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il lager del regina pacis (lecce)
by dino frisullo (by way of killerina) Thursday, Dec. 05, 2002 at 10:27 AM mail:

report dalla visita di una delegazione al centro di permanenza temporanea Regina Pacis di Lecce


(I) da dino frisullo
visita a santa foca (lecce)

1. COSA ABBIAMO TROVATO

L'ampia delegazione, una dozzina di persone, entrata
il 30 novembre nel Cpt
"Regina Pacis" gestito dalla Curia di Lecce a San
Foca, è rimasta dentro per
un'ora e mezza. Abbastanza per uscirne sconvolti dal
livello di abuso ed
arbitrio che, certo, fa tutti i Cpt peggiori delle
galere - ma che fa ancora
peggiore, se possibile, un Cpt gestito da persone che
non devono neppure
rendere conto a un superiore o ad un'istituzione.
Perchè, come pare abbia
detto il direttore del centro don Cesare Lodeserto ad
un giudice che
l'interrogava sulle "partite doppie" della
contabilità, "rendono conto del
loro operato solo a Dio".

a) Le condizioni materiali.

Circa 185 "ospiti" sopravvivono ammassati in camerate
ingombre di letti a
castello, da dodici in su in stanze di quindici mq
circa. Un metroquadro a
testa in media! e con finestre scarse e in genere
sprangate, tantopiù quando
passano cortei. Sui lettini, materassi nuovi nuovi
ignifughi e lenzuola
pulite pulite: hanno cambiato gli uni e le altre ieri,
ci dicono, perchè
dovevate arrivare voi, in genere sono lerci. Acqua
calda quindici (15)
minuti al giorno per lavarsi tutti. Una scheda
telefonica ogni 15 giorni, un
pacchetto di sigarette ogni cinque. L'acqua, dicono, è
imbevibile, e quella
minerale chi può deve pagarsela. La mensa sembra
povera ma decente. Ma per
il resto, non ci è capitato di vedere una sola
attrezzatura, un cartello,
uno spazio, che potessero servire per socializzare e
non per selezionare,
stoccare, segregare esseri umani.

b) L'arbitrio giuridico.

Alcuni esempi?
- 58 pakistani ci hanno circondati. Volti poveri e
disperati. Vengono dal
Kashmir o dalle aree limitrofe, zone di guerra. Hanno
perso tutti la casa,
molti i loro parenti. Sbarcati in Sicilia, internati
ad Agrigento,
trasferiti a Lecce, non hanno mai potuto chiedere
asilo. Lo fanno con noi.
Scriviamo in fretta un testo di richiesta dell'asilo e
di denuncia per non
averlo mai potuto chiedere, e si allineano per
firmarlo sotto gli occhi
impotenti dei guardioni di don Cesare (poi parleremo
anche di loro).
- quattro cinesi hanno in mano la fotocopia della
ricevuta della domanda di
sanatoria. Avevano avuto già prima l'espulsione, è la
scusa di don Cesare.
Già: ma la sopravvenuta procedura di regolarizzazione
dovrebbe consentire di
sospenderla o revocarla, l'espulsione, e quindi il
"trattenimento". Ma chi
offre un avvocato o un interprete ai cinesi, per
farlo? Non il Regina
Pacis...
- sono tanti i marocchini (due frequentavano anche
movimenti sociali a
Padova), gli indiani ed altri, che ci strattonano per
raccontarci, con o
senza l'ausilio di fasci di carte, storie di vita. In
Italia, non altrove.
Per anni, a volte decenni, non per pochi mesi. Poi...
Un licenziamento o un
processo, il mancato rinnovo, l'espulsione, la
recidiva, il fermo casuale,
il Cpt. E la prospettiva del rimpatrio. Uno srilankese
che è qui da tre
settimane, e in Italia da undici anni, si dispera per
il figlio di cinque
anni. Nato in Italia. (E' sempre bene ricordare che
questo circolo vizioso
fra assenza anche temporanea di lavoro e perdita del
"right to stay" è stato
introdotto dal centrosinistra: sono
trenta-cinquantamila i "nuovi
clandestini" prodotti così dalla Turco-Napolitano, ed
ora ovviamente si
moltiplicano). Queste storie andrebbero vagliate una
per una, perchè in
ciascuna si può trovare il filo (lavorativo,
processuale, familiare) che può
impedire il rimpatrio. Chi lo fa? Non certo gli
operatori del Regina
Pacis...

