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Come l'esercito israeliano ha preparato l'Intifada
by carlo Saturday, Nov. 23, 2002 at 12:14 PM mail:

Logiche di guerra

Quattordici morti e cento feriti: questo il pesante bilancio del- l'ultima «esecuzione mirata» realizzata dall'esercito israeliano nella striscia di Gaza lo scorso 6 ottobre. Questi episodi, sempre più frequenti, sembrano far parte di una strategia ben definita, che mira a esacerbare gli animi, rinfocolare gli attacchi suicidi palestinesi e isolare politicamente Yasser Arafat. A due anni dallo scoppio dell'Intifada, la situazione in Palestina è più che mai arenata in un tragico stallo. Eppure, diversi elementi sembrano indicare che, lungi dall'esser stati colti di sorpresa, gli alti comandi dell'esercito israeliano hanno deliberatamente provocato l'Intifada, per poter cancellare gli accordi di Oslo.

Marius Schattner
«Alta marea, bassa marea», il nome in codice dato all'Intifada dal suo inizio nel settembre 2000 rende bene l'idea che ha dello scontro l'esercito israeliano: un fenomeno naturale, ineluttabile, senza alcun rapporto di causa-effetto con l'azione del governo, e anche l'idea che l'ondata di violenze alla fine si esaurirà contro la forza di resistenza dell'esercito. Basta tener duro fino al riflusso, fino al giorno in cui l'avversario «avrà perso la speranza di strappare concessioni con la forza», secondo una delle espressioni favorite dei responsabili israeliani. Questa onda lunga il comando militare sostiene di averla vista arrivare da lontano. «Le informazioni raccolte e i preparativi effettuati nel quartier generale hanno permesso di non farsi cogliere di sorpresa dal conflitto armato scatenato dai palestinesi», assicura nel dicembre 2001 il generale Moshe Yaalon, allora vicecapo di stato maggiore (1). Inoltre il servizio di intelligence militare (Aman), da lui diretto nel 1995, avrebbe avvertito il primo ministro Itzhak Rabin che, in violazione degli accordi di Oslo, l'Autorità palestinese non faceva nulla per impedire gli attentati, anche se «ne conosceva gli autori, sapeva dov'erano nascosti i depositi di armi ed era consapevole del peso della minaccia terrorista». In altri termini, l'intelligence dell'esercito ha previsto il fallimento del processo di pace con cinque anni di anticipo (2).
Queste dichiarazioni autoelogiative non vanno prese per oro colato.
In realtà, nell'estate del 1995 l'intelligence militare non rilevava «nessun indizio che consentisse di affermare che Yasser Arafat non fosse impegnato dall'accordo [di Oslo] e dal processo di pace». Piuttosto, secondo le migliori tradizioni dei servizi di intelligence, sembra che Aman abbia previsto i diversi scenari possibili, facendo sentire al potere quel che desiderava sentirsi dire (3). Effettivamente, comunque, alcuni alti ufficiali hanno suonato l'allarme con largo anticipo. Non sorprende che siano quegli stessi ufficiali che avevano accolto con la massima ostilità gli accordi di Oslo del 1993 con i palestinesi. Tutti costoro hanno visto nel proseguire degli attentati dopo il 1993 la prova della duplicità di un Arafat che aspirerebbe sempre a distruggere Israele poco alla volta, e questo perfino quando gli attacchi erano perpetrati esclusivamente dai gruppi islamisti di opposizione.
Il loro scenario catastrofista si realizza il 29 settembre 2000, quando scoppia l'Intifada, all'indomani della visita del leader dell'opposizione di destra dell'epoca, Ariel Sharon, sulla Spianata delle moschee (Monte del tempio). Già da tempo in stato di allerta, l'esercito è pronto ad affrontare gli eventi. Talmente pronto, che Arafat accuserà il capo di stato maggiore Shaul Mofaz e il primo ministro laburista Ehud Barak di aver predisposto una enorme provocazione, con la complicità di Sharon, per farla finita con un'Autorità palestinese di cui la destra e una parte dell'esercito non avevano mai accettato la legittimità.
In realtà, se non esiste alcuna prova che lo stato maggiore abbia deliberatamente spinto i palestinesi a uno scontro frontale, è lecito porsi alcune domande: ha fatto tutto il possibile per evitarlo? E, una volta scoppiato l'incendio, ha fatto tutto il possibile per circoscriverlo, o invece ha gettato olio sul fuoco? Non ha visto nella prova di forza l'occasione agognata di spazzar via l'Autorità palestinese, forzando la mano a un governo laburista ancora impegnato (fino al dicembre 2000-gennaio 2001) in un estremo tentativo di raggiungere un accordo con Arafat? È quanto lascia intuire l'ex capo di gabinetto di Barak, l'avvocato Gilead Sheer, uno dei protagonisti dei negoziati con i palestinesi.
