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Il Manifesto: Ecco le prigioni on the road (map)
by gap Wednesday, May. 07, 2003 at 3:29 PM mail:

Il Manifesto - 7 maggio 2003
Ecco le prigioni on the road (map)
Tomba di Rachele Al centro della strada sorgerà il Muro di separazione che Sharon sta costruendo tra Israele e la Cisgiordania. Di questo Abu Mazen non parla

MICHELE GIORGIO
INVIATO A BETLEMME

La prima tappa della «road map», «tracciato di pace» del Quartetto (Usa, Russia, Ue e Onu), sono le prigioni. Non quelle israeliane ma dell'Autorità nazionale palestinese riformata, e ora dotata anche di un premier, Mahmud Abbas, meglio noto come Abu Mazen, che le biografie ufficiali dell'Olp pongono perennemente al vertice di Al-Fatah ma che non lascia mai traccia del suo passaggio. Firmò la Dichiarazione di principi di Oslo, dieci anni fa, ma lo hanno dimenticato tutti, o quasi. Il primo ministro palestinese si dice pronto ad adempiere agli obblighi che la «road map» impone ai palestinesi. La sicurezza prima di tutto, parola che da queste parti non vuole dire lotta ai kamikaze che si fanno esplodere in Israele ma a tutti gli oppositori che rifiutano che a dettare legge siano Washington e Tel Aviv e credono che la legalità internazionale e le risoluzioni dell'Onu siano il punto di riferimento dell'umanità. Una delle difficoltà per il premier Abu Mazen, che ha fatto sapere di voler disarmare e fermare l'Intifada ma che si guarda bene dal chiedere il ritiro delle forze di occupazione, sta nel fatto che Israele, negli ultimi due anni, ha bombardato e distrutto tutte, o quasi, le prigioni palestinesi. Dove incarcerare gli oppositori? L'amministrazione Bush è prontamente intervenuta per togliere dai guai l'amico Abu Mazen. Nei giorni scorsi sono giunti nei Territori occupati decine di container (marchio Usa) trasformati in celle, con tanto di sbarre alle finestre, pronti ad accogliere i prigionieri politici. Non bisogna percorrere molti chilometri per «ammirare» i container-celle. E' sufficiente raggiungere Betlemme. Da Gerusalemme è distante appena una decina di chilometri e al posto di blocco tra le due città, le guardie di frontiera israeliane passano il tempo a sghignazzare e a discutere delle ultime imprese del Real Madrid o del Maccabi Haifa. C'è ben poco da controllare visto che il passaggio di persone e mezzi è limitato al minimo dal blocco delle aree autonome palestinesi. Dal posto di blocco fino al sito religioso della Tomba di Rachele, trasformato in un bunker, si ha l'impressione di attraversare una città fantasma. Negozi e ristoranti sono chiusi, le case sembrano disabitate, le strade sono deserte. Appena tre anni fa, nei giorni del Giubileo, su questa strada bisognava fare i conti con un traffico esasperante: tutti in fila, diretti alla Piazza della Mangiatoia, cristiani e musulmani, e non solo nei giorni di festa. Ora su questa strada sorgerà, così hanno scritto i giornali israeliani nei mesi passati, il «muro di separazione» tra Israele e la Cisgiordania meridionale. Proprio al centro della strada, in modo da far rientrare la Tomba di Rachele all'interno del territorio controllato pienamente da Israele. Molti abitanti di Betlemme il muro lo dovranno scavalcare per raggiungere i loro negozi o le loro abitazioni, proprio come da molti mesi accade ad Abu Dis, alla periferia sud di Gerusalemme. Il premier Abu Mazen, impegnato a riaffermare gli impegni palestinesi verso la «road map», non ha avuto il tempo di occuparsi di questo «dettaglio» che potrebbe sconvolgere la vita di migliaia di palestinesi e compromettere il futuro economico di Betlemme. La Muqata, il quartier generale dell'Anp a Betlemme poche centinaia di metri dopo il bivio per Beit Jala, è un ammasso di pietre, tubi di metallo attorcigliati, colonne di cemento armato crollate. Gli israeliani lo hanno distrutta come buona parte degli edifici e delle sedi dell'Anp. Ricorda i cosiddetti «palazzi di Saddam» rasi al suolo dai bombardieri americani a Baghdad. Accanto alla Muqata sorge, integra, ristrutturata, (pare