c) La vera funzione del Regina Pacis

Quasi nessuna delle persone che abbiamo incontrato era
sbarcata in Puglia o
era stata fermata in Puglia. Quasi tutti erano
sbarcati in Sicilia o in
Calabria, oppure erano stati rastrellati a Torino o
Firenze, e portati qui.
"Concentrati" in un campo che ha rinunciato anche alla
beffarda ammonizione
che "Arbeit macht frei" (anche se si dice che, come in
quelli, si pratichi
anche qui il lavoro forzato e non retribuito), ma non
alla funzione dei
lager di anticamera e trampolino della dissoluzione
dei corpi. Non
spariranno in un camino ma su un aereo o una nave,
comunque sono destinati a
scomparire. E per molti di loro l'espulsione è
peggiore della morte. Questo
luogo di concentramento, il Regina Pacis, non ha ormai
più nessun legame con
il territorio che lo circonda. Non ha neppure la
funzione conclamata dei Cpt
di "identificazione e reperibilità", perchè tutti
coloro che sono portati
qui sono già identificati e la polizia saprebbe
perfettamente dove
reperirli. Ha, in realtà, la stessa funzione di Ponte
Galeria a Roma: snodo
intermedio della catena del rastrellamento e della
deportazione. E' il
Viminale, è il pugliese Mantovano grande amico del
vescovo Ruppi, a decidere
chi mandare qui e chi/quando prelevare per la
"soluzione finale", da vantare
poi snocciolando cifre in parlamento. La tanto
sbandierata funzione di
accoglienza di coloro che arrivano in Puglia, la
svolge semma il centro
Tonino Bello di Otranto: il Regina Pacis la va
dismettendo, per diventare
invece un corridoio e un'anticamera della
deportazione.

d) Il lager ed i suoi kapò

Questa è stata l'esperienza più drammatica della
delegazione. Che le forze
di polizia usino i manganelli che hanno in dotazione,
e che spesso li usino
anche nei Cpt come in tutti i luoghi di detenzione, è
grave ma è in qualche
modo "normale". Può e deve indignare, ma non stupire.
Ma gli operatori
civili nei Cpt non dovrebbero avere in dotazione
bastoni. Invece ce l'hanno,
e li usano.
Il 22 novembre qualche decina di "ospiti" tentarono la
fuga dal Regina
Pacis. La maggior parte di loro furono ripresi. Li
abbiamo visti. Ad una
settimana di distanza, la camerata dei marocchini
sembrava un'astanteria del
Pronto Soccorso. Gambe e braccia fasciate e ingessate,
lividi, punti di
sutura... Secondo la direzione quelle ferite erano il
risultato del salto
dalla balconata. Ma chi si rompe un braccio o una
gamba, non ce la fa a
correre e nascondersi, e questi erano stati ripresi a
chilometri ed ore o
giorni di distanza.
I loro racconti erano univoci. Li avevano condotti a
gruppetti nella stanza
del direttore, anzi in uno stanzino adiacente, e li
avevano picchiati con
bastoni di legno ed a calci. Chi? Luca, Natascia, i
quattro turchi... Il
personale straniero del Regina Pacis. I kapò (anche
loro per lo più erano
ebrei come le loro vittime...). Poi, dopo aver
cominciato a rompergli le
ossa, avevano passato la mano ai carabinieri con gli
anfibi e i manganelli.
Il direttore Lodeserto, il benefattore dell'umanità,
il candidato al Nobel
per la pace, c'era? Sì, c'era, confermavano tutti. Uno
di loro era stato
denudato, ammanettato e lasciato per una notte legato
all'addiaccio. Un
altro era stato massacrato di botte non nello
"stanzino" ma in camerata,
davanti a tutti, come umiliazione e ammonimento. E la
scena si era ripetuta
pochi giorni dopo, a ridosso della visita di Nichi
Vendola e di un'altra
delegazione, per ritorsione. Ed altre volte... Nello
"stanzino" si picchia
spesso? Sì, spesso, rispondevano.
Alcune delle vittime non c'erano più. Quattro o cinque
secondo tutti loro,
uno solo secondo la polizia, erano i feriti che
facevano parte del gruppo
degli undici maghrebini rimpatriati in tutta fretta
proprio alla vigilia
della manifestazione.
La risposta a queste accuse da parte del direttore (ma
anche del vescovo
Ruppi, accorso al Regina Pacis in serata dopo la
nostra visita, e del
presidente della Regione Fitto) è stata isterica. Non
è vero, sono
invenzioni, vergognose strumentalizzazioni... Ma che
interesse possono avere
degli immigrati totalmente ricattabili, a sfidare le
ritorsioni prevedibili
o possibili raccontando nei particolari scene di
tortura e terrore?
Ricordo il Vulpitta di Trapani, all'indomani della
strae per fuoco del '98:
anche allora i superstiti sfidavano le guardie
raccontandoci l'accaduto fra
le sbarre, magari a voce bassa e parlando tutti
insieme, perchè non fosse
uno ma semmai tutti a pagare, dopo. Bene: la stessa
scena, in quella
camerata del Regina Pacis. Le stesse voci una sopra
l'altra, la stessa
paura, gli stessi volti tirati dall'indignazione...

