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"Guerra e Castigo" di Paolo Persichetti
by pink moon Thursday, Aug. 29, 2002 at 9:29 PM mail:

Guerra e Castigo. C'erano una volta i grattacieli

di Paolo Persichetti

Novembre 2001
[Tratto da Guerra civile mondiale, Odradek, Roma dicembre 2001]

A Carlo, uno dei tanti, uno di noi

A Genova, in piazza Alimonda, un caldo pomeriggio d'estate bagnato dal sangue sembrava aver cambiato il corso della storia. L'eclettico movimento contro la "globalizzazione neoliberale" contava il suo primo morto, un ragazzo, Carlo Giuliani. Almeno questa sembrava allora la convinzione di molti. Come sempre il vizio etnocentrico portava l'Occidente, anche quello che si vuole più radicale, a presentarsi come lo specchio del tempo, misura degli eventi, calendario della storia, dimenticando altri morti, ancora più numerosi ma lontani e senza volto, nel Chiapas, nell'Equador, in Africa...

Non meno di due mesi dopo, il mattino dell'11 settembre, il dirottamento suicida di quattro aerei USA lanciati contro il Pentagono e le Twin Towers ha nuovamente e bruscamente modificato il percorso degli eventi. Folgorante, l'agitato succedersi degli avvenimenti s'è mostrato più veloce del pensiero. La realtà ha preceduto l'immaginazione, oltrepassato ogni ipotesi, largamente subissato la finzione realizzando i sogni inconfessati d'alcuni e gli incubi temuti da altri. Le immagini dei due aerei che entravano nelle Torri, lo squarcio fumante del Pentagono, che un'accorta politica dell'immagine ha velocemente epurato dagli schermi televisivi tentando di censurare dalla memoria la profonda ferita portata all'orgogliosa arroganza del complesso militar-industriale e al sentimento d'invulnerabilità della nazione americana, hanno infranto certezze e miti della grande potenza.

Ripiegata su se stessa, colpita al cuore, l'America, come una bestia ferita, ha cominciato a guardarsi mostrando agli occhi increduli del mondo una impensata fragilità interna: una grande insicurezza psicologica che innerva la sua complessa trama sociale. Gli Stati Uniti sono ridivenuti di colpo umani, dopo che la morte per strage aveva dissolto momentaneamente le classi, riunificando sotto una montagna di macerie le migliaia di agenti del capitale finanziario, i brockers in uniforme giacca e cravatta, e le centinaia di clandestini lavapiatti, puliscicessi e lavavetri, che come topi lavoravano per qualche dollaro l'ora nei retrobottega delle grandi Torri. La distanza sociale, il dominio degli uni sugli altri, lo sfruttamento dei primi sui secondi, si ricomponeva nei cadaveri bruciati, maciullati, stritati, sfarinati, d'una comunità umana tornata polvere.

Increduli abbiamo osservato questo avvenimento assoluto, "madre di tutti gli eventi", come l'ha definito Baudrillard,1 spiegandoci che la portata simbolica di quanto è accaduto sorpassa di gran lunga l'odio, sano e legittimo, contro la potenza mondiale dominante, diffuso tra i diseredati e gli sfruttati e tutti quelli relegati o finiti nella parte sbagliata del nuovo ordine mondiale. No, quest'odio viene dal cuore stesso del nuovo ordine, cresce al suo interno come il baco nella mela. L'allergia ad ogni ordine definitivo è, fortunatamente, un sentimento universale. L'emergere della potenza ingenera con la sua crescita il suo esatto contrario, ovvero la volontà di distruggerla. La potenza, la volontà di dominio, è dunque in qualche modo complice della sua stessa distruzione, per questo "quando le due torri sono crollate, si è avuta l'impressione ch'esse rispondessero al suicidio degli aerei-suicidi col loro suicidio". Insomma le Torri si sarebbero suicidate, è questa la suggestiva iperbole provocatoriamente lanciata da Baudrillard.

Che vuol dire? La guerra in corso dall'11 settembre è forse una nuova forma di lotta di classe a scala mondiale sublimata sotto le vesti religiose di un islam dei poveri contro le altre credenze teologiche dei ricchi? È una guerra tra profeti e messia sotto il nome di uno stesso Dio? È Dio stesso che si è dichiarato guerra? Oppure è lo svolgersi finalmente aperto d'una battaglia tra il Nord opulento contro il Sud diseredato, una volta giunto a termine lo scontro tra Est e Ovest?

L'oppio del popolo

Il conflitto che è in corso, spiega Paul Virilio2, ricorda sempre più la guerra tra caste, cioè tra mafie dell'oppio, sette religiose, signori della guerra e multinazionali. Nessuno l'ha ancora detto, eppure mai gruppo religioso al mondo è stato più vicino alla formulazione marxiana della religione di quanto lo siano i Talebani. Scriveva Marx nella introduzione alla Filosofia del diritto di Hegel che "la miseria religiosa è al tempo stesso l'espressione della miseria reale e la protesta contro questa miseria reale. La religione è il gemito della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. La religione è l'oppio del popolo", una magica credenza che allevia come uno stupefacente i popoli dalla sofferenza rendendoli schiavi del bisogno d'essere alleviati in futuro.

La teologia dei mullha, trafficanti d'oppio in combutta con i servizi pachistani, costituisce l'essenza più compiuta di una religione che non è solo oppio del popolo ma è il surrogato sociale dell'oppio prodotto da un intero popolo.

Murdoch, Bill Gates, Lockeed, Mac Donnel Douglas, bin Laden corporation, Bush and sons Oil company, sono i protagonisti d'un conflitto che solo in minima parte si svolge sui primi scoscesi pendii delle catene himalayane, tomba di tanti imperi. Il vero regolamento di conti avviene nei paesi offshore, all'interno dei sofisticati circuiti finanziari. La postmodernità è questa: "come se fossimo tornati alla feudalità, ma all'epoca e a scala della mondializzazione. Come se fossimo regrediti nella storia perché abbiamo progredito nello spazio, in uno spazio globale, con la rapidità dei trasporti o della quotazioni in borsa". Ha ragione Virilio, la postmodernità di questo conflitto è data dalla congiunzione dell'assolutamente arcaico con l'ipermoderno. Una società tribale patriarcale, caratterizzata da un'assenza di sviluppo delle forze produttive, da comunità agropastorali divise in etnie ostili, da risacche di modernità, depredate peraltro da vent'anni di guerra civile, raccolte attorno a qualche centro urbano come Kabul, dall'assenza totale d'una società civile, da élite sociali e politiche raccolte attorno ai profitti ricavati da traffici e dazi d'ogni tipo realizzati sulla base di piccoli potentati locali, veri e propri feudi sui quali regna un signore attorniato da un esercito privato di sgherri al soldo. Economia di traffici e rapina saldata alla sofisticata ingegneria finanziaria d'un aristocratico saudita, nutrito dalla rendita moderna del petrolio che ha soppiantato la vecchia rendita fondiaria. Il mullah Omar, carismatico capo religioso figlio di contadini senza terra, unito in un patto d'acciaio con l'emiro bin Laden, ex rampollo d'una famiglia ben conosciuta e apprezzata nei salotti buoni della finanza nordamericana, associati in una guerra contro un vecchio alleato, gli USA di George Bush, lui stesso figlio viziato d'una famiglia che ha costruito la sua fortuna economica sul petrolio. Amici di ieri, nemici di oggi.

La disgregazione del regime talebano, dissoltosi come neve al sole dopo poche settimane di bombardamenti, mostra come quell'entità fosse artificiale, escrescenza tumorale sviluppatasi all'ombra del subimperialismo pachistano e grazie all'indifferenza compiacente dei gendarmi nordamericani del nuovo ordine imperiale. La realtà clanica della società afgana ha avuto la meglio sulla dimensione ideologico-religiosa della guerra santa. A parte alcune brigate d'elite, costituite da militanti fedeli alla jihad, molti dei quali stranieri, il resto della truppa talibana ha ripiegato sui propri villaggi. Il contadino pashtun è tornato a casa, mentre diversi loro comandanti hanno intascato valige di dollari. La tutela del controllo sul proprio territorio tribale, e dunque sulle forme d'economia che vi sussistono, ha prevalso su ogni altra esigenza.