con 250 mila dollari giunti da Washington) la sede dell'Amen wakai, la sicurezza preventiva palestinese. Un bel contrasto che fa pensare al ministero del petrolio iracheno a Baghdad, unico complesso edilizio del passato regime iracheno rimasto in piedi. E così come molti si chiedono perchè mai gli Usa hanno risparmiato proprio il ministero del petrolio in Iraq, così i palestinesi si domandano perchè mai proprio la sede dell'Amen wakai è stata la prima a venir ristrutturata. Cinque container-celle di colore bianco, sono qui, alle spalle dell'edificio. Ieri ci siamo presentati all'ingresso dell'Amen wakai decisi a dire le nostre intenzioni, senza reticenze. «Buon giorno, vorremmo dare una occhiata alle celle, è possibile?». Colti di sorpresa gli agenti della sicurezza preventiva ci hanno invitato ad entrare e ad attendere Abu Jihad, l'ufficiale con il grado più alto. Ma Abu Jihad, dopo qualche minuto, ci ha fatto sapere di essere molto occupato e di non aver tempo per noi. Arrivederci, anzi addio, non tornate mai più, ci ha fatto capire il responsabile del servizio di guardia. Alla guest house del centro «Ibdaa» del vicino campo profughi di Deheishe, Wafa è incaricata di ricevere gli ospiti stranieri che partecipano a campi di lavoro e progetti di solidarietà e sviluppo con il popolo palestinese. Sguardo deciso, tono di voce fermo, non ha esitazioni nel dire che la «road map» è un «grande inganno». «Qui nel campo c'è tanta gente che spera in quel piano, che si illude di credere che Abu Mazen ci porterà qualcosa di buono, perchè soffre, perché è sfinita dall'assedio militare israeliano. Ma tutti sanno che è solo un bluff, un imbroglio che alla fine ci toglierà gran parte dei nostri diritti», ci dice Wafa. Arrivano alcuni giovani del campo, entrano nella sala dove ci sono i computer per entare in rete. Da anni i computer di «Ibdaa» mantengono in contatto i profughi palestinesi in Libano con quelli di Deheishe. Storie di vita simili in terre diverse, in enormi prigioni che il mondo chiama campi profughi. Wafa osserva, poi riprende a parlare. «Abu Mazen con ogni probabilità godrà di qualche mese di calma relativa - prevede - e nel breve periodo potrebbe anche convincere qualcuno ad abbandonare la resistenza. Poi, quando al tavolo delle trattative, giungeranno ai nodi di questo conflitto, allora la lotta riprenderà perchè noi palestinesi non ci arrendiamo. Non smetteremo mai di reclamare i nostri diritti». Nella sede di Betlemme del ministro dell'informazione insolitamente non ci sono i ritratti del presidente Yasser Arafat e del premier Abu Mazen. C'è poco da fare, il lavoro è fermo e il funzionario responsabile dell'ufficio, Abu Maher, rimugina sulla nomina a ministro dell'informazione di Nabil Amer in sostituzione di Yasser Abed Rabbo. «Entrambi sono bravi e competenti» dice da buon funzionario ministeriale. Ma quando entra nell'ufficio Ahmed Muhsein, ex componente della delegazione Anp ai negoziati sui rifugiati, Abu Maher annuisce sentendo parlare di diritti «sacrosanti» dei profughi palestinesi. «Se Abu Mazen vuole avere successo, deve prima conquistare la fiducia della sua gente e esser chiaro sui diritti ai quali noi palestinesi non rinunceremo mai, Non può parlare solo di fine dell'Intifada», dice Muhsein.

Lasciamo il ministero dell'informazione mentre da Gaza arrivano le ultime notizie. Israele ha chiuso, a tempo indeterminato il valico di Rafah, ha bloccato i collegamenti tra Gaza e l'Egitto. Una motovedetta israeliana ha fatto saltare in aria un peschereccio palestinese «che si era avvicinato troppo alla colonia di Digit». Attraverso Le Monde il leader di Hamas, Ahmed Yassin, fa sapere che solo «quando ci sarà uno Stato palestinese indipendente, la mia organizzazione deporrà le armi, non prima...Non vogliamo uno scontro con l'Autorità palestinese, ma se Abu Mazen tentasse di imporci una tregua con la forza, sarebbe contro il parere dei palestinesi che non vogliano la confisca delle nostre armi».

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