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[milano] Se la città infinita diventa un luogo....
by di Aldo Bonomi (dal Corriere della Sera) Monday, Sep. 01, 2003 at 1:21 PM mail:

«Prendiamoci la città» urlava la mia generazione. Nell’utopia che la comunità operaia, allora egemone, dilagando dalla fabbrica al quartiere, avrebbe mangiato il centro della metropoli fordista, della grande Milano, estendendovi il modello della solidarietà di classe. Invece la forma metropoli, come scriveva Simmel «che costringe la vita in una gabbia di acciaio», ha mangiato e rivomitato quello slogan e quelle utopie nella nomea della città infinita. Dove gli ultimi che volevano essere i primi, gli operai, sono stati sostituiti dai tanti che fanno servizi servili e a basso reddito.


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«Prendiamoci la città creando nuovi luoghi al posto dei vecchi bar». Si è distrutto un microtessuto, ora ci si incontra nelle multisale e nei megastore.


Servizi per i primi che spesso non abitano più, ma usano solo il centro spettacolare della città infinita fatto di finanza, marketing, net economy, economia dell’informazione e dei desideri. La città infinita ha un centro e una periferia organizzato solo per funzioni. È più centro della notte e distretto del piacere il Ticinese che piazza Duomo o le Torri Bianche a Vimercate o la Nuova Fiera a Pero e Rho per il terziario della tecnica e della rappresentazione della merce. Non è un caso che il prezzo delle abitazioni non rimanda ai soli edifici ma alla qualità delle funzioni rare e dei servizi che circondano le case. Pensare che esiste un centro in grado di rivitalizzare le periferie o delle periferie in grado di interrogare un centro nella città infinita assomiglia molto allo slogan di allora «prendiamoci la città». Dopo Rozzano, dopo il dramma da guerra civile molecolare, che sta alla città infinita come la lotta di classe stava alla metropoli fordista, Schiavi sul Corriere e Boeri sul Sole 24 Ore propongono «Riprendiamoci le periferie» e di «Trasformare i dinosauri di cemento delle case popolari in laboratori di convivenza». Scavano entrambi nel buco nero del sociale, nelle forme di convivenza, andando oltre pure forme di controllo urbanistico o repressivo della guerra civile molecolare di cui ci accorgiamo solo quando prende la forma tragica del silenzio degli innocenti.
Il primo non crede ai centri di aggregazione di un sociale imploso e spera nella forza del mercato, i bar che riaggregano. Il secondo, che condivide con me la disperazione della città infinita, sostiene che solo attraverso una contaminazione anche multietnica come ormai è delle forme comunitarie dell’abitare è possibile vivere senza centro le periferie. Non bastano i bar e il desiderio di comunità anche se è giusto l’appello al mercato e all’andare oltre le «comunità maledette» ove ci si cerca per uguaglianza etnica o di censo e non per differenze che è la benzina della guerra civile molecolare.
Il mercato è rappresentato dai padroni dei consumi e degli eventi che con il loro megastore e le loro multisale e le loro televisioni hanno distrutto quel tessuto micro di bar, cinema di periferia, negozi, dove ci si trovava conoscendosi. È a loro che va chiesto di decentrare funzioni e luoghi ed è quei luoghi, detti non luoghi, che vanno fatti diventare luoghi della città infinita: riappropriandocene. Così come solo attraverso centri di aggregazione artificiali sarà possibile rivitalizzare comunità chiuse. Certo non hanno senso centri sociali istituzionali per un sociale imploso. Penso al lavoro artificiale del volontariato che si mette in mezzo e che organizza nei casermoni i gruppi di acquisto solidale ove centinaia di famiglie si mettono assieme per comprare camion di arance dai parenti lasciati in Sicilia per avere merce di qualità a basso costo. O a forme ipermoderne come le televisioni di strada e di quartiere che spezzano la macchina degli eventi in tante città finite nella città infinita. Che tanti fili d’erba crescano è l’unica speranza che ho. Anche perché mi pare che i padroni dei consumi e degli eventi più che a questo dibattito nell’orizzontalità sociale sono interessati al dibattito verticale sui grattacieli della Milano che verrà.

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