Questo conflitto è l'emblema dell'entrata in un'epoca dalla complessità infinita, "medio evo della mondializzazione", la definisce Virilio che metaforicamente vi ritrova le stesse figure dell'antica società degli ordini e delle caste: i "signori" dei traffici che pullulano con i commerci illegali più svariati, protagonisti d'una economia corsara, prototipo di una accumulazione originaria fatta di rapina e d'arrembaggio. Come non pensare alla Russia, passata in un baleno dalla struttura burocratica del partito-nomeklatura alle mafie, alle lobbies, alle bande e alle banche? ; i "preti" che si moltiplicano tra i profeti della guerra di religione e gli inquisitori della giustizia universale; il contadiname, altrimenti detto la base sociale del movimento antiglobalizzazione - e qui certo Virilio pensa alla confederazione paesana di Jose Bové -, il che poco si addice alla composizione italiana del movimento antiglobal, dove sono sparuti i petits Jacques, a parte le saltuarie apparizioni della mucca Ercolina col suo padrone. "Piccolo Giacomo", era il termine con il quale durante l'ancien regime la nobiltà dei latifondi chiamava gli anonimi contadini, considerati dei non soggetti, scheletri intercambiabili, equivalenti l'uno con l'altro, non persone, sovranumeri, eccedenze carnacee. Da qui è poi venuto il termine jacquerie, per indicare l'ira funesta e senza perdono dei contadini in rivolta che saccheggiava, devastava e bruciava le proprietà dei nobili, trucidando e violentando all'occorrenza. Nel contesto italiano, sempre stando alla metafora medioevale avanzata da Virilio, i preti trovano un posto di rilievo nel movimento antiglobal, sorta di nuovi pastori anabattisti che un tempo guidavano le rivolte contadine. L'anima cattolica, il volontariato legato al cattolicesimo sociale, costituisce se non la componente maggioritaria, quanto meno una buona metà del movimento antiglobal in Italia, e Woytila è senza dubbio un antesignano e grande maître a penser della critica alla globalizzazione che ai suoi occhi corrisponde all'universalizzazione del materialismo liberale e alla secolarizzazione borghese. Egli rappresenta uno dei referenti ideologici della critica anticapitalista che alimenta le culture antiglobal, insieme allo zapatismo di Marcos (sorta di terzomondismo riveduto e corretto). Un anticapitalismo con un basso tasso di marxismo che in Francia invece è prevalentemente sostituito dalla cultura sovranista (trasversale alla destra come alla sinistra), che si professa antiglobalista perché veterokeynesiana, statalista, neoprotezionista e neocorporativa.

Giustizia penale universale

Manca il terzo stato nella rappresentazione suggerita da Virilio, un po' azzardata ma certo suggestiva. Non ci sono l'equivalente delle professioni della toga, manca la borghesia mercantile, il mondo dei mestieri, le corporazioni degli artigiani e dei bottegai. Stiamo al gioco e proviamo a guardarci meglio intorno: a ben vedere le professioni della toga le ritroviamo nella diplomazia internazionale, negli azzeccacarbugli dell'ONU, nei vari organismi economici e finanziari sopranazionali, in quel palais de Bruxelles, sede dell'Unione europea, che ricorda tanto il parlamento di Parigi in combutta contro il re di Francia, ma ancora di più nel personale giuridico delle corti penali internazionali ad hoc, propaggini moderne della vecchia Santa Inquisizione, sacerdoti e magistrati al tempo stesso, come il procuratore generale Del Ponte. Possiamo identificarli tra i nuovi imprenditori della morale e della sanzione, avanguardie dell'ingerenza giudiziaria, inquisitori del giudiziario globale o meglio della mondializzazione penale, come l'ex magistrato di Castiglia, divenuto nel frattempo giudice metaplanetario, Baltazar Garzon, partigiano intraprendente della "giustizia penale universale"3 oramai diretta concorrente del giudizio universale divino.

La borghesia mercantile ci rinvia a figure note e familiarmente nemiche, un po' mercanti e un po' banditi, o meglio l'uno e per forza di cose l'altro insieme. Scriveva il New York Times del 28 marzo 1999: "affinché la globalizzazione possa funzionare, l'America non deve temere d'agire come la superpotenza onnipotente ch'essa è. La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza ricorrere al suo pugno nascosto. MC Do non può prosperare senza Mac Donnel Douglas, il costruttore degli aerei F15". Più chiaro non poteva essere! La forza della persuasione è tanto più efficace quando s'accompagna con la persuasione della forza. Così concorrenza e marketing dominano e regolano il mondo.

L'universo dei mestieri e delle corporazioni ci porta invece tra i Ciompi moderni, alla realtà complessa della forza lavoro, quella a infimo costo, sorta di nuovo servaggio, dei paesi del Sud-Est asiatico, del Sud America e dell'Est Europa, oppure al precariato, all'evanescenza contrattuale del lavoro odierno in Europa e in Nord America.

Guerra di caste o guerra frattale, in ogni caso guerra totale. Se gli americani hanno inventato l'aereo furtivo, l'11 settembre ha introdotto l'attentato furtivo. Un "nemico" anonimo suicidario e stragista si è affacciato, raccogliendo una sfida divenuta confronto feroce. Terrore contro terrore, crudeltà al posto della violenza, in ogni caso terrore asimmetrico che spiazza e disarma la grande potenza americana. Un paese che ha cancellato, grazie al mito ipertecnologico della guerra aerea e ciberspaziale, l'idea della morte nel proprio campo e nel campo avverso, a seguito della dottrina del costo zero e della guerra chirurgica e pulita, si ritrova paradossalmente vulnerabile.

L'iperpotenza tecnologica è venuta a supplire l'iperfragilità psicologica, ma fino a che punto? Gli stragisti dell'11 settembre sono riusciti a trasformare la loro vocazione al suicidio in una arma assoluta contro un sistema che vive della esclusione della morte, della propria morte, e il cui ideale è appunto quello dello zero morti. "Ogni sistema a zero morti è un sistema a somma nulla. E tutti i sistemi di dissuasione e di distruzione non possono nulla contro un nemico che ha già fatto della propria morte un'arma d'attacco"4. Se gli stragisti suicidi hanno altrettanta voglia di morire di quanto gli americani hanno voglia di vivere è ben difficile annullare il loro potere di nocività, salvo neutralizzarli preventivamente.

Guerrra Mondo

Il divenire ondulatorio della storia, il suo andare zigzagante, il procedere per salti, balzi in avanti e catastrofi improvvise, impone alla riflessione di misurarsi con nuove ed impreviste verifiche. Ad alcuni mesi di distanza è oramai impossibile tornare sui moti di Genova senza prendere in conto la variabile delle Torri fumanti, il paradigma della guerra-mondo che il loro crollo ha annunciato.

Un conflitto senza confini contro un avversario fantasma muta l'essenza della guerra. La fragile amministrazione Bush, votata dai tribunali più che dagli elettori, grazie alla elaborazione di una nuova dottrina della guerra fredda, ha finalmente trovato l'identità e il programma mancanti e una nuova legittimità interna.

Si profila così un nuovo tipo di conflitto globale, non più contro un'altra potenza, non più contro un campo visibile anche se mobile, non più una situazione d'ostilità che traslava e intrappolava nella divisione verticale dei campi contrapposti lo scontro orizzontale della lotta di classe. No! La guerra è oramai contro un fantasma, rincorre delle ombre, inventa nuovi confini in un territorio che non ha più frontiere e che dunque è sempre e comunque interno. La guerra è oramai contro il nemico interno, tutti i nemici interni e le politiche non allineate. Pacificazione forzata e repressione dei renitenti, dei disertori e degli insubordinati. Un nuovo arsenale giuridico è stato messo in piedi proprio per questo.

