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(umbria) PARTIGIANO MONTENEGRINO SUL SUBASIO
by "per non dimenticare" Sunday, Apr. 24, 2005 at 1:51 PM mail:

PARTIGIANO MONTENEGRINO SUL SUBASIO

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Persiano Ridolfi, in qualità di vice Commissario della Brigata Garibaldi, verso la fine del mese di ottobre
1943, si trovava nella nuova sede della brigata, a Cesi, sul valico di Colfiorito, mentre la staffetta, che faceva
da guida, indicava a Enzo Rossi, Romano Mancini e Gabriele Massenzi, la casa dove i nuovi volontari erano
attesi.
Avevano camminato tutta la notte.
Davanti alla porta si videro un partigiano armato di fucile, che gli chiese la parola d'ordine, prima di farli
accomodare.
Il sole non s'era ancora alzato da dietro i monti, che in casa era già in corso una riunione. "Stringemmo la
mano a: Riccardo Schicchi, Balilla Bordoni, Silvio Marchetti, Mario Vitali e Persiano Ridolfi, quest'ultimo
meglio conosciuto col nome di battaglia "Toro Seduto", tutti di Spello" (da "La Banda", di Romeo Mancini).
Il vice Commissario stava informando il gruppo del suo fallito tentativo nel convincere i responsabili di
alcune centinaia di slavi, che fuggiti dal campo di concentramento di Colfiorito, erano allo sbando e braccati
dai fascisti e tedeschi, su quei monti (alcune fonti parlano di quasi tremila tra slavi, montenegrini e polacchi,).
Compito questo che, invece, "era riuscito al Alfio" Lupidi, ufficiale di carriera, "e a Cantami Luigi" (detto
Gigino), ufficiale di accademia: "uomini addestrati alle armi e al comando" e che già avevano nei loro gruppi,
a Monte Cavallo, una sessantina di partigiani slavi.
Quindi si stava aspettando l'arrivo di questo gruppo che doveva essere accompagnato da un certo valoroso
brigatista montenegrino, Milan Tomovic.
S'erano appena messi a tavola, per buttare giù qualcosa, quando videro arrivare il tenente Tomovic, meglio
conosciuto come Milan.
Tutto il pomeriggio lo passarono discutendo di strategie, organizzazione, piani di attacchi e non ultimo di
questioni politico−filosofiche.
In queste, abilissimo era Riccardo Schicchi, che con la sua fine oratoria, incantava l'uditorio. Ma non era da
meno il nuovo arrivato, Milan, che li informò della lotta degli eroici partigiani jugoslavi
di Tito contro gli invasori hitleriani, la resistenza dei montenegni e dei greci contro l'esercito mussoliniano.
La conversazione finì con la decisione che il comando del gruppo appena formatisi lo prendeva proprio il ten.
Milan.
A descrivere questa figura leggendaria, come si vedrà meglio piu avanti, sarà lo stesso Enzo Rossi, che in più
di una occasione aveva avuto modo di conoscere il giovane partigiano sul Subasio.
Per avere un'idea di quello che erano i "banditen", com'erano chiamati i partigiani, è utile guardare da vicino i
sentimenti, le idee, i gesti quotidiani, l'amore per la vita del comandante montenegrino.
Milan, era uno studente prossimo alla laurea in medicina, quando dovette salire sui monti Balcani per
combattere i nazisti, per la libertà della suo Paese, dove venne fatto prigioniero, finendo in Umbria, poco più
che ventenne.
Alto, "forse un metro e novanta, bellissimo con due occhi chiari accesi dal bisogno di giustizia e libertà".
Quando se lo videro davanti i giovani partigiani del gruppo di Riccardo Schicchi, egli "vestiva una divisa di
color kachi, con il berretto a busta con su la stella rossa".
Era pronto ad ascoltare, così come a decidere nelle situazioni difficili.
Nelle difficoltà non si perdeva d'animo. Sapeva lavorare insieme e valorizzare gli apporti di tutti del suo
gruppo.
Non era propenso al comando, ma si faceva ascoltare e tutti i suoi uomini credevano in quello che diceva e
soprattutto in quello che proponeva.
"La sua unica fatica era quella di arrampicarsi sui monti a causa della Tbc"
Per questa malattia era già stato ricoverato in ospedale a Foligno e protetto da una suora che gli voleva bene.
Era armato di uno "Sten" che portava sempre ad armacollo e un tascapane pieno di bombe a mano e una carta
topografica del Subasio, per studiare i piani di attacco e capire come meglio difendere il suo gruppo in caso di
necessità.