2. FUORI DI LA': CHE FARE...

Un effetto positivo la manifestazione e la visita
l'hanno avuto: il questore
di Lecce si è impegnato a consentire, a partire già da
lunedì 2 dicembre,
l'ingresso periodico di delegazioni, anche con medici
e avvocati. Si è
incrinato, forse, il muro irto di filo spinato che
isola il Regina Pacis dal
mondo.
Un altro effetto positivo: i 58 pakistani, la cui
domanda di asilo è stata
immediatamente consegnata ai funzionari di polizia
presenti, non saranno
deportati all'espero ma trasferiti in un altro centro,
in attesa dei
permessi di soggiorno come richiedenti asilo. Sessanta
"sommersi" riportati
fra i "salvati": non è poco.
Terzo effetto positivo: si è bucato il pallone
dell'ipocrisia. Anche i Tg,
ci dicono, dando conto della manifestazione hanno
definito il regina Pacis
per ciò che è: un Cpt, un luogo di detenzione e non di
accoglienza. Sono
uscite fuori anche le denunce dei pestaggi (con un
piccolo equivoco da
chiarire: le affermazioni attribuite al deputato verde
Bulgarelli, nella
parte relativa alla denuncia specifica del pestaggio e
del suo luogo, erano
in realtà mie e attribuite erroneamente a lui da
un'agenzia e poi dai
giornali - lo dico per correttezza verso di lui, anche
in vista di possibili
azioni penali, e per la dovuta distinzione dei ruoli:
ciò che le
associazioni denunciano nella società e nei tribunali,
un parlamentare ha
modo, come farà appunto Bulgarelli, di sollevarlo in
parlamento).

Tutto questo ovviamente non basta.
E' necessario presentare rapidamente un esposto sulla
situazione al Regina
Pacis e in particolare sulle violenze (Senzaconfine è
disposta a firmarlo,
il Lecce Social Forum ne sta discutendo) per ottenere
la formalizzazione
delle testimonianze prima che i testimoni spariscano,
e per costringere i
gestori a rispondere dei criteri di gestione e dei
metodi di repressione in
uso,
Sarà necessario proseguire e intensificare le visite
coinvolgendo medici e
avvocati, profittando dello spazio aperto dalla
manifestazione, perchè ciò
che abbiamo visto e sentito ci carica tutti di una
grande responsabilità
verso le vittime attuali e future. Il Social Forum ha
già programmato la
prima visita.
Bisogna allargare lo spazio di mobilitazione: il caso
Regina Pacis deve
diventare un caso nazionale, questo centro può e deve
essere chiuso. Fra i
Cpt a gestione non statale ma affidata al c.d. privato
sociale il Regina
Pacis è quello che ha alle spalle la struttura più
potente (la Curia
leccese) e che più a lungo ha trascinato l'equivoco
sulla sua reale
funzione, e proprio per questo ha valore simbolico
generale. Deve diventare
un monito, un esempio negativo, per impedire che altri
settori
dell'associazionismo (come già avviene, da Modena a
Trapani) si lascino
coinvolgere in funzioni custodiali.
Ma da San Foca il discorso deve allargarsi anche in
una direzione più
specifica: la moltiplicazione dei centri in Puglia,
Sicilia e Calabria, cioè
nelle regioni teatri di sbarchi (e di tragedie) e
destinate ora dall'Ue ad
essere frontiera europea non solo contro
l'immigrazione ma anche nella
prospettiva della "guerra infinita" (non a caso in
Sicilia, ma anche in
Puglia e non di rado proprio per bocca di Ruppi, si è
insistito sulla
visione propagandistica di un intreccio fra migranti,
criminali e
terroristi, creando allarme proprio per giustificare
misure altrimenti
impresentabili). Sarebbe molto positivo un
coordinamento specifico e
iniziative comuni delle tre regioni "frontaliere" del
Sud.