«Uno dei concetti dominanti all'interno dell'esercito era la profezia di sventura destinata a realizzarsi: lo scontro era ormai ineluttabile, poiché i palestinesi bluffavano o mentivano spudoratamente, e vi si preparavano con le armi in pugno», scrive nel suo libro sulle trattative di pace. Secondo lui, gli ordini dati dal potere civile di ridurre la tensione con i palestinesi restavano troppo spesso lettera morta: «I blindati [entrati nella zona palestinese] non venivano riportati verso le posizioni di partenza (...), solo una minima parte degli operai palestinesi era autorizzata a tornare in Israele, si continuavano a effettuare i blocchi stradali» in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Sheer insorge contro la tendenza di alcuni capi dell'esercito ad assumere posizioni politiche esplicite «rivolgendosi direttamente all'opinione pubblica, scavalcando il governo» eletto, come è avvenuto con particolare frequenza negli ultimi mesi di Barak al governo (4). Si tratta di un fenomeno ricorrente in uno stato in cui l'esercito è sempre stato un interlocutore importante, proprio per il peso schiacciante che ha nella società: è l'unica istituzione cui facciano capo contemporaneamente i compiti di valutazione (con Aman, il più importante dei servizi di intelligence), di pianificazione e di esecuzione. È una istituzione che riflette le tendenze generali del paese e che annovera nelle sue fila un numero sempre crescente di coloni e di nazionalisti religiosi, anche se ancora scarsamente rappresentati a livello di alto comando.
Il fenomeno si è ulteriormente amplificato negli ultimi mesi, in cui il paese è diretto da due ex generali, Sharon e il ministro della difesa Benyamin Ben Eliezer, il cui attivismo non ha nulla da invidiare a quello dei capi militari.
E così, uno dopo l'altro, due capi di stato maggiore, Mofaz e Yaalon, sono intervenuti con grande clamore sulla scena politica, spingendo alla guerra a oltranza contro l'Autorità palestinese, riprendendo una tesi tradizionale della destra. Già nel febbraio 2001, ancor prima dell'insediamento di Sharon al governo, il generale Mofaz definisce l'Autorità palestinese una «entità terrorista». Nell'ottobre 2001 si oppone alla evacuazione di due quartieri di Hebron (città poi completamente rioccupata), che peraltro era stata decisa ufficialmente dal governo. Nella primavera 2002 esige l'espulsione di Arafat, contro il parere della maggioranza del governo e di un certo numero di esperti militari.
Il generale Yaalon, da parte sua, paragona l'Intifada a un «cancro» che minaccia l'esistenza stessa d'Israele in quanto stato ebraico, capovolgendo la concezione che hanno gli arabi di un Israele «cancro» nella regione. Questo cancro dovrà essere estirpato, in un modo o nell'altro; personalmente, Yaalon è favorevole alla «chemioterapia», ma ricorda che altri insistono per «l'amputazione». D'altronde, il nuovo capo di stato maggiore denuncia il ritiro israeliano dal Libano deciso dal governo Barak nel maggio 2000, che avrebbe «fatto il gioco degli interessi arabi». Ai fautori del compromesso e a tutti coloro che criticano il comportamento dell'esercito lancia l'accusa di voler fiaccare il morale della nazione. Frasi che hanno scatenato un'accesa polemica. Sulla stessa falsariga, il generale Dan Halutz, capo delle forze aeree, nell'agosto 2002 giustifica la morte di civili innocenti durante gli attacchi aerei «contro i terroristi» e propone di «trascinare in tribunale con l'accusa di tradimento» i pacifisti israeliani che osano accusarlo di crimini di guerra. Una volta di più, il problema sul tappeto è quello dei rapporti fra i poteri, militare e politico, e risale in realtà alla firma stessa degli accordi di Oslo nell'agosto 1993. Nelle sue memorie, il generale riservista Uri Sagui descrive l'imbarazzo di un capo dell'intelligence militare costretto a ricorrere alla proprie fonti d'informazione per venire a sapere che il suo governo porta avanti una trattativa segreta con l'Olp a Oslo e che, contro ogni previsione, i colloqui si avvicinano al successo. «Il primo ministro [Rabin] non mi aveva messo al corrente di quanto stava succedendo con il ministro degli esteri [Shimon Peres, il supervisore della trattativa], ma sono riuscito a saperne di più grazie alle mie fonti, e ne ho informato il capo di stato maggiore Ehud Barak».(5) L'ex capo di Aman, che peraltro nell'esercito è ritenuto un moderato, deplora di «esser venuto a conoscenza della Dichiarazione di principi [dell'accordo di Oslo] troppo tardi per poter far sentire la sua influenza». Il generale Barak, da parte sua, è convinto che il meccanismo di ritiri progressivi dei militari previsto da Oslo vada contro Israele, nella misura in cui Israele dovrà «consegnare alcuni territori senza contropartita». Definisce l'accordo «un formaggio svizzero pieno di buchi». Quando successivamente verranno consultati, gli esperti militari moltiplicheranno i dispositivi di sicurezza, per assicurarsi che le armi della polizia palestinese non verranno usate contro Israele e che gli insediamenti dei coloni potranno beneficiare della sicurezza necessaria, cosa che consentirà loro di svilupparsi a ritmo accelerato.
