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Governo italiano: CONCORSO IN OMICIDIO
by Dino Frisullo (by M.Molotov) Sunday, Dec. 15, 2002 at 12:01 PM mail:

Il caso della famiglia siriana respinta verso la condanna a morte Quel "concorso in omicidio" del governo italiano Dino Frisullo

Cinque giorni a Malpensa, poi il viaggio verso la morte. La famiglia Al-Shari, marito, moglie e quattro bambini di cui uno malato, ora è nelle prigioni di Damasco. L'ingegnere Muhammad Said Al-Shari era colpito da condanna a morte, che la Siria esegue spesso nel buio di una cella e senza testimoni, perché esponente dell'opposizione dei Fratelli musulmani. Suo fratello Murhaf, piombato a Milano da Londra senza poterli neppure vedere, teme che siano già morti.
Questa volta la polizia di frontiera l'ha fatta grossa. L'Italia si è dimostrata meno ospitale del regime di Saddam, che aveva garantito ospitalità alla famiglia in fuga da Damasco. Ma l'asilo politico era improbabile e precario, in un paese sconvolto dall'embargo e dalla guerra imminente. Per questo gli Al-Shari erano partiti per l'Italia. A Malpensa i funzionari non hanno fornito un interprete e li hanno confinati nel limbo extraterritoriale dell'aeroporto senza attivare il Consiglio italiano per i rifugiati, che ha uno sportello al di qua del varco di confine.

Probabilmente non è stata neppure decretata l'espulsione perché i poveretti non erano ancora entrati in Italia. A differenza di quanto sosteneva ieri L'Unità, che pure ha il merito di aver messo la notizia in prima pagina, lo sbrigativo respingimento senza appello efficace è previsto dalle norme della legge 40 ereditate tale e quali dalla Bossi-Fini. A meno che non vi sia una richiesta di asilo, di cui è tradizione della polizia, alle frontiere aeroportuali, marittime e terrestri, evitare la formalizzazione. E' un esempio classico la frontiera di Trieste, dove da anni si respingono migliaia di stranieri, per lo più profughi kurdi e balcanici, verbalizzando poche decine di richieste d'asilo.

Difatti secondo i funzionari Polaria gli Al-Shari erano privi di documenti e non avevano chiesto asilo. Mentono. Perché in questo caso, essendo ignota l'origine siriana, avrebbero potuto solo respingerli nel paese di provenienza, cioè a Baghdad via Amman. Più facile consegnarli ai carcerieri di Damasco sotto scorta della polizia italiana. E' ciò che è avvenuto una settimana fa ad Amin Khairi, espulso a Tunisi via Genova dal prefetto di Bologna sotto falso nome tunisino impedendogli di chiedere asilo nonostante una sentenza che sanciva il rischio di vita per lui, già militante palestinese in Libano e nel Maghreb. Le scarne notizie lo dànno recluso nelle segrete del ministero dell'Interno tunisino, dunque sotto tortura.

Per questo caso, come per quello della famiglia Al-Shari, la Corte di Strasburgo potrebbe condannare il governo italiano e obbligarlo a tutelare le vittime per via consolare. Anche il costituzionalista Giovanni Conso ha accusato i funzionari responsabili di "concorso in omicidio". Ma le deportazioni in situazioni di persecuzione non sono purtroppo una novità: basti pensare al rimpatrio dei tamil in Srilanka e delle presunte prostitute in Nigeria nello scorso aprile, o all'invio di un gruppo di kurdi, l'anno scorso, nelle prigioni turche. Del resto anche i respingimenti dai porti italiani in Grecia preludono alla riconsegna dei profughi alle polizie dei paesi di provenienza. Di nuovo c'è solo l'arroganza di chi è sicuro di vestire la divisa di un paese in cui non esiste più il diritto d'asilo.


Da "Liberazione" 15/12/2002

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