Il suo sguardo fermo, era attraversato da brevi sorrisi. Una sottile dolce ironia, era un altro tratto del suo
carattere, lo rendeva ancora più simpatico, ai suoi compagni di lotta.
Diceva spesso d'essere in montagna perché convinto che "la Resistenza è un esercito e ha bisogno di soldati";
o "per prendere di mira il nemico"; che aveva imparato a conoscere "non solo nelle riunioni clandestine, sui
fogli ciclostilati, ma soprattutto dalle stragi e dalle mille razzie che il nazifascismo seminava dovunque
passasse" .
Diceva che lo riconosceva "nel fumo dei villaggi dati alle fiamme, negli eccidi di donne incinte, di neonati e
vecchi, così come nella caccia spietata ai giovani renitenti e agli antifascisti"(dall'articolo "Il partigiano
Milan", di Enzo Rossi, apparso sui " Quaderni della Provincia", Perugia, al 40° della Resistenza).
Quando gli fu affidato il comando di brigata, "non mosse un dito per ottenerlo, ma non fece un passo indietro
per non prendere quella responsabilità". Ad assegnargli tale comando fu direttamente Mario Angelucci, uno
spellano, membro della giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).
Tale notizia la portò direttamente, Enzo Rossi, alla famosa riunione di Cesi, quella mattina.
Il compito che gli veniva affidato era di tenere sotto controllo la Flaminia Nord−Ovest di Foligno, il Subasio e
la strada per Perugia, nel tratto Foligno−Spello−Assisi.
Milan conosceva la zona, e lo dimostrò seminando panico tra i fascisti e i tedeschi, che per questo gli davano
la caccia.
Le sue parole, la sua sicurezza trasmettevano ai suoi uomini, specialmente ai giovani partigiani di Spello,
serenità e allo stesso tempo voglia di battersi.
Questi giovani lo sapevano venuto da lontano, come tanti nel movimento partigiano, animato da nobili ideali e
dalla fierezza dei pastori balcani, solitari e indipendenti.
Aveva in attivo tre lunghi anni di guerra.
Aveva lasciato la famiglia, molto ricca (il padre un industriale), "per seguire il pensiero di Marx", come
diceva lui. Da ragazzo s'era buttato, assieme ad un suo fratello e sorella, nella lotta partigiana, per "dare
dignità ai contadini e mobilitarli contro il padrone fascista e l'invasore nazista", come disse in una riunione
tenuta in casa dei due fratelli Bordoni (Antonio e Balilla), di Spello,
Informava i giovani spellani che in diversi paesi europei era in atto "la rivoluzione" e che "bisogna combattere
anche qui a Spello, con i contadini silenziosi, ma bisognosi di riscatto".
Va da se che i fratelli Formica e Bordoni, ,Silvio Marchetti, Tullio Tordoni e gli altri del gruppo, erano fieri
del loro comandante. Alla sua guida cominciarono le prime azioni.
"Ogni mattina, Milan. portava i suoi uomini su una delle due strade, sotto i colli di Spello". Una volta verso
Foligno, l' altra verso Assisi.
"Si piazzava in mezzo alla strada, vicino alle curve, armato, avendo già adocchiato il passaggio di qualche
automezzo tedesco o fascista e aspettava, mentre i giovani spellani e folignati erano nascosti con i loro fucili
pronti a far fuoco lungo il ciglio della strada, o nei campi a distanza opportuna" (da "Il partigiano Milan", di
Enzo Rossi).
Al sopraggiungere dell'automezzo, "che non si fermava mai", Milan balzava di lato e poi sparava, "cercando
di colpire il serbatoio", quando era ben in vista. I giovani sparavano a loro volta. Spesso riuscivano nell'
obbiettivo.
Il gruppo scompariva nella vegetazione e su per le colline, per ritrovarsi, poi, presso le case dei contadini.
In una di queste azioni, nei pressi della Chiesa Tonda, sulla Statale 75, fu ferito Silvio Marchetti, dallo
scoppio di una bomba a mano, che lanciata da un lato della strada, ruzzolò dall'altro, dopo aver rimbalzato sul
tetto dell' automezzo.
A questi attacchi quasi sempre seguivano le reazioni tedesche e fasciste. Una delle più clamorose fu quella che
avvenne nei pressi di Colpernieri, dove una trentina di camicie nere tesero al gruppo
un' imboscata.
"La brigata "Milan" dormiva in un "casone" vicino alla chiesetta. La notte era di luna piena e le stelle
silenziose e pieno di misteri, come sempre, pigolavano in alto, quando dal monte giunse un fragoroso fruscio
delle fronde.
