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Democrazia in movimento : intervista a M.Albert
by www.ilmanifesto.it Monday, Jan. 20, 2003 at 5:29 PM mail:

Porto Alegre e i rischi di guerra. Parla Michael Albert, intellettuale Usa e animatore del sito Internet Znet



Michael Albert ha lo sguardo rivolto sempre all'orizzonte e questo lo fa sembrare distratto, preso da altri pensieri. Eppure, questo massiccio americano ne ha fatto di strada da quando, brillante studente, decise che doveva impedire che altri compatrioti andassero a combattere in Vietnam. Da allora è diventato un attivista della «nuova sinistra americana» e uno stretto collaboratore di Noam Chomsky nella puntuale denuncia delle ipocrisie e bugie che le diverse amministrazione della Casa Bianca hanno usato per legittimare il loro intervento a favore delle dittature militari in America Latina o per la loro diplomazia delle cannoniere. Il primo incontro con lui è avvenuto a Firenze, durante il social forum europeo. Tra un bicchiere di vino e una risata, ha cominciato a parlare della speranza suscitata dal «movimento contro la globalizzazione capitalista», una speranza che Michael Albert ha coltivato amministrando il sito Internet Znet ( http://www.zmag.org ), diventato in pochi anni il luogo dove la discussione sulle prospettive del «movimento dei movimenti» ha visto coinvolti, oltre a Chomsky tutti gli studiosi che di quel movimento vengono considerati, a torto o a ragione, gli intellettuali organici. E quando poi è apparso un suo testo che annunciava il progetto Life after capitalism per la terza edizione di Porto Alegre la curiosità si è trasformata in intervista. «Life after capitalism è da considerare - afferma Albert - una conferenza all'interno della conferenza. Noi del sito Znet assieme a studiosi e associazioni culturali brasiliane e non, abbiamo pensato che accanto alle conferenze, per così dire istituzionali ci fosse la necessità di un incontro ravvicinato su alcuni temi, da quello sulla guerra annunciata contro l'Iraq all'operato del Wto. Se si scorre l'elenco degli studiosi che hanno aderito all'iniziativa s i ha il sospetto che siano quelli più `radicali'. In parte è una sensazione giusta, perché gran parte di noi pensano che il capitalismo non è riformabile. Ma sappiamo però che accanto alla radicalità teorica ci vuole duttilità, pazienza e una certa dose di pragmatismo».

Nel testo apparso sul sito Znet sostieni anche che a Porto Alegre saranno presenti molti esponenti della sinistra moderata mondiale. Sembra di cogliere nella sua analisi una contraddittorietà in questa presenza. Da una parte, il movimento contro la globalizzazione è riuscito ad accrescere il consenso attorno alle sue posizioni; dall'altra c'è il rischio di una minore democrazia nelle decisioni. Puoi spiegare meglio il tuo pensiero?

Il forum sociale mondiale è un appuntamento importante tanto a livello globale che a livello locale perché segnala che, di anno in anno, è cresciuto il consenso attorno alle sue parole d'ordine. E' quindi pleonastico riconoscere che è un luogo aperto e accogliente per chiunque sia sinceramente interessato a un critica delle ineguaglianze sociali, alla guerra, al razzismo, al sessismo, compresi quegli uomini, donne, associazioni che nutrono dubbi sulla possibilità di costruire una «nuova società». Valuto quindi positivamente la partecipazione di molti esponenti di ciò che lei chiama la sinistra moderata.

Costruire un forum come questo, cioè una, non so come chiamarla se una struttura o organizzazione che include e che non ha quindi confini rigidi, è sempre un processo complicato, difficile, specialmente quando i due livelli su cui si misura il movimento contro la globalizzazione capitalista, cioè quello internazionale e quello locale, sono così intrecciati. C'è da tenere presente le diversità culturali e politiche, garantendo al tempo stesso l'efficacia delle mobilitazioni decise. Va da sé, quindi, che il problema della democrazia sia a questo livello cruciale. Non penso che gli organizzatori del forum sociale mondiale non se lo siano posto. Più semplicemente, ritengo che ogni volta che il movimento registra un cambiamento al suo interno e del suo rapporto con la realtà, il problema della democrazia si ripropone.

La rivolta argentina, l'elezione di Lula, la crisi venezuelana, il «nuovo corso» in Ecuador. Tutto il continente latinoamericano è in movimento. Questa situazione può considerarsi come il primo risultato del movimento contro la globalizzazione economica e come ulteriore sintomo della crisi del neoliberismo?