L'11 settembre ha aperto una nuova epoca di fondazione dell'urgenza. Siamo tutti testimoni di un passaggio cruciale, d'un momento fondatore. Stiamo assistendo in tempo reale alla costruzione dell'eccezione che frantuma la regola precedente. La necessità fonda la legittimità spiegava Santi Romano di fronte al terremoto di Messina del 1911. La necessità della guerra sta giustificando la legittimità di un nuovo livello di giuridicità, altrimenti detto di nuove condizioni della legalità. E chi decide della necessità e delle sue priorità? Il sovrano, e sovrano è colui che è capace d'imporre e governare l'eccezione. Bush ha già deciso che gli attentatori dell'11 settembre, se catturati, non verranno giudicati più da una giurisdizione civile ma da una corte militare ad hoc. Saranno insomma deferiti ad una corte marziale ultraspeciale, cioè ulteriormente in deroga a quel regime speciale, previsto in tutte le costituzioni, che già sospende il diritto comune corrente in una situazione di guerra. Ed una vera legislazione di guerra è quella che è stata promulgata o sta per essere varata da diversi paesi negli ultimi mesi5. Sulla base di quale legittimità? La loro forza!

Fa notare Danilo Zolo, in un articolo apparso sul Manifesto del 16 Novembre 2001 ("Dallo stato di diritto all'Impero penale"), che l'azione repressiva proposta dagli americani ha dato luogo ad una strategia di creazione d'organi giudiziari straordinari, di Tribunali speciali, di militarizzazione della giustizia interna, dunque di una sospensione di larghe zone dello stato di diritto che rafforza il modello dello "Stato penale". Come ha scritto il New York Times, questi tribunali militari ad hoc saranno segretamente istituiti dal potere esecutivo, a suo arbitrio e in qualsiasi momento. Gli imputati verranno privati della quasi totalità dei loro diritti di difesa, in una misura molto più importante di quanto già avviene presso la normale giurisdizione penale militare. Ma ciò che è ancora più significativo - ricorda sempre Zolo - "è la decisione dell'amministrazione Bush di istituire tribunali di questo tipo anche all'estero, cominciando dall'Afghanistan e dal Pakistan: una farsa tragica della giustizia internazionale. Lo "Stato penale" statunitense tenderebbe così a convertirsi nelle forme di un "Impero penale", impegnato a giustiziare i nemici che non siano stati direttamente eliminati con le armi o dai servizi segreti. E questi nemici potrebbero essere individuati, spiati e sorvegliati ovunque nel mondo, tradotti davanti a questi tribunali speciali, processati e giudicati segretamente".

L'emergenza di un ordine unipolare ha reso desueta la funzione dell'arbitro internazionale, altrimenti detto l'ONU, divenuto piuttosto un notaio del gendarme mondiale. In seguito, il potente sviluppo della giudiziarizzazione delle relazioni internazionali ha introdotto la figura centrale del giudice. Chi è il giudice? Questa è la vera posta in gioco attuale. Gli USA non vogliono più essere relegati al solo ruolo di gendarme del nuovo ordine mondiale ma rivendicano anche la funzione, a questo punto unica poiché sono solo loro a metterci la forza, di giudice. Due culture, una fondata sulla ragione cinica, o "etica della responsabilità", l'altra fondata sulla ragione morale, o "etica della convinzione", s'affrontano. Da una parte gli USA, ed in modo particolare i realisti che influenzano la sua politica estera, dall'altra le vestali della giustizia penale internazionale, del tribunale penale internazionale sotto l'egida dell'ONU, che gli USA guardano con estrema diffidenza se non con aperta ostilità. Ancora una volta che è il giudice? Georges Bush contro Baltazar Garzon. Chi il peggiore dei due? Certo tra i due non c'è un migliore. Quando nelle relazioni internazionali dominava la figura dell'arbitro, giudici e gendarmi erano relegati. Quando le controversie non trovavano regolazione, la parola passava ai partigiani sul terreno dello scontro, per ritornare poi sul tavolo del negoziato. Quando è emersa la figura del gendarme, l'arbitro è stato relegato al ruolo di notaio. Ora che s'impone la figura del giudice, l'arbitro è scomparso sostituito dal secondino. La giudiziarizzazione delle relazioni sociali e di quelle internazionali introduce comunque, quale che sia il giudice, il ricorso alla forma penale come criterio di regolazione e governo delle relazioni sociali. Se in passato le guerre una volta terminate lasciavano il posto alla politica in senso stretto (diplomazia, trattati, negoziati), dove la parte belligerante sconfitta non era privata del suo status politico legittimo, oggi i conflitti si chiudono con dei processi di fronte a delle corti penali internazionali rappresentati più o meno espliciti dei vincitori. Non solo c'è criminalizzazione del perdente, privato del suo status politico originario, ma il giudice è direttamente parte in causa. La parte vincente vede così legittimata la sua forza, attraverso la sanzione universale fornita dalla giustizia. La forza bruta diventa il criterio del giusto, come già a suo tempo aveva detto Pascal: "non potendo fare del giusto il forte, si fece del forte il giusto".

L'edificazione del nuovo ordine giudiziario globale consta di tre livelli:

_ nuova qualificazione estensiva dell'infrazione di terrorismo attraverso una definizione concettualmente omogenea e riconosciuta a livello internazionale, armonizzata e integrata alle singole normative nazionali;

_ mandato d'arresto europeo sulla base del mutuo riconoscimento delle sentenze e degli atti di giustizia. Misura che introduce la fine, o la riduzione sostanziale, del regime delle estradizioni all'interno dello spazio giudiziario europeo;

_ promulgazione a livello nazionale di una vasta panoplia di norme sulla sicurezza interna che assimilano princìpi e misure decise a livello internazionale e comunitario, avviando così quella che si può definire: lo scatenamento di una guerra giudiziaria contro il sociale, una penalizzazione della sfera pubblica, la criminalizzazione della vita.

Il mandato d'arresto europeo e la nuova infrazione di terrorismo

Una nuova tappa è stata raggiunta con l'imminente introduzione del mandato d'arresto europeo6 che abolisce, all'interno del territorio dell'Unione, l'istituto delle estradizioni con la relativa normativa giuridico-politica, i trattati e gli accordi internazionali, nonché l'intera impalcatura delle garanzie e tutele per la persona inquisita o condannata. Il progetto, presentato dalla commissione europea, verrà adottato dal consiglio dei ministri dell'Unione europea nel prossimo dicembre 2001. Il mutuo riconoscimento delle sentenze e degli atti di giustizia, accompagnata dal progetto di riformulazione estensiva a scala occidentale dell'infrazione di terrorismo7, dà luogo alla creazione di uno spazio giudiziario europeo privo dei necessari fondamenti giuridico-costituzionali. Il modello anglo-sassone del Common Law (assenza di costituzione scritta e civiltà giuridica fondata sulla tradizione, usi e costumi) è di fatto l'ispiratore di questo edificio giuridico senza un ordinamento costituzionale preventivo e unificato. Il peggio di ogni tradizione riassume la sintesi di questa area giudiziaria che, esentata dalla presenza dei vincoli di una norma costituzionale superiore, propria della tradizione del Civil Law, fa anche a meno dei "pesi e contrappesi" che pure ispirano la tradizione anglo-sassone. Se l'Europa finanziaria e monetaria, lo spazio di libero scambio e circolazione dei capitali e delle merci, s'ispirano ad una ferrea dottrina neoliberale, l'Europa giudiziaria fa strame invece della stesso formalismo predicato dalla scuola giuridica liberale preferendole la tradizione dello Stato di diritto autoritario, che ben conosciamo in Italia attraverso l'eredità della codificazione fascista e soprattutto grazie al ventennio emergenzialista, figlio del sostanzialismo giuridico della sinistra (quello della "via giudiziaria al socialismo" divenuta più tardi "via giudiziaria alla eliminazione dell'avversario parlamentare").

