sindacale. Proprio perché erano libere, perché praticavano la loro libertà senza affidarla a nessuno, le donne erano forti: come non lo sono state mai più. Forti si sentivano in quelle manifestazioni in cui migliaia e migliaia di donne costrinsero il Parlamento italiano a votare la “liberalizzazione dell’aborto”: è il 1976 e le violente polemiche portano alla caduta del governo.

La visibilità delle donne attraverso cortei e manifestazioni era un concetto e una pratica del movimento femminista anzitutto per manifestarsi come soggetto politico. L’appello alla mobilitazione rivolto oggi alle donne dalle donne appartenenti alle istituzioni lo sentiamo forzato e poco sincero: un espediente per riempire le fila di una manifestazione istituzionale che strumentalizza un bisogno delle donne nel quadro di una campagna elettorale senza esclusione di colpi. L’aver anteposto la visibilità come dato politico ha condotto talora a un’assenza di analisi sulle implicazioni dell’uscita pubblica delle donne. Ma bisognerebbe cercare risposte a domande quali: siamo soggetto politico? Dove si fonda tale soggettività politica? Cosa implica aprire una rivendicazione trovandosi al fianco di organizzazioni anche istituzionali? Quanto siamo in grado di mantenere una nostra autonomia di pensiero e di pratica politica? Non si corre forse il rischio di appiattire le differenze politiche, culturali, generazionali?
Tale appiattimento può apparire utile al fine di rendere visibile una forza sociale femminile, ma ciò accade al prezzo di una semplificazione del dato sociale e di una valorizzazione esclusiva del dato biologico, privo di soggettività politica.
Vi è pertanto la necessità di una riflessione collettiva sul senso di queste manifestazioni, in quanto le situazioni di movimento femminista e lesbico rischiano di non restare estranee a un processo di semplificazione da soggetto politico rivoluzionario a forza sociale che si limita a specifiche richieste di “diritti”.

Ad esempio: “diritto all’aborto” è la principale parola d’ordine che si ricava dagli scritti circolati in questi giorni in preparazione della manifestazione milanese del 14 gennaio. Ma è una formulazione piena di ambiguità. Negli anni Settanta, a causa dell’estendersi del movimento femminista il metodo dell’autocoscienza risultò insufficiente come pratica politica. L’avvio dell’autogestione dell’aborto costituì un obiettivo immediato, fece sperimentare alle donne nuove pratiche di lotta: si organizzò la gestione politica dei processi per reato d’aborto, si costituirono coordinamenti di gruppi femministi, si organizzarono i viaggi a Londra, si praticò il self-help e gli aborti con il metodo dell’aspirazione, si autogestirono i consultori. La liberalizzazione dell’aborto fu identificata come l’ultimo anello di una lunga catena di desideri e consapevolezza per migliaia di donne di viversi la sessualità in un altro modo, oltre l’imposizione della riproduzione. Inoltre, rappresentò un obiettivo che superava le differenze di classe e di cultura.

“Aborto libero, gratuito e assistito” sintetizzò le elaborazioni del movimento femminista.
Aborto libero perché ogni donna avesse la possibilità di scegliere autonomamente senza nessuna autorizzazione di medici, sacerdoti o psicologi.
Aborto gratuito perché la scelta autonoma potesse concretizzarsi per tutte le donne, senza che le condizioni economiche influenzassero tale decisione e senza essere fonte di guadagno per medici-macellai.
Aborto assistito perché fosse garantita a tutte le donne la sicurezza fisica e la possibilità di controllare la medicina e le sentenze del medico, promuovendo come metodo più sicuro per l’operazione l’aspirazione con cannula, allora sconosciuto in Italia e ancora oggi adottato per l’intervento di interruzione di gravidanza.

A mediare il conflitto dirompente con l’autonomia delle donne fu una legge promossa dalle donne delle istituzioni che riduceva l’aborto da questione generale e di principio (simbolicamente e sostanzialmente: il diritto delle donne all’autodeterminazione) a richiesta specifica ammissibile nel quadro di una tutela sociale della maternità.

Anche oggi nessuno può garantire per noi: non certo i politici di destra nella loro difesa opportunista della laicità dello stato, ma nemmeno i politici di sinistra genuflessi dinanzi alle istanze “moralizzatrici” delle gerarchie cattoliche, non i Prodi, i Fassino, i D’Alema, i Bertinotti, le Muraro, con la loro riscoperta del sacro e dei diritti dell’embrione.

Non saremo più massa di manovra!


Compagne femministe di Bologna


“con la comandante Ramona, una delle comandanti zapatiste, protagonista della liberazione della città di San Cristobal il I gennaio 1994, scomparsa il 6 gennaio 2006”

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