Non so se sono i primi successi. Ce ne sono stati altri, che magari non sono apparsi come tali. Ogni persona che cambia il suo modo di vedere il mondo e che poi esprime pubblicamente il dissenso rispetto al potere dominante è da considerare un successo. Possiamo quindi considerare l'elezione di Lula, la rivolta argentina e «il nuovo corso» in Ecuador come la ratifica di tanti, piccoli successi. Inoltre, la tendenza positiva che tu descrive non riguarda solo l'America latina, ma anche l'Asia, l'Africa e persino gli Stati uniti e che non può essere ricondotto solo all'azione del movimento contro la globalizzazione capitalista. In passato, ma anche tuttora, ci sono stati importanti movimenti contro il sessismo, il razzismo, le multinazionali che andavano nella direzione di un radicale cambiamento e sarebbe ingeneroso dimenticarli.

Da Seattle in poi, il Wto, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale sono stati considerati organismi sovranazionali non solo antidemocratici, ma anche in crisi. Eppure, alcune decisioni da loro prese ultimamente vanno sempre nella direzione: mano libera al mercato. Walden Bello sostiene che sono irriformabili. Cosa ne pensi?

Sono d'accordo con lui. E come lui sono convinto che vanno abolite, perché sono istituzioni che rafforzano chi è già ricco e potente. Nell'arena pubblica ci sono già buone proposte per redistribuire il potere e la ricchezza verso i paesi meno sviluppati magari ricavando, ad esempio, risorse tassando gli scambi finanziari internazionali. La denuncia della assenza di democraticità nell'operato delle organizzazioni sovranazionali come il Wto, la Banca mondiale o il Fmi non può però far dimenticare un altro problema, che ha a che fare con la forza di persuasione di questo movimento.

Spesso viene chiesto agli attivisti «che cosa vuoi esattamente?». Non possiamo limitarci a dire: abolire il Wto, la Banca mondiale e il Fmi. Dobbiamo spiegare il perché vogliamo abolirle, indicando al tempo stesso le alternative: cioè quali istituzioni vogliamo, con quale compito e come devono funzionare. Spesso però chi domanda «Ma che cosa vuoi esattamente?» non ha in testa il Fondo monetario internazionale, ma altro, cioè la paura che il proprio stile di vita debba cambiare, una prospettiva che spesso appare come un vero e proprio salto nel buio. Dietro quel «cosa vuoi?» c'è quindi un «qual è la società che hai in testa dove non c'è mercato e proprietà privata?». Allo stesso tempo, questo riflesso «conservatore» fa trapelare un timore altrettanto diffuso e che riguarda proprio il ruolo di stravolgimento delle economie dei singoli paesi operato da istituzioni internazionali come il Wto. Molte persone pensano infatti che l'economia americana, italiana, tedesca, inglese, indonesiana non debba proprio cambiare, tanto più se ci sono pressioni da parte di una istituzione, come dire, «straniera». Questa prospettiva di dovere cambiare perché lo dice il Wto può spaventare tanto quanto la prospettiva di trasformazione veicolata dal movimento contro la globalizzazione capitalista. Di conseguenza, se mettiamo insieme la paura di dovere cambiare stile di vita assieme all'incertezza del futuro è fin troppo evidente che uno dei compiti degli attivisti è la chiarezza sul «mondo possibile» che si vuol costruire.

Nel nuovo «disordine mondiale», la guerra sembra tornata ad essere uno strumento per mettere ordine sul pianeta terra. C'è poi l'analisi sul ruolo che ha il petrolio....

Non sono così sicuro che la guerra contro l'Afghanistan abbia avuto a che fare con il petrolio. Quella, probabile, contro l'Iraq sì. Ma il fatto che l'oro nero è così importante nella vicenda irachena non significa che sia l'unico fattore che spiega la volontà degli Stati uniti di togliere di mezzo Saddam Hussein. Le élite statunitensi hanno sempre usato tutti i mezzi a loro disposizione - dal denaro all'influenza sui mass-media all'esercito - per mantenere il loro potere. Cerco di spiegarmi meglio. Sin da poche ore dopo l'attacco dell'11 settembre, le èlite americane hanno cercato di usare quell'evento per avere carta bianca dall'opinione pubblica. L'Afghanistan prima, l'Iraq, la Siria, l'Iran, la Corea nel prossimo futuro sono degli escamotage per far accettare una legislazione restrittiva in patria e per aumentare le spese militari, rendendo così difficile l'espressione del dissenso rispetto alle loro scelte.

Ma se la guerra è usata per limitare la libertà in patria, non possiamo dimenticare che obiettivo di questa amministrazione è la creazione di un ordine mondiale fatto su misura degli Stati uniti grazie alla sua superiorità militare. E' indubbio che la diplomazia delle cannoniere è il modo preferito da George W. Bush per mettere ordine. Dobbiamo certo contrastare il militarismo americano, costruendo un ampio e globale movimento per la pace che renda socialmente la guerra un prezzo molto alto da pagare.

Fonte: http://www.ilmanifesto.it

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