Gli estensori dei due testi non nascondono affatto le loro intenzioni allorché suggeriscono, nero su bianco, che tra i comportamenti illeciti perseguibili "potrebbero rientrare, tra l'altro, gli atti di violenza urbana"8. Appare chiaro come negli obiettivi di questo nuovo arsenale giuridico si vogliano far entrare a pieno titolo le azioni e le pratiche di buona parte dei nuovi movimenti che si sono manifestati a Seattle, Praga, Göteborg e Genova.

Tra i comportamenti illeciti (riassunti in 13 punti) qualificati ora come azioni di terrorismo segnaliamo:

f) "l'occupazione abusiva o il danneggiamento di infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto pubblico, luoghi pubblici e beni". Reato passibile d'una pena di reclusione di anni 5. I CSOA (Centri sociali occupati e autogestiti) sono avvertiti, salvo nel frattempo aver regolato il contratto d'affitto o di compra-vendita col legittimo proprietario. Sono avvertiti anche tutti quei movimenti sociali che nel corso delle loro azioni possono aver avuto l'idea d'occupare il proprio posto di lavoro, o una stazione ferroviaria o la pista di un aeroporto, per non parlare, infine, delle autogestioni scolastiche;

i) "l'intralcio o l'interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse fondamentali". Tutti gli eventuali scioperi "irregolari" nel settore potrebbero inquadrarsi agevolmente come delle azioni di terrorismo. La triplice, e soprattutto i Cobas sono avvertiti, non foss'altro perché la pena di reclusione erogabile sale fino ad un massimo di anni 10;

j) "gli attentati mediante manomissione dei sistemi di informazione". I compagni virtualisti, le reti informatiche di movimento, gli hacker, sono messi in mora. Niente più manifestazioni digitali, cortei di mail, assalti a siti con bombardamenti o invio di virus stile I love you. Finiti gli scherzi, ragazzi! Pena il rischio di anni 5 di reclusione;

Questa "fatwa" capitalista lanciata contro ogni attacco portato alla proprietà, ai beni - mobili e immobili - e ai mezzi di produzione - materiali e immateriali - mostra come, l'infrazione di tipo terrorista costituisca oramai una violazione dell'essenza stessa dell'etica del capitale, valore supremo da difendere in sé. Non è tanto "l'intensità di violenza" o la volontà di nuocere all'integrità della persona umana, come recitavano alcuni testi in passato9, che oggi viene presa di mira, quanto il pregiudizio portato contro la proprietà, i mezzi di produzione, la valorizzazione, che senza più alcun velo d'ipocrisia, è ora esplicitamente sanzionato come crimine assoluto.

L'estensione a dismisura della nozione di terrorismo (concetto insolubile, categoria aporetica divenuta un operatore ideologico abusato, aporia giuridica, parola pattumiera, vera e propria stigmate), è ripresa in modo particolare dal Terrorism Act10, varato nel Regno Unito nel gennaio 2000. Provvedimento che definisce il terrorismo come un'azione o una minaccia d'azione mirata a "influire sul governo o a intimidire la popolazione o una parte di essa"... o ancora come "l'azione o la minaccia d'azione compiuta allo scopo di promuovere una causa politica, religiosa o ideologica". Si tratta della definizione più estesa che esista attualmente nella legislazione mondiale.

Qualcuno ha ricordato11 (fornendo una paradossale interpretazione garantista d'un testo ben lontano da quei principi) come sia necessario, per incappare in questo nuovo tipo d'infrazione, la presenza non solo dell'elemento materiale (l'atto illecito) ma anche la compresenza dell'elemento intenzionale (la volontà illecita). In altre parole, non è sufficiente occupare, per esempio, un posto di lavoro perché venga commesso una infrazione di tipo terrorista; occorre che questa occupazione sia inquadrata all'interno di una esplicita volontà di sovvertire, sabotare o semplicemente colpire l'ordine costituito, le istituzioni e il governo.

Ma la volontà, quand'essa non risulta oggettivata da prova scritta o registrata, è oggetto d'interpretazione, materia di scandaglio per il lettino dello psicanalista. Una volontà può essere "attribuita", i margini dell'arbitrio poliziesco e giudiziario sono molto larghi in questo senso. Un tale dispositivo giudiziario, applicato ad ambienti e comportamenti che per definizione si collocano ai margini del lecito e dell'illecito, percorrendo i confini della norma costituita, può causare notevoli danni alle libertà pubbliche e della persona. Ed in ogni caso, è il diritto stesso alla critica, oltre ché la possibilità concreta d'esercitare materialmente opposizione, insubordinazione, refrattarietà, che viene preso di mira e si trova criminalizzato da questa formulazione.

Queste nuove regole sono già state recepite nelle settimane scorse dalle legislazioni d'alcuni paesi europei. Francia, Italia, Germania, Spagna, hanno integrato il loro già ricchissimo arsenale giuridico antiterrorista. L'Italia s'è dotata, attraverso un decreto legge, d'una ulteriore qualificazione del reato d'associazione sovversiva che porta a sette il numero dei reati associativi inclusi nel codice penale. Una proliferazione che fa dell'originario codice Rocco un manuale di liberalità con le sue sole tre qualificazioni: "associazione per delinquere", rivolta ai reati di diritto comune che gli inglesi definiscono, dopo l'emergere del conflitto nord irlandese, "crimini decenti e ordinari"; "associazione sovversiva" e "banda armata", infrazioni di natura politica che in molti paesi rilevano del diritto speciale e d'eccezione. Ad esse, col sommarsi delle emergenze, che s'aprono senza mai conoscere chiusura per cui ad infrazioni la cui natura storico-sociale è ciclica (insurrezioni, moti, disordini) corrisponde una sanzione normativa perenne tale da rendere endemicamente artificiali questo tipo di fenomeni, s'aggiungono stratificandosi: "l'associazione sovversiva con finalità di terrorismo"; "l'associazione per delinquere di stampo mafioso"; la figura anomala del "concorso esterno all'associazione per delinquere di stampo mafioso" e ultima arrivata "l'associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale".

Malthusianesimo penale

In Francia sotto il nome di "legge sulla sicurezza quotidiana" sono state varate una lunga serie di norme che in grande misura nulla hanno a che vedere col preteso "pericolo terrorista" suscitato da Al Quaeda, la rete organizzativa messa in piedi da Ben Laden. Si tratta, in realtà, di una lista di misure, inasprimenti penali e giudiziari, riguardanti il governo quotidiano della società, in modo particolare nelle aree sociali calde, come le periferie urbane, i grandi agglomerati dell'edilizia popolare, il sistema dei trasporti pubblici. Tutti luoghi di tensione continua, di scontro quotidiano tra forza pubblica e realtà sociali emarginate.

Due esempi risultano estremamente significativi:

- l'attribuzione, agli agenti delle società di sorveglianza privata, della possibilità di svolgere perquisizioni personali, attraverso palpazione, nei confronti dei cittadini. Si tratta d'un episodio che si iscrive all'interno del più generale processo di privatizzazione della società. È una concessione evidente al principio d'autodifesa della proprietà privata, presente in modo particolare nelle teorie dello Stato minimale (si veda, per esempio, l'elogio delle agenzie private di sicurezza avanzato dallo statunitense Robert Nozick12, teorico dell'anarco-capitalismo libertariano) ;

- La trasformazione d'una infrazione amministrativa, quale l'elusione del pagamento del titolo di circolazione nei mezzi pubblici, in reato penale dopo il decimo caso di recidiva (passibile di sei mesi di reclusione e 7500 euro di multa). Quelle che in un altro momento storico erano classificate come banali forme di incivilité, diseducazione e malcostume sociale, diventano veri e prori delitti penali. Dietro l'elusione sociale del pagamento dei mezzi di trasporto pubblico, un comportamento estremamente diffuso tra i giovani delle periferie che utilizzano i treni e i metro per recarsi nei centri urbani, non vi è solamente un atteggiamento di insubordinazione ma anche e soprattutto una immediata questione sociale, legata al problema del costo del titolo di trasporto, dettato non più da criteri di servizio pubblico ma di redditività. Per chi abita nei grossi centri a 50 chilometri da Parigi, una andata e ritorno costa più di trenta mila lire, intorno ai venti euro. Non solo, ma da tempo la verifica del titolo di trasporto si è trasformato in un controllo d'identità. Le squadre di controllori della società di trasporti agiscono da tempo col supporto di agenti di polizia in borghese, i quali prendono sistematicamente in consegna le persone colte in flagranza. I trasporti pubblici sono divenuti dunque un luogo di controllo sociale intenso e capillare, mirato a scovare gli immigrati clandestini e ogni sorta d'irregolarità e anomalia sociale, proprio sotto quei tunnel del metro dove brullica una umanità undergraund, una città nella città, una società nella società : lavoratori, clandestini, barboni, studenti, percettori dei sussidi di disoccupazione, artisti non più di strada ma di tunnel, turisti, bischeri e scanzafatiche, giramondo, impiegati, distratti e frettolosi...