Non si deve dedurre peraltro che l'alto comando fosse fondamentalmente ostile all'accordo di Oslo, afferma il generale riservista Danny Rostchild. «Alcuni alti ufficiali erano diffidenti, altri contrari, altri favorevoli, io personalmente ne ero più che soddisfatto», dice l'uomo che era stato a capo dell'amministrazione militare nei territori occupati fino al 1995. Il generale Amnon Shahak, succeduto al generale Barak come capo di stato maggiore, dal 1995 al 1998, è un sostenitore dichiarato degli accordi di Oslo. Al pari di altri responsabili militari, ritiene che rafforzino la sicurezza del paese. Tale posizione lo porterà in rotta di collisione con il primo ministro di destra Benyamin Netanyahu, che - ironia della storia - all'epoca accusa l'alto comando militare di interferenze politiche.(6) Analogamente, l'ammiraglio riservista Ami Ayalon, capo dei servizi di sicurezza interni - civili - (Shin Beth), è favorevole al compromesso con i palestinesi. Andato in pensione nel 2000, auspicherà un ritiro incondizionato dai territori occupati.
Per contro, gli oppositori di Oslo annoverano immediatamente nelle loro fila il generale Mofaz, capo di stato maggiore dal 1998 al luglio 2002, e l'attuale capo delle forze armate, il generale Yaalon, che dal 1995 occupa posizioni chiave nei confronti dei palestinesi: capo dell'intelligence militare, comandante della regione centrale che comprende la Cisgiordania, vice capo di stato maggiore dal 2000 al 2002.
Tuttavia, secondo Danny Rotschild, l'esercito frena l'applicazione degli accordi di Oslo per una visione miope, più che per motivi ideologici, proprio perché per i militari prevalgono gli imperativi di sicurezza «a breve termine». Allorché gli islamisti lanciano una prima ondata di attacchi suicidi in Israele nel 1994, dopo che il colono Baruch Goldstein ha ucciso una trentina di fedeli musulmani a Hebron, l'esercito si pronunzia a favore dell'accerchiamento dei territori palestinesi (nonostante i rischi evidenziati dallo Shin Beth). L'obiettivo è bloccare gli attentati in Israele impedendo l'ingresso dei palestinesi, ma l'accerchiamento dei territori lascia senza lavoro oltre centomila palestinesi impossibilitati a entrare in Israele, e sferra un colpo micidiale alla credibilità del processo di pace, in una popolazione che si aspettava almeno un maggior benessere economico.
Esitante, diffidente e diviso di fronte agli accordi di Oslo, l'esercito si è ritrovato in una situazione paradossale. Da una parte, è incaricato di applicare l'accordo, soprattutto sotto i governi laburisti che puntano sul coinvolgimento dei militari nei negoziati per convincere l'opinione pubblica. Dall'altra, si prepara lo scontro con quegli stessi palestinesi che sono i suoi interlocutori, scontro che scoppia quando Israele apre un'antica galleria, nella notte fra il 23 e il 24 settembre 1996, sotto Gerusalemme vecchia, lungo la Spianata delle moschee. I musulmani lo considerano una minaccia sul terzo luogo santo dell'islam. Le manifestazioni, represse con durezza, si trasformano in sommossa, poi in battaglia schierata, con la partecipazione della polizia palestinese. L'esercito israeliano è colto di sorpresa, soprattutto perché il primo ministro Netanyahu non l'aveva preavvertito di aver dato via libera all'apertura della galleria sotterranea. Il tragico bilancio: 80 morti, fra cui 15 militari israeliani.
La tracotanza del comando militare «Quei disordini hanno segnato un punto di svolta. Il comando militare non ha più avuto alcun dubbio: l'esplosione di collera serve ad Arafat come mezzo di pressione per rafforzarsi durante le trattative», dichiara l'ex capo dell'ufficio studi storici dell'esercito Igal Eyal. Se ne trae la conclusione che «gli scontri si ripeteranno su una scala ancora più vasta, coinvolgendo le forze di sicurezza palestinesi allorché i colloqui entreranno in una fase decisiva, o se vi sarà una proclamazione unilaterale di indipendenza da parte palestinese»(7).
Per l'esercito, i preparativi si intensificheranno nel luglio 2000, dopo il fallimento del vertice di Camp David, tenendo conto delle attività in corso nel campo avverso, soprattutto all'interno di Al Fatah. Le postazioni di guardia attorno alle colonie sono rinforzate, si studiano nuove tattiche, alcune unità militari seguono corsi speciali di addestramento, si definiscono i piani d'intervento, in particolare l'operazione «Campo di rovi» per la Cisgiordania nel suo complesso.
Tali piani verranno applicati subito dopo lo scoppio dell'Intifada.
Si tratta di colpire con forza, di soffocare la rivolta sul nascere.
