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La vera storia della Diaz
by Debaser Tuesday, Jan. 07, 2003 at 11:08 AM mail:

Articolo del Manifesto

La vera storia del blitz alla Diaz
Dagli interrogatori dei pm di Genova emergono le responsabilità dei dirigenti della polizia intervenuti nella scuola al G8 del luglio 2001. I celerini romani rispondono dei 61 feriti gravi, gli alti funzionari anche di falso e calunnia per le false molotov ritrovate alla Diaz: rischiano l'addio alla ps. Due vicequestori le portano a Caldarozzi e Luperi, vicecapi dello Sco e dell'antiterrorismo. Gratteri, La Barbera e Murgolo c'erano ma dormivano. E dietro il «pentito» e il «Giuda» si allunga l'ombra del capo dei capi della celere, Valerio Donnini, il padre del nucleo speciale antisommossa
ALESSANDRO MANTOVANI
Hanno fatto sessantuno feriti tra gente che dormiva, spaccando milze e teste senza pietà. Hanno manipolato le prove, come le due famose bottiglie molotov, per arrestare 93 innocenti. E ora l'inchiesta sull'assalto alla scuola Diaz, che ha portato i pm a interrogare come testimone anche Gianni De Gennaro, ci consegna questi superpoliziotti che negano l'evidenza, si contraddicono, calpestano la procedura penale e finché possono scaricano sul reparto mobile romano (ex celere) di Vincenzo Canterini. Nessuno di loro ha visto alzare un manganello. Da Canterini al prefetto Arnaldo La Barbera sono tutti entrati «dopo», «in posizione arretrata», «tra gli ultimi», «quando la situazione era ormai congelata». Ed è incredibile l'atteggiamento di un big come Gianni Luperi, numero due dell'antiterrorismo del Viminale (ex Ucigos) e al G8 responsabile della sala internazionale delle polizie. A luglio Luperi ha rifiutato di rispondere ai pm, comportamento garantito ai privati cittadini (o a Silvio Berlusconi) ma certo poco opportuno per un dirigente della polizia al quale i magistrati intendevano mostrare il filmato che lo ritrae con la busta delle molotov in mano nel cortile della Diaz. Il vicequestore aggiunto che quella busta ha portato, il 37enne Pietro Troiani, reo confesso perché inchiodato da un agente che ha ormai lasciato la ps, il «supertestimone» 34enne Michele Burgio, rifiuta a sua volta il confronto con il collega al quale dichiara di aver consegnato gli ordigni, Massimiliano Di Bernardini della squadra mobile romana (36), lo stesso funzionario che ha anche dovuto ammettere di non aver mai subito la famosa «sassaiola», pretesto ufficiale della «perquisizione» della sera del 21 luglio 2001. E ancora, il capo del Servizio centrale operativo (Sco) Franco Gratteri, uomo di punta della lotta alla mafia e pupillo di De Gennaro, fa la figura di quello che c'era ma forse dormiva: tutta colpa dei celerini, dice Gratteri, perdendo tempo solo a spiegare della squadretta da lui mandata «per errore» al Media center della scuola di fronte (computer distrutti, hard disk trafugati...) e a correggersi come può dopo la visione del filmato che lo inquadra a pochi metri da Gilberto Caldarozzi (suo vice) che confabula con Luperi con la busta in mano.
Conviene sapere cosa hanno raccontato perché nessuno può prevedere comefinirà l'inchiesta principale sul G8 del 2001. A Genova inizia infatti il primo grado di giudizio ed è tutto interno alla procura. I sostituti Francesco Albini Cardona, Monica Parentini, Vittorio Ranieri Miniati, Francesco Pinto ed Enrico Zucca devono ora difendere il loro lavoro dal procuratore reggente Francesco Lalla, fin dall'inizio il più «comprensivo» con la ps. Vista l'impossibilità di individuare i singoli picchiatori (al di là dell'appartenenza o meno al nucleo romano) perché quasi tutti a volto coperto, l'incriminazione per lesioni gravi passa per l'articolo 40 secondo comma del codice penale, che punisce il poliziotto per non aver impedito un reato - criterio confortato dalla giurisprudenza ma al quale Lalla potrebbe fare argine. Del resto i circa cento indagati per lesioni sarebbero tutti già assolti se i pm non avessero scoperto la messinscena delle molotov, con la quale hanno aggiunto le ipotesi di falso ideologico e calunnia per i tredici firmatari del verbale d'arresto e gli altri funzionari presenti (diciannove in tutto).