Si torna ad una forma di società retta dal modello degli animals spirits. La fine dell'espansione keynesiana, la crisi del modello sociale fordista, la rottura dei meccanismi d'integrazione corporativa della società del welfaire, introduce una nuova società dell'esclusione. Dove appunto lotta di classe è innanzitutto marginalizzazione sociale, inclusione forzata nell'esercito salariale di riserva, nell'armata del precariato diffuso. La nozione di sovranumero ritorna in auge, rilanciando una sorta di malthusianesimo penale che designa le nuove classi pericolose. Mentre i nuovi imprenditori politici e giudiziari della morale neomalthusiana e dello "zero tolleranza" disegnano il profilo delle nuove classi pericolose, senza che per altro questi gruppi sociali si percepiscano essi stessi come "classi", identificandosi piuttosto nei gruppi etnici o religiosi, soltanto il capitale, un certo tipo di capitale ultradinamico, iperveloce e dalle antenne ultrasensibili, riesce a comunicare con loro. Solo le grandi Major musicali e le grandi multinazionali dell'abbigliamento sportivo trovano seguito e ascolto, recepiscono la cultura delle periferie, la metabolizzano, studiano e s'appropriano dei suoi codici riformulandoli, arrivando così a sussumerla completamente. Emarginati e pericolosi, tenuti a distanza dall'esercizio della cittadinanza, esclusi dalla vita della polis, questi lazzaroni moderni trovano riconoscimento e integrazione solo in quanto consumatori di Nike e di Sony. Il marketing li include, la politica li esclude e il capitale stravince.

La criminalizzazione delle politiche non allineate

Gli estensori del testo della Proposta di DECISIONE QUADRO DEL CONSIGLIO sulla lotta contro il terrorismo spiegano che:

"I diritti sanciti dalla legge lesi da questo tipo di reato non sono gli stessi diritti lesi dai reati comuni dal momento che le motivazioni dell'autore del reato sono diverse; ciò anche se i reati terroristici possono generalmente essere equiparati, per i loro effetti pratici, ai reati comuni e, pertanto, altri diritti sanciti dalla legge sono ugualmente lesi. Infatti, di solito le azioni terroristiche attentano all'integrità fisica o psichica di individui o gruppi, ai loro beni o alla loro libertà, allo stesso modo dei reati comuni, ma vanno oltre in quanto minano le strutture di cui sopra. Pertanto, i reati terroristici sono diversi dai reati comuni e ledono diritti diversi. È quindi opportuno prevedere elementi costitutivi e sanzioni diverse e specifiche per reati di tale gravità".

Ad essere sanzionato è il momento intenzionale. Non l'atto illecito in sé, che trova già una sua configurazione criminale prevista dalle infrazioni di diritto comune, ma le motivazioni. Le giustificazioni ideologiche costituiscono l'elemento volitivo. La tipologia politica, culturale o religiosa, è dunque l'elemento specificamente punito nell'infrazione di terrorismo. Un quid, un sovrappiù etichettato come ipercriminale. Questa confessione piena e aperta, sans vergogne, testimonia della svolta radicale intrapresa dagli ordinamenti giudiziari dei sistemi politici retti da forme di governo rappresentativo.

Il riconoscimento della politicità dei reati emerse in modo particolare nel corso dell'800, quando la nozione moderna di delitto politico venne costruendosi essenzialmente attorno ai problemi sollevati dalle procedure d'estradizione, alla ricerca dei fondamenti giuridici che ne giustificassero l'eventuale divieto, alla concessione di aministie e indulti. Era l'epoca dei movimenti nazional-borghesi. Criteri di classe e interessi geopolitici portarono la Realpolitik dei singoli Stati ad affinare degli strumenti giuridici che offrissero una definizione dell'infrazione politica che non agisse contro l'imputato. La "qualità politica" nobilitava e attenuava la portata "criminale" di delitti commessi da membri delle classi dominanti in piena epoca di moti costituzionali, repubblicani e nazionali. Una sostanziale discriminazione classista permetteva di demarcare con maggiore facilità questo tipo di infrazioni da quelle considerate di diritto comune poiché esse non includevano ancora le classi pericolose. Col tempo però la nozione di delitto politico finì di fatto per essere estesa anche alla conflittualità politica e sociale, alla dialettica antagonista tra Stato liberale e movimento operaio.

L'immunità concessa da un paese, un impero, un regno era sempre esistita come un corollario della sovranità (il nemico del mio nemico era mio amico, in ogni caso era mio interesse tutelarne l'incolumità e offrirgli protezione. Dante, Leonardo, Machiavelli, Hobbes, Foscolo, Hugo.... hanno dovuto trovare rifugio nel corso della loro vita). Mancava però un edificio giuridico che ne regolasse e ne giustificasse i fondamenti. Esso si sviluppa con il moltiplicarsi degli Stati nazionali, lo svilupparsi delle relazioni diplomatiche e la nascita d'uno spazio interstatale che dà luogo a regolazioni giuridiche internazionali. L'infrazione politica, forma di illegalità positiva, è partecipe di quello jus publicum europeum che regola prima il conflitto sovranazionale tra borghesie e ceti nobili e poi tra borghesie stesse.

Le successive vicissitudini dei singoli Stati, a seconda delle fasi di conflittualità interna ed esterna, hanno condotto gli ordinamenti giuridici nazionali a recepire in modo alterno la nozione di politicità:

- Da parte degli ordinamenti democratico-liberali vi è stato un tradizionale atteggiamento di misconoscimento della politicità e conseguente sua ipercriminalizzazione (vedi le leggi antianarchiche di fine Ottocento con la creazione in Francia del reato d'association de malfaiteurs). Memori dell'alone positivo che aveva accompagnato i momenti illegali delle lotte politiche liberali, i "liberali" - una volta pervenuti a controllare l'ideologia dominante e divenuti interpreti del potere costituito - hanno preferito ricorrere all'espediente della depoliticizzazione dei comportamenti politici per delegittimare e sanzionare il nemico interno;

- Gli ordinamenti a carattere autoritario hanno optato per il riconoscimento chiaro e l'ipersanzione esplicita della natura politica, intesa come inimicizia, del nemico interno.

L'attuale processo di giudiziarizzazione estrema, unito alla guerra-mondo, sta invertendo la rotta che negli ultimi decenni aveva condotto ad una progressiva depoliticizzazione dei reati, e al contrario s'accresce la loro etichettatura politica negativa attraverso l'impiego pervasivo della stigmate terrorista. Una tendenza che rinvia alla predominanza della categoria dell'inimicus su quella dell'hostis, già osservata da alcune scuole di pensiero attente al fenomeno della criminalizzazione dell'avversario politico.