Il risultato è un numero elevatissimo di morti palestinesi nelle settimane iniziali degli scontri - otto volte di più rispetto al numero di israeliani uccisi! Due anni dopo la proporzione scenderà a uno a tre, in quanto i morti israeliani saranno oltre 600, soprattutto civili, «a fronte di» oltre 1.800 morti palestinesi.
Non si tratta semplicemente di preparativi tattici. È un concetto globale di «scontro limitato» che il comando militare elabora ancor prima dello scoppio dell'Intifada. «Il comando militare ha compreso che non bastava eseguire gli ordini - mutevoli e poco chiari - del potere politico, ma che doveva interpretarne le aspirazioni come fa l'architetto per il suo cliente, cioè doveva pensare alla lotta con altri occhi, introdurre nuovi concetti, tener conto dei vincoli internazionali e del peso dell'opinione pubblica», spiega il generale riservista Iri Kahn, uno dei dirigenti del servizio ricerche operative dell'esercito, responsabile della formazione degli ufficiali superiori e della elaborazione strategica.
«L'obiettivo non è occupare un territorio, riprendere il controllo delle zone autonome palestinesi [come tuttavia avviene nella realtà sul campo], e ancor meno ripristinare una amministrazione militare con tutti gli oneri che questo comporta, ma piuttosto dimostrare ai palestinesi che la violenza non paga, e si rivolta a loro danno».
Allora, ma soltanto allora, Israele dovrà presentare un piano di pace, perché «senza soluzione politica» non esiste una soluzione duratura.
Il momento è ormai vicino, assicura un altro ufficiale superiore in servizio nell'ufficio pianificazione strategica dell'esercito, che nota il «malcontento crescente della popolazione palestinese» nei confronti dei suoi leader e di Arafat. Anch'egli prevede che verrà il momento di un accordo politico, di cui Israele al momento non può rivelare i contorni. Ma sarà un accordo senza il leader palestinese, che egli accusa di aver scatenato deliberatamente una «autentica guerra», e non un sollevamento popolare, come si è voluto far credere.
Sempre secondo questo ufficiale, l'esercito se lo aspettava, ma non aveva messo in conto «che la lotta durasse così a lungo, facesse tanti morti e fosse seguita da un'ondata così sanguinosa di attentati suicidi». Ancora una volta, tutte le colpe ricadrebbero su Arafat e sulla sua irrazionalità.
La spiegazione va presa per quella che è. Ha il pregio di evidenziare appieno la responsabilità d'Israele e del suo esercito, non soltanto per quanto riguarda l'origine dei disordini, ma anche per la repressione che ha provocato la morte di centinaia di civili innocenti e la distruzione di tante case nell'ambito di una politica di punizioni di massa.
«Che succede nell'esercito?» si chiede Nahum Barnea, giornalista di punta del quotidiano di larga tiratura Yediot Aharonot, dopo la morte di due bambini e di due adolescenti, il 31 agosto scorso, durante una «esecuzione mirata» che aveva mancato il bersaglio, un'ulteriore imprecisione per cui il ministro della difesa si è scusato per l'ennesima volta, senza peraltro infliggere una minima sanzione o una minima critica ai responsabili. Il giornalista, che stigmatizza la «tracotanza» del comando militare, pone in discussione non soltanto la legittimità morale di questo tipo di operazione, in cui l'esercito accetta deliberatamente il rischio di uccidere i parenti del «bersaglio designato», ma la sua logica interna, allorché l'esercito interviene dopo un periodo di relativa calma, e così facendo rischia di innescare un nuovo ciclo di attentati e di rappresaglie (8).
Non si tratta soltanto di errori, osserva l'orientalista Avraham Sela, ex alto ufficiale dell'intelligence militare. «Soprattutto all'inizio dell'Intifada, c'è stata una volontà molto evidente di fare molte vittime, non soltanto fra i cecchini palestinesi, ma anche fra i manifestanti che, in linea di massima, erano armati soltanto di pietre. Così facendo, l'esercito ha piegato la rivolta popolare, che però si è trasformata in terrorismo e lotta armata». Che non finirà veramente senza un'offerta politica credibile per i palestinesi, offerta che non si vede affatto all'orizzonte.
Questa «tracotanza» del comando militare nasconde, secondo lui, «un'assenza di strategia reale», dato che l'intenzione di piegare la volontà avversa non si può considerare, politicamente, un obiettivo di guerra.
L'aspetto più grave, secondo questo ricercatore dell'università ebraica di Gerusalemme, è che, dietro il discorso sull'irrazionalità di Arafat e la sua volontà distruttrice, c'è tutta «una visione stereotipata dei palestinesi e degli arabi, ai quali si crede soltanto quando dicono di voler distruggere Israele, senza tener conto del fatto che nella pratica in tanti sono pronti a trovare un modus vivendi», come è dimostrato da numerosi sondaggi.

