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terremoto: Il sisma ha reciso i fiori più belli
by imc molise Sunday, Nov. 03, 2002 at 4:00 PM mail:

questo pezzo é apparso oggi su "liberazione"

Il sisma ha reciso i fiori più belli

San Giuliano di Puglia - nostro inviato speciale
Una strada lunga, tortuosa, a tratti soverchiata dalla nebbia, infine abbagliata da un sole strano, tanto caldo quanto surreale: come può spuntare il sole su questi borghi spaventati e quasi immobili, su queste genti della campagna e della montagna che ancora trattengono il fiato e si guardano attorno, su questa terra tremata e tramortita?

Questa è l'antica Daunia, una teoria di curve e di picchi dolci e verdeggianti, un rilievo lungo e gonfio che ti culla e ti sbalza come una giostra profumata di olive e ginestre, un raccordo zigzagante ma corposo che annoda i confini fluttuanti di Puglia e Molise: è la strada che sgrana la paura e avvicina al punto estremo del dolore: in auto, in su e in già, avanti e indietro, è una specie di zoom, cantilenante e funereo, che passa in rassegna gli otto municipi del foggiano atterriti e lesionati dal terremoto e poi ti precipita lì, lì dove non vorresti vedere e sentire, lì dove non vorresti neppure arrivare, nell'epicentro del caos e della morte. Non sono montagne russe ma alture appenniniche, una dorsale disseminata di campanili medievali e di micro-comuni che lottano per resistere allo spopolamento, suggestivi e appartati, macchie di vita associata e di memoria storica sperdute in orizzonti sconfinati di luce e di silenzio.

Ora la Capitanata è alle nostre spalle, e sembrano facezie le lesioni e i danni di Carlantino, di Celenza Valfortore, di Casalnuovo Monterotaro, di San Paolo Civitate e persino di Lucera e San Severo: eppure sono paesi feriti, con centinaia di sfollati, con cedimenti preoccupanti e strappi feroci all'architettura delle chiese e all'intera struttura urbana. Ma sembrano facezie anche le mille peripezie vissute da ben diciotto comuni della provincia di Campobasso: ammaccature, smagliature, un campanile sfondato, una tettoia crollata, calcinacci qua e là, e certo tanta tanta paura. Ma il sisma, quello vero, quello che è passato come un tornado, quello che ha reciso i fiori più belli - e come sono paradossali quelle fioriere di gerani appese alle finestre - è stato qui, a San Giuliano di Puglia, neanche millecinquecento anime, un centro storico del XVI secolo e tutt'attorno palazzine moderne e decorose poggiate su una duna di terra e di roccia: qui al centro di tutto, nel luogo dove studiavano e giocavano tutti i bimbi di questo spigolo molisano, è stata la fine del mondo.


Il paese è svuotato, disanimato, spento, come fulminato, gli usci ancora schiusi, dappertutto i panni stesi ai balconi, si cammina al centro della strada perché le scosse forse di assestamento si susseguono a ripetizione, il tabaccaio e il bar serrati in fretta e furia, tutto è fermo come in un limbo, tutto sembra segnato dall'orologio del campanile che segna - per ora e per sempre - le 11,34, anche i militari che cingono d'assedio (un assedio protettivo) il borgo sembrano camminare a passi felpati, i carabinieri parlano con delicatezza, nessuno alza la voce, ogni tanto qualcuno ha il permesso di entrare nella sua ex casa a prendere fagotti della propria ex vita, un cagnolino è accucciato sotto una villetta tutta ornata di cicatrici, ogni tanto un vecchietto protesta piano perché vuol tornare dove abitava anche solo per guardare, "non entro, non vi preoccupate, voglio solo vedere il mio portone".

Ecco un minuscolo edificio che s'è schiantato uccidendo una donna, ecco il vicolo dove le macerie hanno bombardato una Fiat Uno da cui miracolosamente sono uscite vive una madre e una figlia, un nastro bianco e rosso di plastica delimita quasi tutto l'abitato con foglietti scritti col pennarello "ordine di sgombero", anche noi attraversiamo la città-fantasma in punta di piedi: come per non disturbare l'intimità di una tragedia che ti entra nelle narici come il pulviscolo dei calcinacci che continuano a piovere dai tetti. Ecco un assessore, ecco il vice sindaco, parlano una lingua stranita, come fossero un commento fuori campo, un coro greco, ripetono con quieta ossessione la cronaca di quel buco nero che ha inghiottito un'intera generazione, il gran botto che ha ucciso tutti i bimbi nati nel 1996, tredici maschietti e tredici femminucce che erano la traccia palpabile di una comunità futura. Non ci sono più, non ci sono più.