In questo nuovo contesto di rinnovata guerra civile mondiale, vari fenomeni subiscono rapide accelerazioni, mutamenti d'intensità e bruschi cambiamenti. Per esempio, la progressiva sterilizzazione dell'istituto della estradizione in corso da anni, non è più sufficiente. Occorre oramai la sua definitiva abolizione in larghe zone continentali.

I moti di Genova

Molti hanno salutato le giornate di Genova come il momento del grande ritorno del protagonismo delle masse. La vista di diverse centinaia di migliaia di persone ha certamente entusiasmato chi vi era confuso, ha probabilmente intimorito le schiere della destra, ha senza dubbio impressionato all'estero, dove le mobilitazioni "antiglobal" non avevano mai raggiunto una tale soglia numerica.

Chi conosce l'Italia, però, è molto meno suggestionabile. Per fortuna, quale che siano stati i diversi fattori che sovente vengono enumerati per indicare la mutazione del politico: crisi delle forme della militanza tradizionale; sfarinamento degli imponenti apparati burocratici di massa (sindacati e partiti di sinistra); mutazione delle forme produttive (fordismo) che facilitavano il raggruppamento e la visibilità d'importanti componenti della forza-lavoro; recupero di forme di notabilato nella politica; crisi del clientelismo politico mediterraneo e ritorno in auge di forme clientelari di stampo anglosassone improntate al modello dei "comitati elettorali": altrimenti detto il partito leggero e flessibile, i cui veri militanti non siedono più nelle sezioni ma nelle redazioni che contano, nei salotti buoni dell'alta società civile, della finanza, dell'industria e della tecnostruttura; il ruolo decisivo assunto dai media e in particolare dalla televisione; tutto ciò non ha impedito periodici bagni di folla nelle piazze italiane. Sinistra e destra hanno ripetutamente mostrato nell'ultimo decennio di saper e poter mobilitare anche se in misura diversa. Circostanza che ha trovato conferma anche nelle mobilitazioni contrapposte del 10 novembre 2001, al di là della diversa forza numerica messa in piazza e tradizionalmente favorevole alla sinistra. Semmai il dato nuovo emerso in questa ultima giornata è stata la scomparsa della "sinistra politica" istituzionale. In piazza si sono confrontati la destra politica (moderata, nazionale ed etnica), contro la sinistra sociale.

Chi c'era a Genova?

Sarebbe ora di rispondere a questo interrogativo rinunciando alla retorica autocelebrativa largamente profusa nelle settimane e mesi successivi a quell'evento. Scarsi sono stati i contributi seri all'analisi della composizione sociale del movimento sceso nelle strade della città ligure. L'analisi della composizione sociale offre una chiave di lettura utile per la comprensione della natura, dell'identità e delle potenzialità, di questa nuova forma di protagonismo sociale. Senza alcuna pretesa di esaustività, e comunque per difetto, si possono avanzare alcune prime sommarie rilevazioni:

_ le realtà dell'associazionismo e del volontariato, il variegato mondo delle ONG (fatte tutte le debite differenze di peso, dimensione e ruolo che esistono tra esse). È il caso di ricordare che tra le oltre ventimila ONG recensite, esistono vere e proprie strutture paragovernative che di fatto svolgono un'attività collaterale all'azione dei governi e degli Stati, sorta di diplomazia parallela. Sia detto per inciso, "Non governamentale" non è di per sé sinonimo di indipendenza, autonomia e neutralità;

cattolici e cristiani, i quali costituiscono una delle componenti sociali più numerose grazie al loro intenso tessuto d'associazioni di volontariato e ONG che copre geograficamente e tematicamente il territorio nazionale e può appoggiarsi alla tradizionale e solida presenza missionaria nei paesi del terzo mondo;

_ la realtà del sindacalismo di base (Cobas, Cub, Rsb, Rsu... settori della sinistra Cgil) che raccoglie molti militanti della estrema sinistra antagonista degli anni 70;

_ l'area dei centri sociali, il che non vuol dire molto viste le innumerevoli differenze e divisioni. Non solo, ma sovente i militanti di questi centri sociali o alcuni centri sociali stessi fanno parte o animano ONG e gruppi di volontariato. Nel qual caso le due realtà si sovrappongono e s'intrecciano. Vi sono poi centri sociali più ideologici che rinviano a schieramenti o categorie politiche nate con l'estrema sinistra degli anni 70 (neo-emmelle; post-operaisti...) o alla rivisitazione di tradizioni ideologiche storiche come i gruppi neoanarchici, o ancora realtà difficilmente catalogabili in modo preciso. La cultura ideologica e politica di questo variegato mondo non si nutre più di referenti teorici forti e coerenti. La contaminazione, e il più delle volte la confusione, riassume il bagaglio culturale di molti "militanti". Lo stesso termine di militante risulta improprio per definire un impegno che a volte si limita alla semplice frequentazione di luoghi, condivisione di spazi di socialità, musica, momenti di festa e discussione, attività non per forza politiche, ma solo genericamente sociali. Un'analisi ancora più dettagliata ci condurrebbe lontano dall'oggetto di questo testo. Anche se sinteticamente va quanto meno ricordato che la forma "centro sociale" è nata agli inizi degli anni 80, soppiantando i vecchi moduli organizzativi dell'estrema sinistra e della sinistra rivoluzionaria degli anni 70, ovvero la micro-forma partito o, in ogni caso, la presenza di un corpo nazionale, centralizzato e organizzato, nei limiti delle forze disponibili, su tutto il territorio, in ogni caso sull'area geografica o cittadina raggiungibile, attorno ad una teoria più o meno compiuta ed un progetto politico definito. I primi centri sociali, al contrario, si sono formati sulla base di pratiche locali, di quartiere, sintetizzando affinità e interessi comuni che spesso esulavano dal "politico" tradizionale. Musica, socialità, cultura alternativa, erano gli elementi trainanti di queste nuove aggregazioni giovanili (l'esperienza del Forte Prenestino a Roma è emblematica, mentre il Leoncavallo di Milano costituisce un esempio di sopravvivenza e di travaso della tradizione "creativa" già presente negli anni 70). Successivamente, le aree residuali dell'autonomia, scampate alla repressione dell'emergenza, si sono riciclate "sciogliendosi nel sociale". Dai vecchi comitati politici territoriali sono nati i primi centri sociali. Un caso tipico è stato quello della organizzazione cittadina dei Volsci romani, ma ancora più saliente è l'esperienza dei collettivi politici veneti, i quali di fatto hanno dissimulato la loro originaria struttura partitica estremamente centralizzata e burocratica sotto le mentite spoglie della forma "centri sociali del Nord-Est". Nel corso dei due decenni successivi molti di questi originari centri sociali si sono estinti. Al loro posto ne sono sorti dei nuovi creati da generazioni che non hanno conosciuto le forme di organizzazione politica precedenti.

_ Rifondazione comunista era presente in quanto partito. Questa presenza analizzata però sul piano sociologico conduce ad una ripartizione dei suoi militanti tra le diverse componenti prima indicate, in modo particolare le organizzazioni sindacali di base, la sinistra Cgil, ma anche il volontariato e settori dei centri sociali;

Anche se socialmente insignificante, va segnalata la presenza politica dei Verdi e di alcuni esponenti della sinistra DS. Probabilmente una parte dell'elettorato democratico di sinistra era presente sotto l'egida dell'associazionismo e del volontariato.

Importante soprattutto nella manifestazione del giovedi 18 luglio, la presenza di numerose delegazioni e gruppi d'organizzazioni rappresentative degli immigrati.