Di guardia era Tullio Tordoni che insospettitosi, dette subito l'allarme. Appena fuori videro confusamente
scendere dal monte un folto gruppo indistinto di uomini(l).
"Prontamente Milan dette ordini di scendere a valle, in fondo alla spaccatura della Chiona, per metterli al
sicuro.
Lui, solo, si mise ben in vista, da farsi notare e li aspettò".
Appena li ebbe sotto tiro, mirò ad uno di essi e lo fece "secco", Gli altri coprendosi dagli alberi, accerchiarono
la sommità del colle, da dove s’era fatto notare Milan e "cominciarono tutti a sparare con moschetti e mitra e a
lanciare bombe a mano, finendo con lo sparare gli uni contro gli altri, scambiando i loro colpi con quelli del
presunto nemico, che non c'era".
La sparatoria durò tutta la mattinata.
Verso la "mezza", i militi, finite le munizioni e stanchi, si ritirarono col loro morto e due feriti.
Ma prima di scendere per Collepino, minacciarono di morte la famiglia del contadino della casa vicina, il
quale si difese molto bene, dicendo: "Le prime vittime dei tremila partigiani slavi, siamo proprio noi. Noi che
veniamo continuamente saccheggiati minacciati di morte".
Anche a questa brillante tattica militare e astuzia partigiana, non si farà attendere la rappresaglìa nazifascista,
come si dirà più avanti.
Per Milan e il suo gruppo fare la guerra non significava soltanto "mettere del piombo nel corpo del nemico",
come ironicamente usava dire, o mettere a repentaglio la propria pelle, guidare gli uomini nel combattimento,
così come nelle attese snervanti su monti innevati, al freddo e alla fame. Era anche questo.
Ma, soprattutto, era prepararsi e preparare gli animi dei compagni, "darsi una ragione nobile per il dopo", per
"la fine della guerra” per "gli anni della pace", per realizzare la più ampia partecipazione popolare alla vita
politica e sociale, nella consapevolezza che "I Tempi maturano verso qualcosa che muore e qualcosa che
nasce" .
E lì, tra i partigiani, stava morendo qualcosa e qualcos' altro nasceva.
"Noi stiamo costruendo su queste montagne il futuro dei nostri figli e nipoti, affinché loro possano vivere un
presente migliore”, aveva detto, Milan, in qualche momento di riposo, ai suoi brigatisti.
"Le ultime parole di Milan le sentii mentre ero presso un contadino, non lontano da Spello.
Mi fissava col suo sguardo limpido e acuto; e fissava contemporaneamente i figli del contadino: "Tutto perché
questi bambini non abbiano a vedere il mondo che abbiamo visto noi", disse. (da "Il Partigiano Milan, di Enzo
Rossi).
Verso la prima metà di giugno 1944, pochi giorni prima che giungessero gli Alleati a liberare Foligno e
Spello, il Comandante con la sua brigata stava preparando un piano per liberare, dal campo di concentramento
di Campello, i civili italiani catturati durante i vari rastrellamenti e pronti per essere deportati in Germania.
Il piano non fu portato a termine per il sopraggiungere di una crisi cardiaca a quel giovane dai capelli biondi e
gli occhi azzurri, il cui debole cuore già da tempo lo costringeva a fermarsi durante le lunghe e dure salite sul
monte, perchè non riusciva a tenere il passo dei suoi partigiani.
Lo porteranno, clandestinamente, prima all'ospedale di Foligno e poi a quello di Perugia, dove morirà dopo
qualche mese.
Con Milan moriva un ragazzo, come tanti, che aveva scelto di fare la sua "piccola" guerra di Liberazione sul
Subasio.
Chi lo conobbe ricorderà "le rose rosse che non mancavano mai sulla sua tomba" nel cimitero di Perugia, dove
aveva voluto essere sepolto, affinché le sue ossa, un giorno, fossero mescolate a quelle dei contadini umbri,
"nel grande ossario comune".

(I) Da una lettera di denuncia di Balilla Bordoni del 30.8.1945, indirizzata al CLN, si racconta che il 24
ottobre 1943 "nel rastrellamento a Collepino parteciparono circa 370 fascisti al comando di un console e di
un maggiore di Assisi". Nella stessa lettera si afferma che "nella notte del 12−13 gennaio 1944 alle ore 2.30
un plotone di trenta militi, tra fascisti e tedeschi, penetrò violentemente nella mia casa arrestando me e mio
fratello più piccolo, Antonio, sottoponendoci ad interrogatori a suon di nerbate".

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