Ed eccola la scuola maledetta, la "Francesco Iovine", schizzata in un ammasso di pietre e tegole e polvere e legni e ferraglia, ecco le piccole sedie e i banchi affogati tra le macerie, se ti metti a spiare in quello sconquasso di poltiglia grigia puoi scorgere tracce di quella infanzia vociante e allegra, di quella prima elementare piegata in un mattino di inizio novembre, di quella aula pullulante che si è capovolta fino a diventare una tomba corale. E dietro il muro scolastico, ordinati uno accanto all'altro, ci sono gli zainetti colorati e accanto le pile dei libri ormai orfani: erano il repertorio del mondo che entra negli occhi di un bimbo e di una bimba di sei anni, sono nient'altro che il catalogo di uno strazio che nessun racconto può raccontare.


Lo strazio, precluso all'occhio vorace delle telecamere e dei teleobiettivi, è come un fiume straripante che scorre nel Palazzetto dello sport. Non avevo mai visto, in tutta la mia vita, una cosa così triste. Ventinove bare, due grandi e marroni e le altre tutte piccine e bianche, ognuna circondata, abbracciata, assediata, soffocata dai volti, dalle mani, dalle lacrime di interi nuclei famigliari. La palestra è la cassa armonica di una disperazione soffusa, solo a tratti squarciata da un urlo che pare una filastrocca, "angelo mio, angelo mio", "bella di mamma, la mia bimba", sulle bare le foto della felicità e i giocattoli, orsacchiotti e bambole, e la vertigine dei sentimenti che inghiotte tutti, la pazzia, la nostalgia, l'asprezza inconsolabile di sentirsi sopravvissuti. Eppure fuori c'è un sole pieno e caldo, è questo sole che avvampa il rettangolo bianco di una camera ardente impossibile.

Eccoli qua i simboli capovolti: una scuola, un palazzetto dello sport, le strutture pubbliche della socialità minorile trasformate in camposanto e obitorio. Ed è nel campo sportivo, a meno di un chilometro dall'abitato, che alloggiano gli sfollati nella loro città artificiale, una tendopoli dove si ripetono le storie dei bimbi e si misura per intero l'incubo dell'esodo, di quello sradicamento che per i più vecchi è un supplemento di pena e persino un oltraggio. Qui, seduta con altre donne, c'è la maestra che aveva saltato il suo giorno lavorativo, si sente in colpa di essere quassù mentre i suoi scolari sono laggiù, laggiù avrà freddo la bimba a cui aveva regalato un gattino, la bimba felice del suo gattino, siamo andati a prenderlo quel gattino: è una donna colta, coraggiosa, ma sembra spezzarsi mentre si stringe alla coperta e le si riga il volto di pianto.

Questa mattina tutti saluteranno per l'ultima volta la classe 1996, poi le troupe e i cronisti ripiegheranno i propri attrezzi e torneranno a casa. Si spegneranno i riflettori su San Giuliano di Puglia, forse ci abitueremo a dimenticare questo nome come abbiamo dimenticato Sarno o Soverato. Forse ci sarà lo scandalo consueto dei ritardi e degli intoppi nell'opera di ricostruzione. Probabilmente in queste tende, gli ex abitanti di un villaggio cancellato, passeranno il gelido e nevoso inverno appenninico. Forse la magistratura archivierà la sua inchiesta. Forse non si dirà più dell'urgenza di curare un territorio fragile e malato. Forse questi bimbi, che una lotteria bizzarra ha estratto alla sorte cattiva di un terremoto, saranno morti invano. Forse. Certo noi non dimenticheremo. Fin dall'inizio della tragedia i compagni molisani, quelli di Rifondazione e del Social Forum, si sono mobilitati ad organizzare la solidarietà: i nostri circoli a raccogliere l'acqua e il pane, i ragazzi a fare la spola tra i paesi e le tendopoli. Ma l'impegno, la sfida più difficile comincia domani, quando calerà il consueto oblio informativo e istituzionale. Oggi piangiamo anche noi questo petalo di infanzia del Sud. Ma domani torneremo qui, a ricordare a noi stessi che la politica non è niente, niente che valga qualcosa, se non sa condividere questo dolore popolare e se non sa interrogarne il senso e la causa profonda.

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NON DIMENTICHIAMO Lilith Saturday, Nov. 16, 2002 at 8:46 PM
bambini ax Sunday, Nov. 03, 2002 at 4:57 PM
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