Settori dell'autoimprenditorialità e dell'economia solidale, organizzati in prevalenza sotto forma di ONG, presenti anche in diversi ambienti dei centri sociali. Questa realtà economica costituisce oramai un vero e proprio ceto sociale emergente, con una sua plusvalenza, una sua burocrazia, interessi, capitale economico e simbolico nonché culturale. Per altro si tratta del ceto sociale più mondializzato per collocazione e interessi e che per questo esprime uno dei fenomeni più nuovi della globalizzazione. Imprenditori economici a tutti gli effetti, gli attori di questo settore sostengono il carattere morale del loro commercio sulla base di una economia etica basata su valori d'equità, rispetto, sviluppo sostenibile, nel tentativo di percorrere strade alternative che, sulla base della reciproca utilità, forniscano sbocchi alle attività produttive, artigianali e agricole, dei paesi in via di sviluppo, sottoposte alla scelta tra la sottomissione al monopolio delle multinazionali o la rovina delle proprie attività. Queste imprese d'economia solidale hanno una forte capacità di produzione simbolica; in effetti, accanto all'import-export di prodotti, veicolano e diffondono "senso", ideologia. Il loro approccio etico alle questioni poste dalla globalizzazione è condiviso da larghi strati del movimento noglobal. La natura economica di queste realtà, la loro collocazione all'interno del ciclo capitalistico, ne fa un soggetto emergente della nuova imprenditoria e del mercato mondializzato: per questo resta assai difficile coglierne la pertinenza anticapitalista.

Pacifisti, pacificati e pacificatori: nonviolenza e legalitarismo

Si è parlato e straparlato a lungo, prima, durante e dopo Genova, di violenti e nonviolenza. Innanzitutto la questione viene sempre dibattuta in modo univoco. La non-violenza è agitata, in direzione di chi si solleva di fronte al potere, mai mettendo in questione il potere stesso. La "non-violenza" è proposta sempre come pratica unilaterale; essa deve riguardare solo quelli che si pongono di fronte ai poteri costituiti, mai i poteri stessi. Ma i poteri costituiti, altrimenti detto lo Stato, sono nati attraverso un processo di accumulo dei monopoli: la fiscalità, la moneta e la forza. La macchina statale è per definizione il luogo di massima concentrazione della forza, è l'istituto che si distingue da una banda qualsiasi perché può esercitarla in modo legittimo, ovvero attraverso la regola dell'autolimitazione. Di fronte alla critica nonviolenta, il potere statale è di per sé privo di legittimità perché intimamente violento e perché espressione della violenza dei forti.

Ma per i non-violenti italiani questa lezione non vale. Strano modo di rovesciare il segno di quella che pure è nata come forma radicalissima di lotta. Da momento di delegittimazione etica dei poteri costituiti, dei detentori del monopolio della forza legittima ("coercizione", indicano con un eufemismo i manuali di diritto), viene fatta diventare strumento di selezione, delegittimazione e criminalizzazione di coloro che si ribellano contro i poteri costituiti. Vittorio Agnoletto, uno dei prendiparola più solerti e sponzorizzati da alcuni poteri mediatici forti, è uno dei maggiori campioni della caccia al diverso, al dissidente, in nome di quella che potremmo definire chiaramente come una forma di non-violenza autoritaria e ultraistituzionalizzata. Si è detto: "se pratichi la violenza, contro beni o contro terzi, mi fai violenza", ma una volta accettata, la stessa logica vale anche all'inverso "se mi imponi la tua non-violenza, mi fai violenza". Non credo che se ne esca, salvo un'accettazione reciproca di principio, che riconosca la pari legittimità delle due ipotesi e accetti il confronto, la sfida, sul terreno della competizione e persuasione degli argomenti e dell'azione. Unico luogo di verifica che può attribuire l'egemonia. Ma ai sacerdoti della non-violenza nostrana ed ai loro prendiparola piace la scomunica e la ricerca del capro espiatorio più che il confronto. Aspiranti cardinali, Agnoletto ed altri, cercano legittimazione dalle istituzioni, ovvero dai titolari del monopolio della violenza legittima, e tra alcuni poteri forti presenti nei media. La non-violenza, come l'infamia (vedi la polemica sugli "infiltrati") risultano solo pretestuosi argomenti d'agitazione impiegati in modo demagogico e fazioso per tentare di liquidare degli scomodi rivali politici. Storicamente i movimenti sociali sono sempre stati il prodotto d'una convivenza forzata, d'interesse o d'amore, tra queste due anime, tra queste due pratiche. A seconda delle circostanze l'una è prevalsa sull'altra. Movimento di massa e forza d'urto; minaccia del numero e violenza dell'atto; forza delle ragioni e ragioni della forza; spessore, imponenza, solidità e agilità, visibilità, incisività; guerra di posizione e guerra di movimento.

In Italia, con un malizioso malinteso, viene chiamata non-violenza un tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto e sulle ceneri della violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70 e sull'accettazione della legalità, altrimenti detta l'esercizio del "monopolio legittimo della forza" da parte dello Stato. In questo caso siamo di fronte al vero e proprio stupro semantico d'un termine e di una pratica che ha ben altra storia e ben altre pretese, e che da sempre è nemica dello Stato e della sua legalità.

Viene definita non-violenza la semplice acquiescenza all'ordine costituito, il che vuol dire piuttosto sottomissione o comunque subalternità, domesticazione nei confronti di chi esercita il monopolio legale della forza.

Il primo requisito della nonviolenza è infatti la violazione della legalità attraverso forme di "disobbedienza civile" e non certo l'eticizzazione forzosa dell'accettazione del monopolio statale della forza legittima. Un'altra delle sue caratteristiche peculiari riguarda la sua natura " extra-democratica". La nonviolenza è al di fuori della logica inevitabilmente numerica delle molte accezioni del termine democrazia. Sovente la sua pratica investe esigue minoranze, quando non singoli. È una demagogia del corpo, esercitata da pochi verso molti, una sorta di parossismo della responsabilità personale.

Un altro equivoco largamente diffuso nasce dal fatto che un semplice cambiamento di segno e di direzione della violenza, non più offensiva o difensiva ma autoaggresiva, trasformi, per esempio, lo sciopero della fame in una pratica nonviolenta. Mettere in gioco il catabolismo del proprio corpo è, in realtà, violenza inaudita.

Mestre va al Pentagono: il mito del conflitto sociale a costo zero

La nonviolenza c'entra poco anche con le "guerriglie comunicative", lo spostamento della guerra su forme e oggetti transizionali che la mimino in modo incruento, a bassa intensità. La novità introdotta dalle Tute bianche non viene, come da più parti è stato detto, dalla loro scoperta della comunicazione. Saper comunicare era già stato un assillo di molti gruppi e movimenti, combattenti e non, negli anni 70. L'effetto cassa di risonanza, le strategie e la volontà di usare i media e non farsi usare, risale a quegli anni e fu molte volte un successo, altre un boomerang. Quello che non si capì per tempo fu quando i media smisero di fare da cassa di risonanza e cominciarono a suonare la gran cassa dell'emergenza, degli allarmi sociali a ripetizione che utilizzavano fantasmi e paure, ingenerando angosce e ansie artificiali, divenute il fondo di commercio del mercato politico. Semmai la differenza sta nel fatto che oggi la comunicazione è ricercata come una supplenza vitale al vuoto di contenuto. Si punta sul moltiplicatore mediatico per colmare la debolezza delle mobilitazioni. In passato la posta in gioco dell'informazione era successiva all'azione, riguardava il racconto, il senso da dare all'evento accaduto; oggi più spesso la comunicazione serve a creare l'evento fino a sostituirlo completamente.

L'originalità delle Tute bianche sta innanzitutto nel quesito iniziale a cui esse hanno poi dato successivamente una risposta censurabile. Ma la domanda era giusta: come rilanciare il conflitto, in un contesto che vede la nozione d'antagonismo delegittimata e criminalizzata? Come ripercorrere forme di lotta di classe percotanti, efficaci, rompendo l'accerchiamento, sfidando il disarmo ideologico che è seguito alla fine degli anni 70? Come tornare a fare lotte sociali e lotta di classe in modo trainante e vincente senza pagare lo scotto degli anni 70?

