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DA SAIGON A BAGHDAD. UNA RISPOSTA A SOFRI, UN'IPOTESI DI LAVORO
by Dino Frisullo Tuesday, Apr. 01, 2003 at 10:11 PM mail:

Rispetto alla mia recente degenza forzosa la lunga forzosa clausura di Sofri, lo dico con affettuosa ironia, dovebbe avvantaggiarlo nella riflessione. Stupisce che su un tornante decisivo come il Vietnam gli esiti ne siano così angusti. Non eravamo con il Vietnam solo né soprattutto per scelta di campo.



La nostra generazione, che scosse l'Occidente e quella guerra, era già allora
ben più critica delle sue classi dirigenti nei confronti di modelli, riti e
nomenklature realsocialiste. Eravamo con il Vietnam anzitutto per una
pulsione etica. Con i deboli contro i forti: la più grande armata contro un
esercito contadino, armi chimiche (testate allora su larga scala nei loro
effetti teratogeni e mutageni) contro le armi povere della guerriglia,
l'escalation della forza brutale per spezzare un popolo incoercibile.

Ma eravamo per la sconfitta degli Usa in Indocina anche perché la loro
vittoria avrebbe riaperto la porta all'arbitrio della forza e alla tentazione
dell'unipolarismo, segnando la crisi o l'arresto della decolonizzazione che
stava creando un mondo nuovo e un nuovo diritto internazionale. D'altro canto
anche gli Stranamore d'allora al Pentagono sognavano di attaccare poi Cina e
Urss. Difficile immaginare in quale mondo saremmo vissuti senza la
liberazione di Saigon e la sconfitta del sogno dei falchi Usa, oggi
rinnovato, di dominio mondiale.

Saddam Hussein non ha nulla della statura politica di HoChiMinh o Giap. Ma
non ricorda il Vietnam la scena dei contadini irakeni festanti attorno
all'elicottero abbattuto a colpi di kalashnikov? E non fanno pensare a My Lai
i bambini fatti a pezzi da due bombe che sono programmati avvertimenti
sull'impatto dell'assedio prossimo venturo? Nessuno in buona fede può
sostenere che si possa obbligare con la forza un popolo intero a resistere, e
Chiarini ed altri ci spiegano le radici della dignità nazionale che, ad ovvia
eccezione dei kurdi, induce oggi a combattere o comunque a odiare gl'invasori
anche coloro che, come gli sciiti del Sud, Saddam non l'hanno mai amato. Non
è un riflesso "vietnamita" l'elementare autodifesa d'una comunità già
stravolta e decimata da un embargo criminale? E non sa di escalation
indocinese il crescendo di minacce americane agli sciiti, alla Siria,
all'Iran, alla Russia?

Del resto il think-tank reaganiano che, per conto del possente complesso
d'interessi militar-industriali e petroliferi, programma la guerra preventiva
e infinita, vive la vittoria finale in Iraq come la rivincita del Vietnam. E
come il volano per una catena di aggressioni alla Siria, all'Iran ed a
quant'altri s'aggiungeranno intanto all'Asse del male. Se vinta, la guerra
proseguirà ben oltre Baghdad. E' questa la ragione per cui neppure l'angoscia
sulle vittime può indurci ad augurarci una rapida vittoria degli Usa. Al
contrario: che s'impantanino in Iraq, cresca il loro isolamento, siano messi
in scacco dalla tattica di guerriglia irakena, siano infine costretti, in
tempi possibilmente brevi ma che non saremo noi a determinare, ad accettare
un cessate il fuoco e ripensare tutti i parametri della loro politica estera.

So bene i terribili prezzi umani che questo comporterà, e i prezzi politici.
Perché equivarrebbe a una vittoria di Saddam Hussein. E non solo sua. La
sconfitta degli Usa sarebbe vissuta come un trionfo da tutte le forze che la
loro arroganza ha suscitato o indotto a schierarsi, dalle più nuove e fresche
alle più integraliste e settarie, dai regimi ai movimenti, dai palestinesi
agli ayatollah. Ma questa non è una novità, né è responsabilità nostra la
scelta di Washington e Londra di muovere guerra al mondo dislocando contro di
sé molti mondi diversi. Tuttavia è certo angoscioso e contraddittorio, specie
per chi come me condivida a fondo le istanze di liberazione dei kurdi,
augurarsi nei fatti una vittoria del loro criminale antagonista storico in
Iraq.

Torna allora il paragone con il Vietnam: la sua rimozione dall'orizzonte
della sinistra (salvo rare eccezioni) fino al dramma dei boat-people. Invece
il dopoguerra a Baghdad, e ad Erbil, Suleymaniye, Basra e Kirkuk, deve
interessarci a fondo. E se ne pongono ora le premesse. Qui forse possiamo
incidere e spostare equilibri, in un rapporto di solidarietà e condivisione
dal basso, dentro e contro la guerra.

Una vittoria degli Usa non porterebbe democrazia né autogoverno. Alla vigilia
del conflitto la Cia aveva già selezionato i quadri del passato regime,
spesso screditati affaristi o criminali di guerra, di cui circondare il
futuro proconsole americano. L'hanno ormai compreso gli sciiti ed altri
oppositori, mentre s'illudono ancora purtroppo i kurdi del Pdk e del Puk i
cui spazi d'autonomia, stretti fra il nuovo potere centralistico a Baghdad e
le mire turche e iraniane, sarebbero ancora più limitati degli attuali. Il
sacrosanto diritto d'autodeterminazione d'una nazione plurimillenaria
potrebbe affermarsi invece saldando il rifiuto dell'ingerenza turca a sud del
confine e il rifiuto della nuova repressione in Turchia, dove i kurdi sono
risolutamente contrari alla guerra. Una nuova unità nazionale kurda avrebbe
effetti dirompenti sia rispetto al gioco turco-americano nell'area, sia agli
equilibri del dopoguerra. E su questo gli amici dei kurdi in tutto il mondo
possono incidere.

Più in generale: è impensabile che nella resistenza popolare all'invasione
non si rinsaldi l'egemonia della casta al potere, ma al contrario prenda
forma un blocco democratico alternativo al regime, capace di contendergli la
gestione della guerra (dei corridoi umanitari, degli approvvigionamenti,
delle tattiche belliche) e l'egemonia nel dopoguerra? Altre volte è avvenuto,
in situazioni estreme di guerra di popolo. Lavorare seriamente su questa
ipotesi, in parallelo con l'impegno umanitario e l'aiuto solidale ai profughi
e agli sfollati, significa per tutti noi - Ong sul campo, movimenti e
campagne di solidarietà e di controinformazione - valorizzare
sistematicamente (nei limiti del buonsenso: vedi "Oil for food") le
aggregazioni popolari e democratiche rispetto al regime.

Sarebbe questa anche la miglIor risposta a coloro che da cento salotti
televisivi ci chiedono di denunciare Saddam. Non sento alcun bisogno di
dissociarmi da chi non mi fu mai socio: lo facciano coloro che l'hanno
sostenuto e armato per decenni per massacrare i miei amici. A noi spetta
lavorare nel concreto, dentro e contro la guerra, per costruire
un'alternativa democratica al regime di Saddam, che nasca dalla gente che si
batte per sopravvivere anche su sponde apparentemente diverse od opposte:
dagli irakeni che resistono agli angloamericani, dai kurdi che cercano un
futuro fra errori e speranze, dai milioni di profughi di ieri e di oggi.

Dino Frisullo

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