Donnini, il «generale» fantasma
Anche per questo bisogna partire dalle due molotov, ritrovate nel pomeriggio durante gli scontri in corso Italia dal vicequestore Pasquale Guaglione, che poi ha dichiarato ai pm di «riconoscerle». Dal verbale si apprende che Guaglione le aveva consegnate a Valerio Donnini, dirigente superiore del Viminale e predecessore di Canterini alla guida della celere romana, padre del nucleo antisommossa. In omaggio alla vecchia scuola militare qualche poliziotto lo chiama ancora «generale». E al G8 il generale Donnini aveva «il coordinamento operativo e logistico dei contingenti dei reparti mobili, dei reparti volo, delle squadre nautiche e delle unità speciali» (dall'ordinanza del Viminale). Era insomma il capo dei capi della celere, una specie di «comandante fantasma» per dirla con il manifesto del 12 agosto 2001 per primo ha pubblicato il suo nome.
Donnini, secondo Guaglione, avrebbe detto «queste le prendo io perché sono importanti». Il «generale» nega, ammette però di averle messe sul Magnum, la jeep su cui si spostava con l'autista Burgio. Il ragazzo ha raccontato di una risposta sgarbata: «Quando è arrivato il dottor Donnini io gli ho fatto presente che c'erano le bottiglie e lui si è rivolto a me in modo alterato - ha riferito il teste Burgio il 4 luglio 2002 - come se avessi fatto una domanda stupida o che comunque non dovevo fare». Donnini, sempre il 4 luglio, ha negato: «Escludo di aver dato ad una sua osservazione che non ricordo affatto una risposta così ambigua e, se mi si consente, anche frutto di una maliziosa illazione, come se io non avessi interesse alla consegna formale. Tale dovere incombeva al Burgio».
Burgio faceva l'autista per la struttura logistica, prima ha scarrozzato Donnini e la sera ha portato Troiani alla Diaz. E il 10 luglio ha confermato: «Ricordo di aver parlato delle bottiglie al dottor Donnini e questi mi ha risposto male e spazientito». E ha spiegato: «Ero preoccupato per la presenza delle bottiglie. Avrei potuto e dovuto procedere anch'io per la consegna in questura, ma essendo stato abituato, sin da quando prestavo servizio sulle volanti, che per qualsiasi cosa si devono richiedere disposizioni al superiore presente sulla vettura, avendo io chiesto disposizioni prima al dott. Donnini e poi al dott. Troiani e non avendole ricevute, non ho ritenuto di prendere iniziative». L'iniziativa (da solo?) la prenderà Troiani.
Burgio il «pentito», Troiani il «Giuda»
Alla sera è lo stesso Donnini a mobilitare il nucleo antisommossa per la «perquisizione», sia pure condividendo con altri quell'inspiegabile ricorso alla celere. Le molotov sono ancora sulla jeep, Burgio le ha solo spostate nel portabagagli. A quel punto entra in scena Troiani, che si serve dello stesso autista perché fa parte della struttura di Donnini (del quale è peraltro «allievo» riconoscente). Alla Diaz non dovrebbe neanche andarci, Troiani. Anzi, nei primi documenti il suo nome non c'è: lo fa Burgio. Sentito come teste il 1° luglio scorso Troiani dapprima nega, racconta che le bottiglie erano state trovate fuori dalla Diaz: «Il mio autista Burgio mi si avvicina e mi dice che in macchina o nelle immediate vicinanze sono state trovate, non so se da lui o da altri, due bottiglie molotov. (...) Io le ho portate subito a Di Bernardini e sono andato via». Poi, quando il pm gli fa notare che «questo contrasta con le dichiarazioni di Di Bernardini», Troiani aggiunge: «Lo so, a Di Bernardini ho detto che i miei le avevano trovate nel cortile della scuola o sulla scala d'ingresso» e il pm «fa rilevare che che nel verbale viene evidenziata una circostanza ancora diversa sul ritrovamento» (c'è scritto nella scuola, non fuori, ndr). Allora Troiani dice: «Mi rendo conto della mia leggerezza, il mio problema era solo `liberarmi' di quelle bottiglie», ammettendo candidamente che la stessa squadra mobile di Roma cui appartiene Di Bernardini, notificandogli la convocazione, lo aveva messo in contatto con lui: «La dottoressa Manti mi ha fornito il numero di telefono del collega, anzi mi ha fatto il numero lei. Mi sono poi sentito anche con Burgio». Ma a quel punto Troiani è indagato e per la ps diventa «il traditore»: fa pensare a lui il Giuda di Giotto stampato sul frontespizio del rapporto di settembre della Digos genovese. Di Bernardini sostiene aver dirottato Troiani su Caldarozzi senza nulla chiedere sulla provenienza degli ordigni. I due sono ex compagni di corso, sembrano cercare una versione concordata, partono telefonate e sms. Ma quando Di Bernardini chiede il confronto Troiani rifiuta. E comunque le molotov finiscono davvero a Caldarozzi, un altro pezzo grosso che prima nega e dopo aver il film dice: «Prendo atto che l'ufficio indica che le dichiarazioni di Troiani e Di Bernardini paiono riscontrate dal filmato. Ribadisco di non ricordare di aver mai avuto in mano il sacchetto».