In primo luogo alcuni centri sociali sono diventate le Tute Bianche, ovvero hanno giocato sulla visibilità; ricorrendo ad alcune categorie d'analisi della composizione sociale postfordista, hanno voluto dare visibilità politica alla invisibilità sociale di settori del proletariato interinale. Ma soprattutto, mutuando una teoria che ricorda la strategia impiegata dal Pentagono durante la guerra del Golfo, le Tute bianche hanno elaborato una sorta di strategia della lotta di classe senza perdite, al minor costo sociale. Ciò nasce probabilmente dal loro bilancio degli anni 70 e dal tentativo di ricollocare una pratica conflittuale all'interno della realtà italiana della fine degli anni 80, dove il conflitto era largamente delegittimato, immediatamente criminalizzato e sanzionato. Ad essa si aggiunge una trasposizione quanto mai artificiale della guerra a bassa intensità e alto valore comunicativo portata avanti dagli zapatisti in Chiapas.

Ha preso piede così il ricorso a pratiche mimetiche, a forme di camuffamento politico, che hanno dato luogo ad una vasta panoplia di doppiezze che avrebbero fatto impallidire persino il Migliore: tra queste la non-violenza simulata, strategia escogitata pensando di potersi avvalere del carattere simbolico leggittimante dell'espressione "non violenza". In realtà, non di nonviolenza era questione ma di scontro di piazza a bassa intensità e ad alta conflittualità comunicativa.

L'antagonismo mediatico è caduto o voluto finire nella mascherata pattuita, nel gioco delle parti, nello spettacolo sociale dei falsi scontri e degli effetti d'annuncio. A forza di voler spettacolizzare per elevare il grado di simbolicità e ridurre il rischio di costi eccessivi in termini repressivi, le Tute bianche sono state assorbite completamente dalla spirale della rappresentazione spettacolare, confondendo realtà e finzione, col risultato d'annullare ogni reale consistenza sociale. Ha funzionato col centrosinistra grazie alle mediazioni e alle connivenze. Non funziona più con la destra che manda i carabinieri, i quali riconducendo di colpo lo spettacolo alla realtà alzano il prezzo facendo ridiventare il conto salato. Nello scenario di Genova questa strategia è stata devastante.

Nonviolenza simulata e mitopoiesis: una cattiva filosofia

"Sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona rossa.

La verità però è che sono stati i carabinieri a far saltare tutto"

Luca Casarini, Il Nuovo, 27 agosto 2001

Pedagogia del conflitto o semplice arguzia opportunistica? Forse entrambe. Certo la mitopoiesis e la non-violenza simulata, le carnevalate concordate con le forze dell'ordine per inscenare teatrali quanto fittizî momenti di scontro ad uso e consumo delle videocamere televisive13, hanno costituito una pessima risposta ad una buona domanda. Finché il centrosinistra è stato al governo importanti margini di negoziazione hanno garantito la sopravvivenza puramente estetica di questa "guerriglia comunicativa", ma a partire da Napoli, nel marzo 2001, quando era ancora in piedi il governo Amato, gli spazî si sono chiusi e a Genova è venuta brutale la conferma della svolta. Lo scimmiottamento della dichiarazione di guerra fatta dagli zapatisti, ricopiata parola per parola, immagine per immagine, avrebbe potuto farci sorridere di fronte a tanta ingenuità politica, se non fosse che sull'asfalto c'è rimasto Carlo, e che biecamente si è alimentata una campagna di linciaggio contro una componente del movimento. Polemica tanto più sterile, pretestuosa e mistificatoria, quanto più gli scontri hanno visto protagoniste migliaia di persone, la cui maggioranza era raccolta dietro il corteo dei disubbidienti e non tra le fila del Black bloc.

Note
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1. 'L'esprit du terrorsime', in Le Monde del 3 novembre 2001.
2. 'Le krach de la net-strategie', in L'Humanité dell'11 Octobre 2001.
3. Tesi rilanciata in un articolo dal titolo 'La seule réponse au terrorisme', in Le Monde del 10 ottobre 2001. In particolare il giudice interplanetario Gazon chiede: la fine del principio della doppia incriminazione; la creazione di uno spazio giudiziario universale, il che suppone necessariamente la ratificazione della corte penale internazionale e la qualificazione dell'infrazione di terrorismo come crimine contro l'umanità, perseguibile così sulla base del principio di giustizia penale universale ispirato alla nozione di jus cogens (diritto imperativo) che introduce la successiva norma sulla 'competenza universale', inteso come fonte superiore ad ogni norma, internazionale e nazionale; la scomparsa dell'estradizione rimpiazzata con la semplice consegna dei responsabili (non si fa nemmeno ricorso all'eufemismo 'inquisiti' o eventualmente 'condannati'); la creazione di una autentica comunità dei servizi d'informazione e sicurezza; la creazione di un osservatorio internazionale sul terrorismo.
4. Baudrillard, in Le Monde del 3 novembre 2001.
5. In modo particolare gli Stati Uniti hanno varato una nuova disciplina giudiziaria che consente la detenzione preventiva, senza limiti di tempo, di qualsiasi straniero sospettato. Hanno introdotto una nuova legge che dilata i poteri della polizia nei confronti di presunte associazioni terroristiche e attribuisce all'Fbi un potere illimitato di perquisizione segreta di uffici e di abitazioni private.
6. COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Proposta di DECISIONE QUADRO DEL CONSIGLIO relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, Bruxelles 19.9.2001.
7. COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Proposta di DECISIONE QUADRO DEL CONSIGLIO sulla lotta contro il terrorismo, Bruxelles 19.9.2001.
8. Cf. Proposta di DECISIONE QUADRO DEL CONSIGLIO sulla lotta contro il terrorismo, Esposizione dei motivi, punto 6, Bruxelles 19.9.2001.
9. Le prime misure in materia di lotta contro il terrorismo sono state prese sotto gli auspici delle Nazioni Unite, tra cui la convenzione relativa alle infrazioni e ad atti commessi a bordo di aereonavi (Tokio, 14 settembre 1963). In seguito sono stati adottati le convenzioni e i protocolli seguenti:
a) la convenzione per la repressione della cattura illecita di aereonavi [convenzione sul dirottamento degli aerei] (La Haye, 16 dicembre 1970);
b) la convenzione per la repressione d'atti illeciti diretti contro la sicurezza dell'aviazione civile (Montréal, 23 settembre1971);
c) la convenzione sulla prevenzione e la repressione delle infrazioni contro le persone che usufruiscono d'una protezione internazionale, compresi gli agenti diplomatici (New-York, 14 dicembre 1973);
d) la convenzione internazionale contro la presa d'ostaggi (New-York, 17 dicembre 1979);
e) la convenzione sulla protezione delle materie nucleari (Vienna, 3 marzo 1980);
f) il protocollo per la repressione degli atti di violenza illeciti negli aereoporti utilizzati dall'aviazione internazionale oltre alla convenzione per la repressione d'atti illeciti diretti contro la sicurezza dell'aviazione civile (Montréal, 24 febbraio 1988);
g) la convenzione per la repressione d'atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima (Roma, 10 marzo 1988);
h) il protocollo per la repressione d'atti illecciti contro la sicurezza delle piattaforme fisse situate sul continente (Roma, 10 marzo 1988);
i) la convenzione internazionale per la repressione degli atttentati terroristi ell'esplosivo (New-York, 15 dicembre 1997);
j) la convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo (New-York, 9 dicembre 1999).
Tuttavia, per quanto concerne le convenzioni internazionali in vigore, lo sforzo più significativo nella lottan contro il terrorismo è stato compiuto con la convenzione europea per la repressione del terrorismo (Strasburgo, 27 gennaio 1977) sotto il mandato del Consiglio de l'Europa.
10.Terrorism Act 2000: http://www.uklegislation.hmso.gov.uk/acts/acts2000/.
11. Jean Quatremer, 'Plus d'Europe ne tuera pas la justice', Libération du 4 octobre 2001.
12. Robert Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, New York, 1974.
13. ' Dal 1989, in Italia, non viene lanciata una bottiglia Molotov (se non da bande del tifo organizzato). E da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza (o quasi): in ogni caso, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni '70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performances belliche - grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva - sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato escl

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