3. L'ALTEZZA DELLA SFIDA E LE RITORSIONI POSSIBILI

Una situazione come quella del Regina Pacis non
consente che due vie. O si
sceglie di conviverci con una strategia di "riduzione
del danno", o si
sceglie di affrontarla di petto in tutto il suo
spessore. E' chiaro che
questa seconda scelta, che secondo me va assunta da
tutto il movimento
antirazzista pugliese e nazionale, deve comunque
salvaguardare un livello di
intervento e controllo all'interno, e dunque non può
limitarsi
all'invettiva - anche per il senso di responsabilità
nei confronti dei
migranti. Ma la denuncia documentata non è
un'invettiva. E' inaccettabile
che esistano zone franche dal diritto, incluso il
diritto di critica.
Invece è ciò che sta avvenendo. La denuncia delle
violenze e la successiva
azione simbolica sul sagrato del Duomo di Lecce ha
sollevato un vespaio di
polemiche. Dalla Regione Puglia ai parlamentari
salentini del Polo ed alla
stampa locale, tutti sono insorti non per chiedere
chiarezza, ma per
assolvere pregiudizialmente il Regina Pacis (ossia il
potennte vescovo
Ruppi) condannando la "speculazione politica" e
invertendo il ruolo delle
vittime.
Dietro Ruppi non ci sono solo interessi materiali. C'è
una concezione del
volontariato pronta a mettersi al servizio di ogni
potere, purchè paghi (e
non solo fra i cattolici!). C'è la parte di Chiesa che
si sta acconciando a
convivere con il governo di destra ed a gestirne gli
affari ingestibili,
come i Cpt. C'è l'Opus Dei. C'è Mantovano e quindi il
nuovo potere pugliese,
laboratorio per l'intero Meridione.
Ma in Puglia, dalla Chiesa otrantina a Pax Christi
agli evangelici, esistono
altri interlocutori nel mondo cristiano. Se il
centrosinistra scelse di
marginalizzarli per dialogare con Ruppi, ora è tempo
di ricostruire un
rapporto fra queste aree ed i Social Forum. E la
pietra dello scandalo può
essere proprio il Regina Pacis.
Ed è tempo di costruire una mappa dei luoghi
dell'orrore in Puglia, a
partire dal lager (ex carcere) di Restinco.
Una volta alzata la pietra, non si può rimetterla a
posto come se niente
fosse: bisogna schiacciare il serpente che si è
snidato (citazione del
Vangelo...)

Per questo credo che sia stato giusto presidiare il
Duomo, quando in
assemblea abbiamo avuto notizia di ritorsioni dopo la
delegazione. Aldilà
dell'attendibilità di quella e delle successive
convulse segnalazioni, era
giusto chiedere conto alla Chiesa leccese di ciò che
fa. Abbiamo verificato
una situazione di arbitrio così totale, che le
ritorsioni fisiche e
psicologiche sono possibili in qualsiasi momento.
Del resto ci sono state. Forse non la sera stessa,
sicuramente il giorno
dopo, quando sono stati convocati nell'ufficio di don
Cesare Lodeserto prima
i pakistani neo-richiedenti asilo, per dirgli che
"quella richiesta è un
insulto al Regina Pacis, stracciatela e scrivetene
un'altra in cui date atto
della buona accoglienza ed avrete il soggiorno in due
giorni", poi i
maghrebini feriti nel pestaggio, per annunciargli
minacciosamente
l'imminente rimpatrio. Entrambe le cose non avevano
(speriamo) fondamento,
ma puntavano evidentemente non solo a intimidire ma ad
alzare
artificiosamente la tensione - magari per giustificare
operazioni che
facciano sparire, con le vittime, la memoria dei
fatti.
Il rapporto diretto con le persone dentro ha
consentito di verificare e
rassicurare. Questo è fondamentale. Il valore più
grande di questi due
giorni è forse questo: non sono più soli, dietro
quelle mura e quei fili
spinati.