Il video inchioda i numeri due
Mezzanotte e mezza, il massacro è fatto. E' il momento ripreso dalla tv privata Primocanale (agli atti come Blue sky 1 e 2) e mostrato agli indagati il 30 luglio scorso. Sono sull'ingresso: Luperi e Caldarozzi con la busta, poco più in là il capo della Digos di Genova Spartaco Mortola, Canterini, Gratteri ma anche Giovanni Murgolo, che di fatto rappresentava il prefetto Ansoino Andreassi, rimasto in questura con le sue «perplessità» sul blitz. Murgolo dal cortile parla a lungo con lui per telefono. Entrambi, l'attuale numero due del Sisde Andreassi e il vicario di Bologna Murgolo, vengono dall'antiterrorismo targato Pci, mentre quasi tutti gli altri appartengono al mondo delle squadre mobili (e di De Gennaro). Ma tra tanti «cervelli fini», tutti investigatori esperti, nessuno si preoccuperebbe di sapere da dove diavolo vengono le molotov, che se non sono attribuibili a nessuno servono solo per la propaganda.
Murgolo però si sporca le mani il meno possibile, come del resto Gratteri e la buonanima del prefetto Arnaldo La Barbera, l'ex capo dell'Ucigos scomparso pochi mesi fa. Fanno però una figura barbina. Gratteri deve balbettare: «Forse non ripeterei quello che ritengo un errore, essermi recato alla Diaz». Molto più pesanti le posizioni di Calderozzi, Luperi e soprattutto del genovese Mortola: è lui a fare il sopralluogo e a dare il via alle operazioni, riferendo di aver saputo dal Gsf che la scuola era ormai nelle mani di chissà chi. Gravi anche le accuse a Filippo Ferri e Fabio Ciccimarra, i due giovani vicequestori indicati da Di Bernardini e Mortola come i redattori del verbale poi firmato in tredici. Ferri, classe `68, comanda la squadra mobile di La Spezia; Ciccimarra ('70) dirigeva l'antirapine di Napoli ed era il capo dei poliziotti accusati di violenze alla caserma Raniero dopo il Global forum del 17 marzo 2001. Raccontano che l'accusa di associazione per delinquere l'hanno decisa dopo in questura, ovviamente con tutti i dirigenti, e così hanno accollato le molotov a tutti i 93. I gip e la stessa procura li bocceranno: gli arresti non saranno convalidati, l'inchiesta partirà proprio da lì.
L'accusa di Franco Gratteri
Donnini invece non era alla Diaz. Il «generale» è testimone, non indagato. E' però inquietante la sua ombra, perfino Gratteri sembra suggerirlo. Dice infatti ai pm il 30 luglio 2002: «A determinare il caos all'interno della scuola potrebbe essere stato qualcuno del reparto mobile o di altri reparti, così come l'episodio dell'accoltellamento simulato può essere servito a parare l'eccesso di violenza usato nei confronti di alcuni degli occupanti; penso che anche l'episodio delle bottiglie sia stato montato per giustificare quanto accaduto. Ritengo sarebbe importante determinare chi abbia comandato Troiani di venire alla Diaz - insiste Gratteri - può essere che si sia mischiato con gli altri e che abbia fatto quello che hanno fatto gli altri del reparto mobile e che abbia pensato di coprire l'accaduto. Molti potrebbero essere i moventi concreti da parte di una componente della polizia che non ritengo rappresentativa». E' la linea dei vertici: tutta colpa del reparto di Canterini, il massacro come le molotov e il finto accoltellamento (Gratteri ammette: «Simulato»). E se Troiani, pur non facendone parte, si definisce ancora uomo del reparto («noi del reparto», dice), il suo capo Donnini della celere è l'anima, la memoria, il vero numero uno.
Una «reazione» alla «sassaiola»?
A parte l'accoltellamento dell'agente Massimo Nucera per il quale è fissato l'incidente probatorio per il 18 febbraio, i pm stanno valutando una per una le posizioni dei funzionari. Rispetto alle molotov devono dimostrare la condivisione del proposito calunnioso e non sempre è facile. Anche perché, a quanto sembra, le prove fasulle sono state concepite solo a posteriori, per coprire il sangue.
A tavolino è stata invece organizzata la perquisizione, motivata invece con la storia della sassaiola contro uno dei «pattuglioni misti» organizzati la sera del 21 da Caldarozzi su ordine di Andreassi e Gratteri e con la collaborazione di Donnini. Nessuno ha mai fatto nomi e cognomi degli aggrediti. Neanche Di Bernardini, che prima aveva scritto la relazione come se la sassaiola l'avesse subita lui e alla fine ha balbettato: «Non so che dire, ho riferito quanto avevo appreso `de relato'» da non si sa chi. Come se nulla fosse quasi tutti parlano della «perquisizione» come di una «reazione» alle sassate. Persino Gratteri dice «risposta all'aggressione». E di lì alla «rappresaglia» il passo è breve, specie per la «componente» della ps che il capo dello Sco non ama.

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