note:

*Giornalista, Gerusalemme, autore di una Histoire de la droite israélienne, Complexe, Bruxelles, 1991.

(1) «I preparativi delle forze a un conflitto limitato», articolo di Moshe Yaalon, revista Maarahot (in ebraico), Tel Aviv, n° 380-381, dicembre 2001, pp. 24-30.

(2) Intervista rilasciata da Yaalon alla rivista militare israeliana sulla storia dell'intelligence, Mabat le Moreshet Hamodiin, Tel Aviv, 28 gennaio 2002. «Ho proposto al primo ministro Itzhak Rabin di lanciare un ultimatum (a Yasser Arafat) intimandogli di intervenire contro il terrorismo, altrimenti si sarebbe fermato il processo di pace», aggiunge l'attuale capo di stato maggiore.

(3) Cfr. l'articolo di Yossi Melman, Haaretz, Tel Aviv, 16 agosto 2002, che cita un documento dell'ufficio studi di Aman.
(4) Gilead Sheer, A portata di mano (in ebraico), casa editrice Tamar, Tel Aviv, 2001, p. 368.

(5) Uri Sagui, Orot be Arafel (Luci nella nebbia), autobiografia (in ebraico), casa editrice Yediot Aharonot, Tel Aviv, 1998, pp.186-187.
Sottolinea che all'epoca era a favore di trattative dirette con l'Olp, opinione che non riscuoteva certo l'unanimità all'interno dell'esercito.

(6) In particolare, durante il consiglio dei ministri del 15 giugno 1998. Cfr. dispaccio d'agenzia Afp, 15 giugno 1998.

(7) Tali eventi non impedirono comunque al governo Netanyahu di ritirare poi l'esercito dai quattro quinti di Hebron. La conclusione che ne traggono i militanti palestinesi è che gli israeliani cederanno più facilmente se dovranno fronteggiare la violenza, osserva il giornalista Charles Enderlin, che cita a tale proposito il leader di Al Fatah, Marwan Barghuti, poi incarcerato e «processato» da Israele. Cfr.
Charles Enderlin, Le Rêve brisé, Fayard 2002, p. 74.

(8) Yediot Aharonot, 1° settembre 2002. Una commissione d'inchiesta ha poi discolpato i militari per questa morte e quella di altri otto palestinesi in altri due incidenti, pur auspicando un maggior rigore nell'autorizzare l'esercito a sparare.
(Traduzione di R. I.)

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