(II) Lettera aperta del Forum dei Diritti di Bari alla città e ai media - 1
dicembre 2002

FALSO PRETE- VERO LAGER

La nostra presenza intorno al lager Regina Pacis, e all'interno del Duomo di
Lecce, è dovuta alla necessità di denunciare e impedire che le leggi dello
Stato legittimino, ancora una volta dopo il nazismo, la creazione di esseri
sub-umani, senza volto e senza voce, privi di dignità, di cui si possa
disporre come "corpi-merce" nei centri di permanenza temporanea.
Non possiamo più tollerare che l'attività segregazionista, violenta e
criminale del lager Regina Pacis, sia ancora descritta e rivendicata dai
tristi protagonisti di questa storia con parole quali "accoglienza",
"solidarietà", "attività caritativa", "eroismo". Parole, queste, ancora oggi
utilizzate da alcuni media.
Quale "eroismo" si nasconde dietro il "lavoro" di Lo Deserto? Egli è, più
semplicemente, il gestore di un tassello della politica economica
neoliberista dell'immigrazione in Italia. Egli è un segmento della filiera
che fa degli immigrati uno dei più grossi business di questo secolo. Quale
"attività caritativa" può derivare dallo "stoccaggio" nei centri di
corpi-merci in transito, costretti entro il binomio produzione-sparizione?
Quale "accoglienza" può praticarsi in un recinto separato, da cui non si può
uscire, e in cui non si può entrare, filmare, fotografare, parlare, curarsi,
informarsi sul proprio destino?
La delegazione che è entrata nel lager ha raccolto testimonianze
agghiaccianti, ma il coro mediatico le bolla come "da verificare". Ci
chiediamo perché la parola dei condannati (senza reato!) debba valere meno
di quella dei loro aguzzini. Dove risiede l'umanità dei migranti reclusi, se
la loro voce "deve essere verificata" da prove ancora più evidenti dei segni
lasciati sui loro corpi? E gli ematomi, la braccia rotte, le lacrime, il
filo spinato, le lamiere sulle finestre, le telecamere e la militarizzazione
del territorio non bastano? Quali strumenti di tortura ci si aspettava di
trovare nello "stanzino" di Lo
Deserto? Ruote dentate? Vergini di ferro? Fruste e mazze ferrate?
Il sangue si lava, la voce si può zittire, gli occhi si possono chiudere, i
corpi si possono "trasferire" e rimpatriare. E' un clima terroristico,
intimidatorio, fatto di ricatti e ritorsioni, quello che regna al Regina
Pacis.
La vicenda dell'ultimo pestaggio ci lascia addirittura sgomenti. La denuncia
sarebbe "una bufala" perché fatta "da un soggetto psicolabile". Come nella
migliore tradizione delle istituzioni totali, la parola dei malati di mente
non vale nulla di fronte ai discorsi scientifici dei loro medici e
sorveglianti.
Al di là di ogni ragionevole dubbio, alcune cose sono molto chiare e vanno
denunciate: nella struttura si usano psicofarmaci in dosi massicce; persone
che hanno bisogno di cura non sono assistite, ma recluse, e questo
sicuramente peggiora le loro condizioni di vita.
L'esperienza storica del "campo di concentramento" ci insegna qualcosa a
proposito delle prove. I nazisti, a chi andava in cerca di prove, offrivano
"visite guidate" in luoghi idilliaci, prati dove giocavano i bambini;
diffondevano filmati in
cui centinaia di ebrei cantavano sorridenti, ballavano e suonavano i
violini.
La storia della "redenzione coatta", dal carcere a certi modelli di comunità
per tossicodipendenti, dai manicomi agli attuali CPT (laici o religiosi), ci
parla di una strategia di governo che diffonde nel corpo sociale pratiche e
discorsi di disciplinamento e controllo. Fili ininterrotti di una politica
volta ad eliminare tutto ciò che possa modificare i rapporti di produzione
in atto. Una pratica sottile e subdola, ma non per questo meno violenta e
perversa, che costruisce le categorie "devianti" per porle dinanzi
all'opzione: integrazione o deportazione. Una pratica da cui non sono
esclusi i cosiddetti "operatori", costretti, quando non sono complici (come
lo sono i kapò del Regina Pacis), a barcamenarsi tra senso etico e ordine
superiore dello Stato.
La nostra scelta di andare al centro della città, nella casa di Dio, non è
un episodio, non è una boutade da "società dello spettacolo". Prendere la
parola nel luogo dedicato a Cristo - condannato a morte per sedizione dalle
gerarchie ecclesiastiche e da quelle politiche - significa rimettere al
centro la collusione tra i poteri dello Stato e chi si arroga il compito di
"accogliere" e proteggere i più deboli, uniti da una pratica di pura
persecuzione.
A Dio quel che è di Dio, e a cesare.il suo deserto.

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